Il principio responsabilità di Hans Jonas
di Maurizio Moscone
Papa Francesco nell’Enciclica Laudatu si’ si pone questa domanda: “Che tipo di mondo desideriamo trasmettere a coloro che verranno dopo di noi, ai bambini che stanno crescendo? […].[1] e continua il discorso dicendo
“[…] se questa domanda viene posta con coraggio, ci conduce inesorabilmente ad altri interrogativi molto diretti: A che scopo passiamo da questo mondo? Per quale fine siamo venuti in questa vita? Per che scopo lavoriamo e lottiamo? Perché questa terra ha bisogno di noi? Pertanto, non basta più dire che dobbiamo preoccuparci per le future generazioni. Occorre rendersi conto che quello che c’è in gioco è la dignità di noi stessi. Siamo noi i primi interessati a trasmettere un pianeta abitabile per l’umanità che verrà dopo di noi. È un dramma per noi stessi, perché ciò chiama in causa il significato del nostro passaggio su questa terra.
Le previsioni catastrofiche ormai non si possono più guardare con disprezzo e ironia. Potremmo lasciare alle prossime generazioni troppe macerie, deserti e sporcizia. Il ritmo di consumo, di spreco e di alterazione dell’ambiente ha superato le possibilità del pianeta, in maniera tale che lo stile di vita attuale, essendo insostenibile, può sfociare solamente in catastrofi, come di fatto sta già avvenendo periodicamente in diverse regioni. L’attenuazione degli effetti dell’attuale squilibrio dipende da ciò che facciamo ora, soprattutto se pensiamo alla responsabilità che ci attribuiranno coloro che dovranno sopportare le peggiori conseguenze”[2].
Come si vede, il Papa si pone dei problemi che riguardano la nostra responsabilità morale riguardo al futuro dell’umanità e dell’ambiente. Propriamente si può affermare che il Pontefice sostiene un’ ”etica del futuro”, la quale è il centro della riflessione filosofica svolta da Hans Jonas (1903-1993) nel suo saggio intitolato Il principio responsabilità, la cui conoscenza può offrire una chiave di lettura per interpretare gli aspetti più significativi dell’enciclica.
L’etica del futuro di Jonas
La teoria della responsabilità costituisce il centro dell’opera Il principio responsabilità, nelle prime pagine della quale è delineato il quadro concettuale dell’intero saggio.
L’etica tradizionale, secondo Jonas, “aveva a che fare con il qui e l’ora”[3], poiché non doveva occuparsi delle conseguenze future delle azioni umane. I rapporti umani si svolgevano in tempi e spazi delimitati e le scelte morali non “erano oggetto di pianificazione a distanza”[4].
L’etica era quindi connotata dall’immediatezza e le norme che regolavano l’agire morale si riferivano a un universo di esseri umani che vivevano nel presente e condividevano lo stesso orizzonte spazio-temporale, “per cui tutti gli imperativi e le massime dell’etica tradizionale, per quanto diversi possano essere dal punto di vista del contenuto, mostrano tale limitazione al campo immediato dell’azione.
I rapporti umani si svolgevano nella contemporaneità[5] e “nessuno era ritenuto responsabile per le conseguenze involontarie di un suo atto ben intenzionato, ben ponderato, ben eseguito”[6].
Lo spazio al cui interno gli esseri umani si relazionavano tra di loro era delimitato all’interno della “città”, ed essa “costituiva l’intero e unico ambito della responsabilità umana”[7], poiché la natura non rappresentava un problema morale, ritenendo che essa fosse invulnerabile e rimanesse immutabile nel tempo[8].
La natura non poteva essere danneggiata dalla tecnica perché le abilità manuali dell’homo faber erano limitate, per cui ogni rapporto con essa “era neutrale sotto il profilo etico in relazione tanto all’oggetto quanto al soggetto dell’agire”[9].
Dal punto di vista oggettivo la tecnica non poteva provocare “danni duraturi”[10] e dal punto di vista soggettivo l’essere umano si serviva della tecnica per le sue necessità quotidiane e non la considerava “come il fine primario dell’umanità”[11].
