domenica 3 luglio 2011

Imparate da me che sono mite ed umile di cuore




Riporto due testi del padre Cantalamessa a proposito del Vangelo di oggi 3 luglio, XIV Domenica del Tempo ordinario. Il primo è una predica che è stata tenuta in Casa pontificia durante la Quaresima del 2007; il secondo è un insegnamento tenuto a Chiaravalle Milanese durante un incontro del Rinnovamento nello Spirito, un pò di anni fa, ma sempre attualissimo. Buona lettura!

* * *
LA MITEZZA


1. Chi sono i miti


La beatitudine sulla quale vogliamo meditare oggi si presta a una osservazione importante. Essa dice: “Beati i miti perché possiederanno la terra”. Ora, in un altro passo dello stesso vangelo di Matteo, Gesú esclama: “Imparate da me che sono mite ed umile di cuore” (Mt 11, 29). Ne deduciamo che le beatitudini non sono solo un bel programma etico che il maestro traccia, per così dire a tavolino, per i suoi seguaci; sono l’autoritratto di Gesú! È lui il vero povero, il mite, il puro di cuore, il perseguitato per la giustizia.


È qui il limite di Gandhi nel suo approccio al discorso della montagna che pure ammirava tanto. Per lui, esso potrebbe anche prescindere del tutto dalla persona storica di Cristo. “Non mi importerebbe nemmeno –egli disse in un’occasione – se qualcuno dimostrasse che l’uomo Gesú in realtà non visse mai e che quanto si legge nei Vangeli non è che frutto dell’immaginazione dell’autore. Perché il Sermone della montagna resterebbe pur sempre vero ai miei occhi” [1].


È, al contrario, la persona e la vita di Cristo che fanno delle beatitudini e dell’intero discorso della montagna qualcosa di più che una splendida utopia etica; ne fanno una realizzazione storica, da cui ognuno può attingere forza per la comunione mistica che lo lega alla persona del Salvatore. Non appartengono solo all’ordine dei doveri, ma anche a quello della grazia.


Per scoprire chi sono i miti proclamati beati da Gesú, giova passare brevemente in rassegna i vari termini con cui la parola miti (praeis) è resa nelle traduzioni moderne. L’italiano ha due termini: miti e mansueti. Quest’ultimo è anche il termine usato nelle traduzioni spagnole, los mansos, i mansueti. In francese la parola è tradotta con doux, alla lettera “i dolci”, coloro che possiedono la virtù della dolcezza. (Non esiste in francese un termine specifico per dire mitezza; nel “Dictionnaire de spiritualité” questa virtù è trattata alla voce douceur, dolcezza).


In tedesco si alternano diverse traduzioni. Lutero traduceva il termine con Sanftm?tigen, cioè miti, dolci; nella traduzione ecumenica della Bibbia, la Eineits Bibel, i miti sono coloro che non fanno alcuna violenza – die keine Gewalt anwenden-, dunque i non-violenti; alcuni autori accentuano la dimensione oggettiva e sociologica e traducono praeis con Machtlosen, gli inermi, i senza potere. L’inglese rende di solito praeis con the gentle, introducendo nella beatitudine la sfumatura di gentilezza e di cortesia.
Ognuna di queste traduzioni mette in luce una componente vera ma parziale della beatitudine. Bisogna tenerle insieme e non isolarne nessuna, per avere un’idea della ricchezza originaria del termine evangelico. Due associazioni costanti, nella Bibbia e nella parenesi cristiana antica, aiutano a cogliere il “senso pieno” di mitezza: una è quella che accosta tra loro mitezza e umiltà, l’altra quella che accosta mitezza e pazienza; l’una mette in luce le disposizioni interiori da cui scaturisce la mitezza, l’altra gli atteggiamenti che spinge ad avere nei confronti del prossimo: affabilità, dolcezza, gentilezza. Sono gli stessi tratti che l’Apostolo mette in luce parlando della carità: “La carità è paziente, è benigna, non manca di rispetto, non si adira…” (1 Cor 13, 4-5).


2. Gesú, il mite


Se le beatitudini sono l’autoritratto di Cristo, la prima cosa da fare nel commentare una di esse è di vedere come è stata vissuta da lui. I vangeli sono da un capo all’altro la dimostrazione della mitezza di Cristo, nel suo duplice aspetto di umiltà e di pazienza. Egli stesso, abbiamo ricordato, si propone a modello di mitezza. A lui Matteo applica le parole dette del Servo di Dio in Isaia: “Non discuterà, né griderà, non spezzerà la canna incrinata e non spegnerà il lucignolo fumigante” (cf. Mt 12, 20). Il suo ingresso in Gerusalemme cavalcando un’asina è visto come un esempio di re “mite” che rifugge da ogni idea di violenza e di guerra (cf. Mt 21, 4).