L’etica tradizionale, considerando il contesto socio-culturale in cui l’uomo viveva, riteneva che il sapere scientifico non fosse necessario per garantire la moralità delle azioni[12], perché era sufficiente il sapere ordinario[13], infatti come afferma Kant, citato da Jonas, “non c’è bisogno né di scienza né di filosofia per sapere ciò che si deve fare per essere buoni e virtuosi, e perfino saggi e virtuosi”[14].
In generale, l’etica tradizionale poteva stabilire una serie di imperativi vincolanti per le azioni umane, perché la loro natura si presentava immutabile nel tempo.
Nella civiltà tecnologica è avvenuto un cambiamento qualitativo, poiché la tecnica moderna ha mutato la natura dell’agire umano[15].
Jonas evidenzia che “la natura dell’agire umano si è de facto modificata e che un oggetto di ordine completamente nuovo, nientemeno che l’intera biosfera del pianeta, è stato aggiunto al novero delle cose per cui dobbiamo essere responsabili, in quanto su di esso abbiamo potere. E che oggetto di sconvolgente grandezza, davanti al quale tutti gli oggetti precedenti dell’agire umano appaiono irrilevanti!”[16].
L’essere umano è quindi responsabile nei confronti della natura e non soltanto dei rapporti inter-umani; l’etica del futuro deve quindi abbandonare l’antropocentrismo dell’etica tradizionale[17] e riconoscere che la biosfera “sia diventata […] qualcosa che è dato in custodia all’uomo e avanzi perciò nei nostri confronti una sorta di pretesa morale […]”[18].
L’Autore sottolinea che la custodia della natura da parte dell’uomo è finalizzata al bene non soltanto dell’uomo, ma anche della natura[19] e quindi l’etica dovrebbe estendere “il riconoscimento dei ‘fini in sé’ al mondo naturale”[20].
Esistono quindi anche dei “diritti” della natura, oltre che dell’uomo, e l’umanità ha il dovere di ascoltare gli appelli[21] che provengono dalla natura e soprattutto il “muto appello a preservarne l’integrità [che] sembra salire dalla totalità minacciata del mondo vivente”[22]. E’ necessario quindi un ripensamento del rapporto uomo-natura che coinvolga, oltre all’etica, anche la metafisica, “che in ultima analisi deve costituire il fondamento di ogni etica”[23].
“Il Prometeo [è] irresistibilmente scatenato”[24] e le “promesse della tecnica si sono trasformate in minaccia”[25] per l’umanità. La tecnica è animata da un impulso prometeico che la spinge a raggiungere un progresso illimitato, “il cui traguardo di dominio sulle cose e sull’uomo appare come l’adempimento della sua destinazione”[26].
Secondo Jonas, è’ in gioco il futuro della specie umana e della stessa natura, che è diventata la “città universale” nella quale l’essere umano vive, essendo stato cancellato il confine tra polis e natura[27], perché “la città degli uomini, un tempo un’enclave del mondo non umano, si estende ora alla totalità della natura terrena e ne usurpa il posto”[28].
La tecnica ha esteso il suo dominio su tutta la natura e, di conseguenza, è sparita la differenza tra artificiale e naturale[29]. Il rapporto della tecnica con la natura non è più moralmente neutrale, come in passato, ma assume una rilevanza etica sempre maggiore, proporzionata alle conseguenze prodotte dai suoi progressi sulla vita dell’umanità e dell’intera biosfera[30].
La sviluppo della civiltà tecnologica impone all’etica nuove dimensioni della responsabilità, non contemplate nell’etica tradizionale, infatti “nessuna etica del passato doveva tener conto della condizione globale della vita umana e del futuro lontano, anzi della sopravvivenza della specie”[31]
L’assioma fondamentale dell’etica del futuro riguarda l’esistenza di “un mondo adatto ad essere abitato dall’uomo”[32], oggetto dell’obbligazione è la presenza dell’uomo nel mondo, che costituiva per l’etica tradizionale un dato indiscutibile[33].
Gli imperativi validi per l’etica del passato, caratterizzata dall’immediatezza e dalla contemporaneità, dovranno essere sostituiti con altri adatti alla nuova situazione storica. Ad esempio l’imperativo categorico di Kant che affermava: “agisci in modo che anche tu possa volere che la tua massima diventi legge universale”[34], dovrebbe essere sostituito con il seguente: “Agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita umana sulla terra”[35].
Le stesse tematiche trattate da Jonas si ritrovano nell’ Enciclica Laudatu si’, la quale è condivisibile da tutti coloro, credenti e non credenti, che hanno a cuore il futuro dell’umanità e dell’ambiente nel quale viviamo.
*
*
Seconda parte
Antropocentrismo e degrado ambientale e umano
Il Papa auspica l’affermazione di un’ “etica ecologica” che ci aiuti a “sentire nuovamente che abbiamo bisogno gli uni degli altri, che abbiamo una responsabilità verso gli altri e verso il mondo, che vale la pena di essere buoni e onesti. Già troppo a lungo siamo stati nel degrado morale, prendendoci gioco dell’etica, della bontà, della fede, dell’onestà, ed è arrivato il momento di riconoscere che questa allegra superficialità ci è servita a poco. […]”[1].
Il degrado morale nel quale siamo vissuti, e viviamo tutt’oggi, ha provocato il degrado ambientale che è sotto gli occhi di tutti. Tale degrado colpisce non soltanto la natura, ma anche la società e soprattutto i più poveri.
Francesco scrive in proposito:
“L’ambiente umano e l’ambiente naturale si degradano insieme, e non potremo affrontare adeguatamente il degrado ambientale, se non prestiamo attenzione alle cause che hanno attinenza con il degrado umano e sociale. Di fatto, il deterioramento dell’ambiente e quello della società colpiscono in modo speciale i più deboli del pianeta: «Tanto l’esperienza comune della vita ordinaria quanto la ricerca scientifica dimostrano che gli effetti più gravi di tutte le aggressioni ambientali li subisce la gente più povera»”[2].
Il Pontefice, per sottolineare le conseguenze del deterioramento ambientale sui più poveri, esemplifica il suo pensiero scrivendo:
“[…] L’esaurimento delle riserve ittiche penalizza specialmente coloro che vivono della pesca artigianale e non hanno come sostituirla, l’inquinamento dell’acqua colpisce in particolare i più poveri che non hanno la possibilità di comprare acqua imbottigliata, e l’innalzamento del livello del mare colpisce principalmente le popolazioni costiere impoverite che non ha dove trasferirsi. L’impatto degli squilibri attuali si manifesta anche nella morte prematura di molti poveri, nei conflitti generati dalla mancanza di risorse e in tanti altri problemi che non trovano spazio sufficiente nelle agende del mondo”[3].
Francesco mostra una particolare preoccupazione per l’inquinamento ambientale fino al punto di lanciare un grido di allarme per il rischio che l’intero pianeta si trasformi in un immondezzaio.
Scrive: “C’è da considerare anche l’inquinamento prodotto dai rifiuti, compresi quelli pericolosi presenti in diversi ambienti. Si producono centinaia di milioni di tonnellate di rifiuti l’anno, molti dei quali non biodegradabili: rifiuti domestici e commerciali, detriti di demolizioni, rifiuti clinici, elettronici o industriali, rifiuti altamente tossici e radioattivi. La terra, nostra casa, sembra trasformarsi sempre più in un immenso deposito di immondizia. In molti luoghi del pianeta, gli anziani ricordano con nostalgia i paesaggi d’altri tempi, che ora appaiono sommersi da spazzatura”[4].
L’inquinamento ambientale è strettamente connesso con i danni alla salute delle persone, perché “tanto i rifiuti industriali quanto i prodotti chimici utilizzati nelle città e nei campi, possono produrre un effetto di bio-accumulazione negli organismi degli abitanti delle zone limitrofe, che si verifica anche quando il livello di presenza di un elemento tossico in un luogo è basso. Molte volte si prendono misure solo quando si sono prodotti effetti irreversibili per la salute delle persone”[5].