La prova massima della mitezza di Cristo si ha nella sua passione. Nessun moto d’ira, nessuna minaccia: “Oltraggiato non rispondeva con oltraggi, e soffrendo non minacciava vendetta” (1 Pt 2, 23). Questo tratto della persona di Cristo si era talmente stampato nella memoria dei suoi discepoli che san Paolo, volendo scongiurare i Corinzi per qualcosa di caro e di sacro, scrive loro: “Vi esorto per la mitezza (prautes) e la benignità (epieikeia) di Cristo” (2 Cor 10, 1).


Ma Gesú ha fatto ben più che darci un esempio di mitezza e pazienza eroica; ha fatto della mitezza e della non violenza il segno della vera grandezza. Questa non consisterà più nell’elevarsi solitari sugli altri, sulla massa, ma nell’abbassarsi per servire ed elevare gli altri. Sulla croce, dice Agostino, egli rivela che la vera vittoria non consiste nel fare vittime, ma nel farsi vittima, “Victor quia victima” [2].


Nietzsche, si sa, si è opposto a questa visione, definendola una “morale da schiavi”, suggerita dal “risentimento” naturale dei deboli verso i forti. Predicando l’umiltà e la mitezza, il farsi piccoli, il porgere l’altra guancia, il cristianesimo avrebbe introdotto, secondo lui, una specie di cancro nell’umanità che ne ha spento lo slancio e mortificato la vita…


Da qualche tempo si assiste al tentativo di assolvere Nietzsche da ogni accusa, di addomesticarlo e perfino di cristianizzarlo. Si dice che in fondo egli non se la prende contro Cristo, ma contro i cristiani che in certe epoche hanno predicato una rinuncia fine a se stessa, disprezzando la vita e infierendo contro il corpo…Tutti avrebbero travisato il vero pensiero del filosofo, a cominciare da Hitler…In realtà egli sarebbe stato un profeta dei tempi nuovi, il precursore dell’era postmoderna.


È rimasta, si può dire, una sola voce a opporsi a questa tendenza, quella del pensatore francese René Girard. Secondo lui, tutti questi tentativi fanno torto anzitutto a Nietzsche. Con una perspicacia davvero unica, per il suo tempo, egli ha colto il vero nocciolo del problema, l’alternativa irriducibile tra paganesimo e cristianesimo.


Il paganesimo esalta il sacrificio del debole a favore del forte e dell’avanzamento della vita; il cristianesimo esalta il sacrificio del forte a favore del debole. È difficile non vedere un nesso oggettivo tra la proposta di Nietzsche e il programma hitleriano di eliminazione di interi gruppi umani per l’avanzamento della civiltà e la purezza della razza.


Non è dunque soltanto il cristianesimo il bersaglio del filosofo, ma anche Cristo. “Dioniso contro il crocifisso”: eccovi l’antitesi”, esclama in uno dei suoi frammenti postumi [3].


Girard dimostra che quello che forma il più grande vanto della società moderna –la preoccupazione per le vittime, lo stare da parte del debole e dell’oppresso, la difesa della vita minacciata- è in realtà un prodotto diretto della rivoluzione evangelica che però, per un paradossale gioco di rivalità mimetiche, viene ora rivendicato da altri movimenti, come conquista propria, in opposizione addirittura al cristianesimo [4].


Non è vero che il vangelo mortifica il desiderio di fare grandi cose e di primeggiare. Gesú dice: “Se qualcuno vuol essere il primo, si faccia l’ultimo di tutti e il servo di tutti” (Mc 9, 35). È dunque lecito, e anzi raccomandato, di voler essere il primo; solo il cammino per giungervi è cambiato: non elevandosi sopra gli altri, magari schiacciandoli se sono di ostacolo, ma abbassandosi per elevare gli altri insieme con sé.


3. Mitezza e tolleranza


La beatitudine dei miti è diventata di straordinaria rilevanza nel dibattito su religione e violenza, accesosi dopo l’11 Settembre. Essa ricorda, anzitutto a noi cristiani, che il vangelo non lascia spazio a dubbi. Non ci sono in esso esortazioni alla non violenza, mescolate a esortazioni contrarie. I cristiani possono, in certe epoche, aver tralignato su ciò, ma la fonte è limpida e ad essa la Chiesa può tornare a ispirarsi a ogni epoca, sicura di non trovarvi che verità e santità.