Un altro motivo di allarme è rappresentato dai cambiamenti climatici causati dall’aumento del gas serra, i cui “progressi sono deplorevolmente molto scarsi. La riduzione dei gas serra richiede onestà, coraggio e responsabilità, soprattutto da parte dei Paesi più potenti e più inquinanti. La Conferenza delle Nazioni Unite sullo Sviluppo Sostenibile denominata Rio+20 (Rio de Janeiro 2012), ha emesso un’ampia quanto inefficace Dichiarazione finale. I negoziati internazionali non possono avanzare in maniera significativa a causa delle posizioni dei Paesi che privilegiano i propri interessi nazionali rispetto al bene comune globale”[6].
L’enorme aumento dei consumi da parte dei paesi più ricchi provoca l’aumento della temperatura della terra, con conseguenze disastrose per la coltivazione dei terreni delle popolazioni più povere.
Scrive: “[…] Il riscaldamento causato dall’enorme consumo di alcuni Paesi ricchi ha ripercussioni nei luoghi più poveri della terra, specialmente in Africa, dove l’aumento della temperatura unito alla siccità ha effetti disastrosi sul rendimento delle coltivazioni. A questo si uniscono i danni causati dall’esportazione verso i Paesi in via di sviluppo di rifiuti solidi e liquidi tossici e dall’attività inquinante di imprese che fanno nei Paesi meno sviluppati ciò che non possono fare nei Paesi che apportano loro capitale […]”[7].
La diagnosi dello stato di salute del pianeta-terra condotta da Francesco è molto realistica, anche perché il Pontefice si è avvalso della consulenza dei migliori specialisti nel campo dell’ecologia.
C’è da chiedersi perché l’umanità si è così corrotta da non rispettare l’ambiente naturale in cui vive e da disprezzarlo fino a renderlo un immondezzaio e a non curarsi del destino delle popolazioni più povere che maggiormente risentono del degrado ambientale.
La risposta va ricercata nel perdurare, a livello socio-culturale, delle conseguenze dell’ “antropocentrismo moderno”[8], il quale “paradossalmente, ha finito per collocare la ragione tecnica al di sopra della realtà, perché questo essere umano «non sente più la natura né come norma valida, né come vivente rifugio. La vede senza ipotesi, obiettivamente, come spazio e materia in cui realizzare un’opera nella quale gettarsi tutto, e non importa che cosa ne risulterà»”[9].
Nella modernità, continua il suo discorso Francesco, “si è verificato un notevole eccesso antropocentrico che, sotto altra veste, oggi continua a minare ogni riferimento a qualcosa di comune e ogni tentativo di rafforzare i legami sociali […]”[10].
Questo eccesso antropologico è stato analizzato da Giovanni Paolo II nel suo saggio intitolato Memoria e identità, nel quale il Santo Padre sottolinea come nella modernità, soprattutto con Cartesio, è avvenuta una rivoluzione filosofica, in base alla quale la realtà, l’essere, che era il centro e il punto di partenza della filosofia di San Tommaso diviene secondario
e viene sostituto con il pensiero umano, quindi con l’io umano, inteso come ente pensante, al quale compete di decidere ciò che è vero e ciò che è falso, ciò che è bene e ciò che è male, non dovendo confrontarsi con una realtà al di fuori del suo pensiero.