Il vangelo dice che “chi non crederà sarà condannato” (Mc 16,16), ma condannato in cielo, non in terra, da Dio non dagli uomini. “Quando vi perseguiteranno in una città –dice Gesù – fuggite in un’altra” (Mt 10,23); non dice: “mettetela a ferro e fuoco”. Una volta, due suoi discepoli, Giacomo e Giovanni, che non erano stati ricevuti in un certo villaggio di samaritani, dissero a Gesú: “Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?”. Gesú, è scritto, “si voltò e li rimproverò”. Molti manoscritti riportano anche il tenore del rimprovero: “Voi non sapete di che spirito siete. Poiché il Figlio dell’uomo non è venuto a perdere le anime degli uomini, ma a salvarle” (cf. Lc 9, 53-55).


Il famoso compelle intrare, “costringeteli a entrare”, con cui sant’Agostino, anche se a malincuore [5], giustifica la sua approvazione delle leggi imperiali contro i Donatisti [6] e che servirà in seguito a giustificare la coercizione nei confronti degli eretici, è dovuta a una evidente forzatura del testo evangelico, frutto di una lettura meccanicamente letterale della Bibbia.

La frase è messa da Gesú in bocca all’uomo che aveva preparato una grande cena e, di fronte al rifiuto degli invitati di venire, dice ai servi di andare per le strade e lungo le siepi e di “costringere poveri, storpi, ciechi e zoppi ad entrare” (cf. Lc 14, 15-24). È chiaro che costringere non significa altro, nel contesto, che fare una amabile insistenza. I poveri e gli storpi, come tutti gli infelici, potrebbero sentirsi imbarazzati a presentarsi così male in arnese al palazzo: vincete la loro resistenza, raccomanda il padrone, dite loro che non abbiano paura ad entrare. Quante volte, in circostanze simili, noi stessi abbiamo detto: “Mi ha costretto ad accettare”, sapendo bene che l’insistenza in questi casi è segno di benevolenza, non di violenza.


In un libro-inchiesta su Gesú che tanta eco ha suscitato ultimamente in Italia si attribuisce a Gesú la frase: “E quei miei nemici che non volevano che diventassi loro re, conduceteli qui e uccideteli davanti a me” (Lc 19, 27) e se ne deduce che “è a frasi come queste che si rifanno i sostenitori della ‘guerra santa” [7]. Ora va precisato che Luca non attribuisce tali parole a Gesú, ma al re della parabola e si sa che non si possono trasferire di peso dalla parabola alla realtà tutti i dettagli del racconto parabolico, e in ogni caso essi vanno trasferiti dal piano materiale a quello spirituale. Il senso metaforico di quelle parole è che accettare o rifiutare Gesú non è senza conseguenze; è una questione di vita o di morte, ma vita e morte spirituale, non fisica. La guerra santa non c’entra proprio.


4. Con mitezza e rispetto


Ma lasciamo da parte queste considerazioni di ordine apologetico e cerchiamo di vedere come fare della beatitudine dei miti una luce per la nostra vita cristiana. C’è una applicazione pastorale della beatitudine dei miti che inizia già con la Prima Lettera di Pietro. Essa riguarda il dialogo con il mondo esterno: “Adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. Tuttavia questo sia fatto con mitezza (prautes) e rispetto” (1 Pt 3,15-16).


Vi sono stati fin dall’antichità due tipi di apologetica, uno che ha il suo modello in Tertulliano, l’altro in Giustino; l’uno mira a vincere, l’altro a convincere. Giustino scrive un Dialogo con Trifone giudeo, Tertulliano (o un suo discepolo) scrive un trattato Contro i giudei, Adversus Judeos. Tutti e due questi stili hanno avuto un seguito nella letteratura cristiana (il nostro Giovanni Papini era certamente più vicino a Tertulliano che a Giustino), ma certo oggi è da preferire il primo. L’enciclica Deus caritas est dell’attuale Sommo Pontefice è un esempio luminoso di questa presentazione rispettosa e costruttiva dei valori cristiani che da ragione della speranza cristiana “con mitezza e rispetto”.
Il martire sant’Ignazio d’Antiochia suggeriva ai cristiani del suo tempo, nei confronti del mondo esterno, questo atteggiamento sempre attuale: “Davanti alla loro ira, siate miti; di fronte alla loro boria, siate umili” [8].


La promessa legata alla beatitudine dei miti – “possederanno la terra” - si realizza su diversi piani, fino alla terra promessa definitiva che è la vita eterna, ma certamente uno dei piani è quello umano: la terra sono i cuori degli uomini. I miti conquistano la fiducia, attirano gli animi. Il santo per eccellenza della mitezza e della dolcezza, san Francesco di Sales, soleva dire: “Siate più dolci che potete e ricordatevi che si prendono più mosche con una goccia di miele che con un barile di aceto”.


5. Imparate da me


Si potrebbe insistere a lungo su queste applicazioni pastorali della beatitudine dei miti, ma passiamo a un’applicazione più personale. Gesú dice: “Imparate da me che sono mite”. Si potrebbe obbiettare: ma Gesú non si è mostrato, lui stesso, sempre mite! Dice per esempio di non opporsi al malvagio, e “a chi ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l'altra” (Mt 5, 39). Quando però una delle guardie percosse lui sulla guancia, durante il processo davanti al Sinedrio, non è scritto che porse l’altra, ma con calma rispose: “Se ho parlato male, dimostrami dov'è il male; ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?” (Gv 18, 23).


Questo significa che non tutto nel discorso della montagna va preso meccanicamente alla lettera; Gesú, secondo il suo stile, usa delle iperboli e un linguaggio immaginifico per meglio imprimere nella mente dei discepoli una certa idea. Nel caso del porgere l’altra guancia, per esempio, l’importante non è il gesto di porgere l’altra guancia (che a volte può perfino apparire provocatorio), ma di non rispondere alla violenza con altra violenza, di vincere l’ira con la calma.


In questo senso, la sua risposta alla guardia è l’esempio di una mitezza divina. Per misurarne la portata, basta confrontarla con la reazione del suo apostolo Paolo (che pure era un santo) in una situazione analoga. Quando, nel processo davanti al sinedrio, il sommo sacerdote Anania ordina di percuotere Paolo sulla bocca, egli risponde: “Dio percuoterà te, muro imbiancato” (Atti 23, 2-3).


Un altro dubbio va chiarito. Nello stesso discorso della montagna Gesù dice: “Chi dice al fratello: stupido, sarà sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: pazzo, sarà sottoposto al fuoco della Geenna” (Mt 5, 22). Ora più volte nel vangelo egli si rivolge agli scribi e ai farisei chiamandoli “ipocriti, stolti e ciechi” (cf. Mt 23, 17; rimprovera i discepoli chiamandoli “sciocchi e tardi di cuore” (cf. Lc 24, 25).


Anche qui la spiegazione è semplice. Bisogna distingue tra l’ingiuria e la correzione. Gesú condanna le parole dette con rabbia e con l’intenzione di offendere il fratello, non quelle che mirano a fare prendere coscienza del proprio errore e a correggere. Un padre che dice al figlio: sei un indisciplinato, un disobbediente, non intende offenderlo, ma correggerlo. Mosè viene definito dalla Scrittura “più mansueto di ogni uomo che è sulla terra” (Num 12,3), eppure nel Deuteronomio lo sentiamo esclamare rivolto a Israele: “Così ripaghi il Signore, o popolo stolto e insipiente?” (Dt 32,6).


Quello che decide è se chi parla parla per amore o per odio. “Ama e fa’ ciò che vuoi”, diceva sant’Agostino. Se ami, sia che correggi, sia che lasci correre, sarà amore. L’amore non fa alcun male al prossimo, dalla radice dell’amore, come da albero buono, non possono nascere che frutti buoni [9].


6. Miti di cuore


Siamo giunti così al terreno proprio della beatitudine dei miti, il cuore. Gesù dice: “Imparate da me che sono mite ed umile di cuore”. La vera mitezza si decide lì. È dal cuore, dice, che provengono omicidi, cattiverie, calunnie (Mc 7, 21-22), come dai ribollimenti interni del vulcano fuoriescono lava, cenere e lapilli infuocati. Le più grandi esplosioni di violenza, come le guerre e liti, cominciano, dice san Giacomo, segretamente dalle “passioni che si agitano dentro il cuore dell’uomo” (cf. Gc 4, 1-2). Come esiste un adulterio del cuore, così esiste un omicidio del cuore: “Chiunque odia il proprio fratello, scrive Giovanni, è omicida” (1 Gv 3,15).


Non c’è solo la violenza delle mani, c’è anche quella dei pensieri. Dentro di noi, se ci facciamo caso, si svolgono quasi in continuazione “processi a porte chiuse”. Un monaco anonimo ha delle pagine di una grande penetrazione a questo riguardo. Parla da monaco, ma quello che dice non vale solo per i monasteri; porta l’esempio dei sudditi, ma è evidente che il problema si pone in altro modo anche per i superiori.