Giovanni Paolo II scrive in proposito: “Il cogito, ergo sum – penso, dunque sono – portò con sé un capovolgimento nel modo di fare filosofia. Nel periodo precartesiano la filosofia, e dunque il cogito, o piuttosto il cognosco, era subordinato all’esse, che era considerato qualcosa di primordiale. A Cartesio invece l’esse apparve secondario, mentre il cogito fu da lui giudicato primordiale. In tal modo non soltanto si operava un cambiamento di direzione nel filosofare – ma si abbandonava decisamente ciò che la filosofia era stata fino allora, ciò che era stata in particolare la filosofia di san Tommaso d’Aquino: la filosofia dell’esse. Prima, tutto veniva interpretato nell’ottica dell’esse e di tutto si cercava una spiegazione secondo quell’ottica. Dio come Essere pienamente autosufficiente (Ens subsistens) era ritenuto l’indispensabile sostegno per ogni ens non subsistens, ens participatum, cioè per tutti gli esseri creati, e dunque anche per l’uomo. Il cogito, ergo sum comportò la rottura con quella linea di pensiero. Primordiale diventava ormai l’ens cogitans. Dopo Cartesio, la filosofia diventa una scienza del puro pensiero: tutto ciò che è esse – sia il mondo creato che il Creatore – rimane nel campo del cogito, come contenuto della coscienza umana. La filosofia si occupa degli esseri in quanto contenuti della coscienza, e non in quanto esistenti fuori di essa”[11].
Dal pensiero moderno in poi Dio non è più considerato l’origine e il centro dell’universo, il suo posto è stato preso dall’essere umano, il quale, scrive Francesco, “pone sé stesso al centro, finisce per dare priorità assoluta ai suoi interessi contingenti, e tutto il resto diventa relativo”[12].
La conseguenza dell’antropocentrismo è il relativismo pratico, del quale il Papa ha parlato anche nell’Evangelii gaudium.
La cultura del relativismo è portatrice di una logica perversa secondo la quale “tutto diventa irrilevante se non serve ai propri interessi immediati”[13].
Si comprende quindi come questo modo di pensare possa condurre un essere umano a trattare il prossimo come un oggetto, che si può anche schiavizzare o ad abusare sessualmente dei bambini, ad abbandonare gli anziani, a disinteressarsi degli effetti perniciosi di un’economia finalizzata unicamente all’accumulazione del profitto.
Scrive in proposito:
“[…] La cultura del relativismo è la stessa patologia che spinge una persona ad approfittare di un’altra e a trattarla come un mero oggetto, obbligandola a lavori forzati, o riducendola in schiavitù a causa di un debito. È la stessa logica che porta a sfruttare sessualmente i bambini, o ad abbandonare gli anziani che non servono ai propri interessi. È anche la logica interna di chi afferma: “lasciamo che le forze invisibili del mercato regolino l’economia, perché i loro effetti sulla società e sulla natura sono danni inevitabili […]”[14].
Quando Benedetto XVI denunciava la “dittatura del relativismo”, oggi imperante, parlava, non come grande intellettuale quale egli è, ma come Pastore che mette in guardia l’umanità dai rischi connessi con questa inedita filosofia pratica, secondo la quale, come scrive Francesco:
“[…]non ci sono verità oggettive né principi stabili, al di fuori della soddisfazione delle proprie aspirazioni e delle necessità immediate”[15] e, per conseguenza “che limiti possono avere la tratta degli esseri umani, la criminalità organizzata, il narcotraffico, il commercio di diamanti insanguinati e di pelli di animali in via di estinzione? Non è la stessa logica relativista quella che giustifica l’acquisto di organi dei poveri allo scopo di venderli o di utilizzarli per la sperimentazione, o lo scarto di bambini perché non rispondono al desiderio dei loro genitori? […]”[16].
[La terza parte sarà pubblicata sabato prossimo]
***
[1] Francesco, Laudato si’. Lettera enciclica sulla cura della casa comune, n. 229.
[2] Ibidem, n. 48. Nell’Enciclica viene ciato il documento della Conferenza Episcopale Boliviana, Lettera pastorale sull’ambiente e lo sviluppo umano in Bolivia. El universo, don de Dios para la vida (2012), 17.
[3] Ibidem.
[4] Ibidem, n. 21.
[5] Ibidem.
[6] Ibidem, n. 169.
[7] Ibidem, n. 51.
[8] Ibidem, n. 115.
[9] Ibidem. Nell’Enciclica è citato R. Guardini, Das Ende der Neuzeit, 63 (ed. it.:La fine dell’epoca moderna, 57-58)
[10] Ibidem, n. 116.