“Osserva, dice, anche per un solo giorno, il corso dei tuoi pensieri: ti sorprenderà la frequenza e la vivacità delle tue critiche interne con immaginari interlocutori, se non altro con quelli che ti stanno vicino. Qual è di solito la loro origine? Questo: lo scontento a causa dei superiori che non ci vogliono bene, non ci stimano, non ci capiscono; sono severi, ingiusti o troppo gretti con noi o con altri ‘oppressi’. Siamo scontenti dei nostri fratelli, ‘senza comprensione, cocciuti, sbrigativi, confusionari o ingiuriosi…Allora nel nostro spirito si crea un tribunale, nel quale siamo procuratore, presidente, giudice e giurato; raramente avvocato, se non a nostro favore. Si espongono i torti; si pesano le ragioni; ci si difende e ci si giustifica; si condanna l’assente. Forse si elaborano piani di rivincita o raggiri vendicativi…” [10].


I Padri del deserto, non dovendo lottare contro nemici esterni, hanno fatto di questa battaglia interiore ai pensieri (i famosi logismoi) il banco di prova di ogni progresso spirituale. Hanno anche elaborato un metodo di lotta. La nostra mente, dicevano, ha la capacità di precorrere lo svolgimento di un pensiero, di conoscere, fin dall’inizio, dove andrà a parare: se a scusa del fratello o a sua condanna, se a gloria propria, o a gloria di Dio. “Compito del monaco –diceva un anziano – è vedere giungere da lontano i propri pensieri” [11], s’intende per sbarrare loro la strada, quando non sono conformi alla carità. Il modo più semplice di farlo è di dire una breve preghiera o mandare una benedizione all’indirizzo della persona che siamo tentati di giudicare. Dopo, a mente serena, si potrà valutare se e come agire nei suoi confronti.


7. Rivestirsi della mitezza di Cristo


Un’osservazione prima di concludere. Per loro natura, le beatitudini sono orientate alla pratica; fanno appello all’imitazione, accentuano l’opera dell’uomo. C’è il rischio che si resti scoraggiati nel costatare l’incapacità di attuarle nella propria vita e la distanza abissale che c’è tra l’ideale e la pratica.


Si deve richiamare alla mente quello che si diceva all’inizio: le beatitudini sono l’autoritratto di Gesú. Egli le ha vissute tutte e in grado sommo; ma – e qui sta la buona notizia – non le ha vissute solo per se, ma anche per tutti noi. Nei confronti delle beatitudini, non siamo chiamati solo all’imitazione, ma anche all’appropriazione. Nella fede possiamo attingere dalla mitezza di Cristo, come dalla sua purezza di cuore e da ogni altra sua virtù. Possiamo pregare per avere la mitezza, come Agostino pregava per avere la castità: “O Dio, tu mi comandi di essere mite; dammi ciò che mi comandi e comandami ciò che vuoi”[12].


“Rivestitevi, come amati di Dio, santi e diletti, di sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di mansuetudine (prautes), di pazienza” (Col 3,12), scrive l’Apostolo ai Colossesi. La mansuetudine e la mitezza sono come un vestito che Cristo ci ha meritato e di cui, nella fede, possiamo rivestirci, non per essere dispensati dalla pratica, ma per animarci ad essa. La mitezza (prautes) è posta da Paolo tra i frutti dello Spirito (Gal 5, 23), cioè tra le qualità che il credente mostra nella propria vita, quando accoglie lo Spirito di Cristo e si sforza di corrispondervi.


Possiamo dunque terminare ripetendo insieme con fiducia la bella invocazione delle litanie del S. Cuore: “Gesú, mite ed umile di cuore, rendi il nostro cuore simile al tuo”: Jesu, mitis et humilis corde: fac cor nostrum secundum cor tutum.




[1] Gandhi, Buddismo, Cristianesimo, Islamismo, Roma, Tascabili Newton Compton, 1993, p. 53.

[2] S. Agostino, Confessioni, X, 43.

[3] F. Nietzsche, Opere complete, VIII, Frammenti postumi 1888-1889, Adelphi, Milano 1974, p. 56.

[4] R. Girard, Vedo Satana cadere come folgore, Milano, Adelphi, 2001, pp. 211-236.

[5] S. Agostino, Epistola 93, 5: “Dapprima ero del parere che nessuno dovesse essere condotto per forza all’unità di Cristo, ma si dovesse agire solo con la parola, combattere con la discussione, convincere con la ragione”.

[6] Cf. S. Agostino, Epistole 173, 10; 208, 7.

[7] Corrado Augias – Mauro Pesce, Inchiesta su Gesù. Mondadori, Milano 2006, p.52.

[8] S. Ignazio d’Antiochia, Agli Efesini, 10,2-3.

[9] S. Agostino, Commento alla Prima Lettera di Giovanni 7,8 (PL 35, 2023).

[10] Un monaco, Le porte del silenzio, Ancora, Milano 1986, p. 17 (Originale: Les porte du silence, Libraire Claude Martigny, Genève).

[11] Detti e fatti dei Padri del deserto, a cura di C. Campo e P. Draghi, Rusconi, Milano 1979, p. 66.

[12] Cf. S. Agostino, Confessioni, X, 29.

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L'UMILTA' 
Inizio questo insegnamento richiamando un brano della Parola di Dio che si trova in Luca, cap. 14; si tratta della parabola sulla scelta dell'ultimo posto a tavola, che termina con la frase: "Chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato " (Lc. 14,7-11).

Noi siamo convenuti qui, oggi, pieni di gioiosa attesa, perché vogliamo fare la nostra Pentecoste. La Pentecoste è un evento grande per la Chiesa. Ma che cosa possiamo mettere noi, di nostro, per fare la Pentecoste? Assolutamente niente! La Pentecoste la decide solo Dio; la Potenza che scende dall'alto, scende dall'alto e basta; non la si può strappare a forza dalla terra. Tutto ciò che c'è di positivo, di dono, nella Pentecoste, ci viene da Dio; è il Padre che stabilisce il modo, il tempo e la misura per ognuno.

Che cosa possiamo fare noi, allora, per avere la nostra Pentecoste, se non possiamo fare nulla di "positivo"? Possiamo fare il vuoto, che permetta allo Spirito Santo di venire! Creare il vuoto significa metterci in atteggiamento di profonda, sincera umiltà davanti a Dio. In questo, Maria preparò gli apostoli a ricevere la prima Pentecoste: li aiutò a farsi piccoli, umili e docili. Basta saper leggere tra le righe. Quando gli apostoli si erano trovati insieme l'ultima volta, in quello stesso cenacolo, prima della passione del Signore, sappiamo che discutevano ancora tra loro chi fosse il più grande (cfr. Le 22,24ss). Ora che Maria, "l'umile ancella", ha fatto loro scuola di umiltà, durante quella memorabile "novena", ritroviamo gli stessi uomini nello stesso posto, nel cenacolo, ma non discutono più su chi è il più grande; sono invece "assidui e concordi nella preghiera".
Parliamo dunque dell'umiltà poiché essa appare la migliore preparazione a ricevere lo Spirito Santo. Con questo insegnamento intendo anche completare il discorso fatto a Rimini sulla "sobria ebbrezza dello Spirito", sviluppando un punto che in quell'occasione fu appena accennato. e precisamente il significato dell'aggettivo "sobria". Che ci sia una "ebbrezza" dello Spirito, come ci fu il giorno stesso di Pentecoste, questo dipende da Dio; ma da noi dipende l'essere sobri",e oggi vediamo che questo vuol dire anche essere "umili".
L'umiltà di Gesù

Gesù terminava la sua parabola degli invitati al banchetto dicendo che chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato. Ma cosa significa "umiliarsi"? Sono sicuro che se domandassi a varie persone cos'è per loro l'umiltà, otterrei tante risposte diverse, ognuna contenente una parte di verità, ma incomplete. Se lo domandassi a un uomo che è portato per temperamento alla violenza, a far valere il proprio punto di vista con forza, forse mi risponderebbe: "l'umiltà è non alzare la voce, non fare il prepotente in casa, essere più mite e arrendevole Se lo domandassi a una ragazza, forse mi risponderebbe: "l'umiltà è non essere vanitosa, non volere attirare
lo sguardo degli altri, non vivere solo per se stessi o per la facciata..." Un sacerdote mi risponderebbe: "Essere umili significa riconoscersi peccatore, avere un sentimento basso di se stesso Ma è facile capire che così non si è toccata ancora la radice dell'umiltà.

Per scoprire la vera radice dell'umiltà bisogna, come sempre, rivolgersi all'unico Maestro che è Gesù. Egli ha detto: "Imparate da me che sono mite ed umile di cuore " (Mt 11,29). Per un po' di tempo, confesso che questa frase di Gesù mi ha molto stupito. Infatti: dov'è che Gesù si mostra umile? Leggendo il vangelo non si incontra mai la benché minima ammissione di colpa da parte di Gesù. Questa è anzi una delle prove più convincenti dell'unicità e della divinità di Cristo: Gesù è l'uníco uomo che è passato sulla faccia della terra, ha incontrato amici e nemici senza dover mai dire: "Ho sbagliato!", senza chiedere mai perdono a nessuno, neppure al Padre. La sua coscienza ci appare un cristallo: nessun senso di colpa la sfiora. Di nessun altro uomo, di nessun fondatore di religione, si legge una cosa simile.

Dunque Gesù non è stato umile, se per umiltà intendiamo parlare o sentire bassamente di sé, ammettere di avere sbagliato. "Chi di voi - egli può dire con sicurezza - può convincermi di peccato?" (Gv 8,46). Eppure questo stesso Gesù dice con altrettanta sicurezza: "Imparate da me che sono mite ed umile di cuore " (Mt 11,29). Allora vuol dire che l'umiltà non è proprio quella cosa che il più delle volte noi pensiamo, ma qualcos'altro che dobbiamo scoprire dai vangeli.