[11] Giovanni Paolo II, Memoria e identità, Rizzoli, Milano 2005, pp.18-19.
[12] Francesco, Laudato si’. Lettera enciclica sulla cura della casa comune, n. 122.
[13] Ibidem, n. 121.
[14] Ibidem, n. 122.
[15] Ibidem, n. 123.
[16] Ibidem.
*
Terza parte
*
Terza parte
L’affermazione prometeica dell’essere umano, che si considera padrone del mondo, ha comportato di fatto un asservimento dell’agire umano al potere della tecnologia, la quale, emancipata da ogni istanza etica, consente di dominare la natura e di manipolarla secondo i bisogni dell’uomo.
Il Papa sostiene che il “paradigma tecnocratico” è globalizzato e “[…] di fatto l’umanità ha assunto la tecnologia e il suo sviluppo insieme ad un paradigma omogeneo e unidimensionale. In tale paradigma risalta una concezione del soggetto che progressivamente, nel processo logico-razionale, comprende e in tal modo possiede l’oggetto che si trova all’esterno. Tale soggetto si esplica nello stabilire il metodo scientifico con la sua sperimentazione, che è già esplicitamente una tecnica di possesso, dominio e trasformazione. È come se il soggetto si trovasse di fronte alla realtà informe totalmente disponibile alla sua manipolazione. […]”[1].
La scienza e la tecnica, che secondo l’Illuminismo e il Positivismo, avrebbero dovuto risolvere tutti i problemi dell’umanità e renderla felice, sono viste oggi con sospetto dalla gente, che “[…] ormai non sembra credere in un futuro felice, non confida ciecamente in un domani migliore a partire dalle attuali condizioni del mondo e dalle capacità tecniche. Prende coscienza che il progresso della scienza e della tecnica non equivale al progresso dell’umanità e della storia, e intravede che sono altre le strade fondamentali per un futuro felice.[…]”[2].
Una volta affermatosi il principio che è moralmente lecito tutto ciò che è scientificamente e tecnicamente possibile, ne consegue che le finalità e le metodologie utilizzate dalla “tecnoscienza” condurranno al degrado dell’ambiente.
Scrive in proposito Francesco:
“Possiamo […] affermare che all’origine di molte difficoltà del mondo attuale vi è anzitutto la tendenza, non sempre cosciente, a impostare la metodologia e gli obiettivi della tecnoscienza secondo un paradigma di comprensione che condiziona la vita delle persone e il funzionamento della società. Gli effetti dell’applicazione di questo modello a tutta la realtà, umana e sociale, si constatano nel degrado dell’ambiente […].[3]”
Secondo il Papa è possibile liberarsi dal paradigma tecnocratico oggi imperante, perché “[…] la libertà umana è capace di limitare la tecnica, di orientarla, e di metterla al servizio di un altro tipo di progresso, più sano, più umano, più sociale e più integrale. […]”[4].
La tecnica deve rispettare i principi morali inscritti nel cuore dell’uomo, perché “[…] quando la tecnica non riconosce i grandi principi etici, finisce per considerare legittima qualsiasi pratica. […]”[5], come, ad esempio la sperimentazione su embrioni umani vivi[6].
L’economia e la politica si sono oggi, di fatto, rese completamente autonome dall’etica e, di conseguenza, “il paradigma tecnocratico tende ad esercitare il proprio dominio anche sull’economia e sulla politica. […]”[7].
La tecnologia posta al servizio dell’economia capitalista consente un grande accrescimento dei profitti delle imprese, le quali non si curano affatto degli effetti che il liberismo economico produce sull’ambiente.
Scrive il Papa:
“L’economia assume ogni sviluppo tecnologico in funzione del profitto, senza prestare attenzione a eventuali conseguenze negative per l’essere umano. La finanza soffoca l’economia reale. Non si è imparata la lezione della crisi finanziaria mondiale e con molta lentezza si impara quella del deterioramento ambientale. In alcuni circoli si sostiene che l’economia attuale e la tecnologia risolveranno tutti i problemi ambientali, allo stesso modo in cui si afferma, con un linguaggio non accademico, che i problemi della fame e della miseria nel mondo si risolveranno semplicemente con la crescita del mercato […]”[8].