Che cosa ha fatto Gesù per essere e dirsi "umile"? Una cosa semplicissima: si è abbassato, è sceso. Ma non con i pensieri o con le parole. No, no; con i fatti! Con i fatti Gesù è sceso, si è umiliato. Trovandosi nella condizione di Dio, nella gloria, cioè in quella condizione in cui non si può né desiderare né avere niente di meglio, è sceso; ha preso la condizione di servo, si è umiliato facendosi obbediente fino alla morte (cfr. Fil 2,6ss). Una volta iniziata questa discesa vertiginosa da Dio a schiavo, non si è fermato ancora; ha continuato a scendere, tutta la vita. Si mette in ginocchio per lavare i piedi ai suoi apostoli; dice: "Io sto in mezzo a voi come colui che serve" (Lc 22,27). Non si arresta finché non tocca il punto oltre il quale nessuna creatura può andare, che è la morte, Ma proprio là, nel punto estremo del suo abbassamento, lo raggiunge la potenza del Padre, cioè lo Spirito Santo, afferra il corpo di Gesù nella tomba, lo vivifica, lo risuscita e lo innalza alla sommità dei cieli, gli dà il Nome che è al di sopra di ogni altro nome e ordina che ogni ginocchio si pieghi davanti a lui. Ecco un esempio concreto, la realizzazione massima della parola: "Chi si umilia sarà esaltato".

Vista in questo specchio, che è Gesù, l'umiltà ci appare dunque non una questione di sentimenti, cioè un sentire se stessi in modo basso, ma una questione di fatti. di gesti concreti; non una questione di parole, ma di realtà, di azioni. L'umiltà è la disponibilità a scendere, a farsi piccoli e a servire i fratelli; è la volontà di servizio. E tutto questo, fatto per amore, non per altri scopi. Ci può essere un'attitudine al servizio dei fratelli anche in persone non credenti; dobbiamo ammettere onestamente che ci sono intorno a noi persone che non si dicono cristiane e tuttavia, in certi casi, ci danno l'esempio nel collocarsi accanto ai poveri, agli emarginati. La differenza sta nel fatto che, in un cristiano, tale disponibilità al servizio deve essere ispirata e come sostanziata di amore.

In un certo senso, possiamo dire che l'umiltà è gratuità, è abbassarsi senza alcun interesse proprio o calcolo. La parabola degli invitati al banchetto prosegue con queste parole di Gesù: "Quando dai un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti" (Le 14,13ss). Questo è un servizio gratuito, perché non ci si aspetta nulla in cambio. In questo l'umiltà si rivela come la sorella gemella della carità, come un aspetto di quella agape, di cui S. Paolo tesse l'elogio nel capitolo 13 della prima lettera ai Corinzi. Quando l'Apostolo dice che la carità "non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto ...", intende dire che la carità è umile e l'umiltà è caritatevole.

Essere umile secondo il modello di Gesù significa dunque spendersi gratuitamente, non vivere solo per se stessi (cfr. 2 Cor 5,15). Quando noi cerchiamo il plauso, i riconoscimenti, manchiamo di umiltà perché rompiamo la gratuità. In quel momento stiamo ricercando la nostra ricompensa. lo posso andare in un posto a parlare e tornare a casa con una duplice ricompensa: o in soldi, o in compiacenza di me stesso. In tutti e due i casi Gesù mi dice: Hai ricevuto la tua ricompensa.
Umiltà e sobrietà

In noi, quasi mai l'umiltà è questa cosa così limpida e pura, cioè abbassarsi a servire per amore. Essa comporta sempre anche qualcosa di negativo, cioè un rinnegarsi, uno sconfessare ciò che c'è di distorto nelle nostre intenzioni e nelle nostre azioni. Un discendere da noi stessi, prima che andare verso gli altri. Quando è Gesù che "scende", lo fa da un'altezza reale, oggettiva, perché è il Santo di Dio (cfr. Gv 6,69). Quando invece siamo noi uomini a "scendere", non ci abbassiamo da un'altezza reale, vera, ma da una pseudo-altezza, da una altezza falsa; ci abbassiamo da un'altezza alla quale ci siamo indebitamente innalzati con l'orgoglio, con la vanità, con l'ira... In noi perciò l'umiltà è sempre anche una virtù "negativa", che serve a rinnegare qualcosa di cattivo che c'è in noi per cui tendiamo a elevarci al di sopra del prossimo.