Il mercato è oggi “divinizzato”[9] e non ci rendiamo conto che “[…] il paradigma tecno-economico finisce per distruggere non solo la politica ma anche la libertà e la giustizia. […]”[10].
Questo paradigma tecno-economico che si è affermato nei Paesi più ricchi e potenti del terra è all’origine del fallimento di tutte le conferenze mondiali sull’ambiente.
Scrive in proposito Francesco:
“La sottomissione della politica alla tecnologia e alla finanza si dimostra nel fallimento dei Vertici mondiali sull’ambiente. Ci sono troppi interessi particolari e molto facilmente l’interesse economico arriva a prevalere sul bene comune e a manipolare l’informazione per non vedere colpiti i suoi progetti. […]”[11].
Il Papa si appella al Documento di Aparecida, il quale chiedeva che “[…] negli interventi sulle risorse naturali non prevalgano gli interessi di gruppi economici che distruggono irrazionalmente le fonti di vita. […]”[12].
In questo documento sono contenute le conclusioni della conferenza dei Vescovi latinoamericani tenutasi nel 2007, in Brasile, nel santuario mariano dell'Aparecida.
Papa Bergoglio, allora arcivescovo di Buenos Aires, fu il presidente della commissione che redasse il testo finale e, durante la conferenza, si scontrò con i Vescovi che proponevano un’interpretazione ideologica del problema della povertà, affermando il valore evangelico dell’opzione preferenziale dei poveri.
Il Documento di Aparecida riveste un significato centrale per la Chiesa universale, e non soltanto per quella dell’America latina, ma difficilmente può avere presa sul mondo dell’economia e della finanza perché “[…]l’alleanza tra economia e tecnologia finisce per lasciare fuori tutto ciò che non fa parte dei loro interessi immediati. Così ci si potrebbe aspettare solamente alcuni proclami superficiali, azioni filantropiche isolate, e anche sforzi per mostrare sensibilità verso l’ambiente, mentre in realtà qualunque tentativo delle organizzazioni sociali di modificare le cose sarà visto come un disturbo provocato da sognatori romantici o come un ostacolo da eludere”[13].
Il Papa, richiamandosi a precedenti encicliche di Giovanni XXIII e di Benedetto XVI, auspica l’istituzione di una Autorità politica mondiale che dovrebbe assumersi il compito di governare l’economia mondiale per garantire il rispetto dei diritti delle persone e dell’ambiente in cui vivono e la prevenzione di squilibri economici futuri.
Scrive:
“[…] Come ha affermato Benedetto XVI nella linea già sviluppata dalla dottrina sociale della Chiesa, «per il governo dell’economia mondiale; per risanare le economie colpite dalla crisi, per prevenire peggioramenti della stessa e conseguenti maggiori squilibri; per realizzare un opportuno disarmo integrale, la sicurezza alimentare e la pace; per garantire la salvaguardia dell’ambiente e per regolamentare i flussi migratori, urge la presenza di una vera Autorità politica mondiale, quale è stata già tratteggiata dal mio Predecessore, [san] Giovanni XXIII». In tale prospettiva, la diplomazia acquista un’importanza inedita, in ordine a promuovere strategie internazionali per prevenire i problemi più gravi che finiscono per colpire tutti [14]
[1] Ibidem, n. 106. Il corsivo è nel testo.
[2] Ibidem, n. 113.
[3] Ibidem, n. 107.
[4] Ibidem, n. 112.
[5] Ibidem, n. 136.
[6] Cfr. Ibidem.
[7] Ibidem, n. 109.
[8] Ibidem.
[9] Ibidem, n. 56.
[10] Ibidem, n. 53.
[11] Ibidem, n. 54.
[12] Ibidem.
Il Documento di Aparecida è stato approvato il 29 giugno 2007 dalla V Conferenza Generale dell'Episcopato Latinoamericano e dei Caraibi.
[13] Ibidem.
[14] Ibidem, n. 175.