In questo senso si dice giustamente che l'umiltà è verità. E' ripristinare la verità circa noi stessi, è riconoscere che il nostro posto non è stare sopra gli altri, ma sotto. S. Teresa d'Avila ha scritto: "Mi chiedevo una volta perché il Signore ama tanto l'umiltà, e mi venne in mente d'improvviso, senza alcuna mia riflessione, che ciò deve essere perché egli è somma Verità e l'umiltà è verità". Anche S. Paolo parla in questi termini dell'umiltà quando dice: "Se infatti uno pensa di essere qualcosa mentre non è nulla, inganna se stesso" (Gal 6,3). Per l'Apostolo, si potrebbe dire che l'umiltà è soprattutto sobrietà spirituale, cioè un sentire in modo sobrio, sano, non eccessivo, non esaltato, di se stessi. Dice: "Non valutatevi più di quanto è conveniente valutarsi, ma valutatevi in maniera da avere di voi una giusta valutazione" (Rm 12,3). Nell'originale greco, la frase suona: "Valutatevi in modo sobrio". Poco dopo insiste dicendo: "Non fatevi un'idea troppo alta di voi stessi" (Rm 12,16).

Quest'umiltà-sobrietà consiste dunque in un sano realismo che ci permette di essere nella verità dinanzi a Dio. Noi non perseguiamo una verità astratta, non vogliamo essere come lo psicanalista che cerca di portare l'uomo alla verità su di sé, in modo che egli si liberi dai suoi complessi. Noi perseguiamo un'altra verità; la verità che cerchiamo è quella che permette di essere veri davanti a Dio, prima ancora che davanti a se stessi e agli altri, anche se queste cose ne derivano di conseguenza. t scritto di Dio che egli è buono e generoso con l'uomo sincero, ma diventa l'astuto" con il perverso, cioè con chi ha il cuore menzognero (cfr. Sal 18,27). Una cosa Dio esige sopra tutte da chi si accosta a lui: 1a sincerità del cuore" (cfr. Sal 5 1,8)
L'umiltà di Dio

Dicevo che l'umiltà presenta in noi degli aspetti negativi, di rinnegamento, di sacrificio, di croce, proprio perché noi siamo peccatori e abbiamo bisogno di togliere il male che c'è in ogni nostra azione. Ma se è cosi, dove trovare quell'umiltà allo stato puro che non finirà neppure con la morte e che non dice alcuna relazione con il peccato?

La prima risposta che viene spontanea alle labbra è: in Gesù di Nazareth! Ma, a pensarci bene, dobbiamo dire che neppure in lui si trova quell'umiltà allo stato puro, senza alcuna relazione con il peccato. E' vero infatti che Gesù è l'uomo senza peccato, innocente e santo; è vero che non aveva peccati propri, tuttavia aveva preso su di sé i peccati degli altri uomini e davanti a Dio figurava come "il peccato". Anche in Gesù, dunque, il suo umiliarsi facendosi obbediente fino alla morte presenta un aspetto di espiazione, cioè di riferimento al peccato. Solo nella seconda venuta, alla fine dei tempi - dice l'epistola agli Ebrei - egli verrà senza più alcuna relazione con il peccato (cfr. Eb 9,28).

Allora - insisto - dove troviamo l'umiltà allo stato puro, quel puro e gratuito abbassarsi a servire per amore? Abbiamo bisogno di arrivare a toccare questo fondamento perché da esso la virtù dell'umiltà trae tutta la sua forza e il suo fascino. La troviamo in Dio, nella Trinità!

C'è una preghiera di S. Francesco d'Assisi, sicuramente autentica (si conserva in Assisi, nella basilica del Santo, scritta di suo pugno); in questa preghiera intitolata "Laudi di Dio Altissimo", il Poverello intreccia una lode magnifica del Dio Uno e Trino, dicendo tra l'altro: "Tu sei carità, tu sei sapienza, tu sei umiltà, tu sei pazienza, tu sei bellezza, tu sei sicurezza, tu sei giustizia, tu sei temperanza Quando lessi la prima volta quell'espressione: "Tu sei umiltà", dissi fra me: "Padre mio S. Francesco, qui non ti capisco più! Forse ti sei lasciato prendere la mano; stavi facendo un elenco delle virtù che si trovano in Dio e vi hai messo dentro anche l'umiltà, senza pensare che l'umiltà è una virtù che non può trovarsi nella Trinità che è tutta
gloria, santità, splendore". Ma sbagliavo io! Il Santo aveva ragione. Anzi egli ci ha dato, con quelle parole, una delle definizioni più delicate e più sublimi di Dio: Dio è umiltà!

Se umiltà significa scendere da se stessi per amore, Dio è umiltà perché, dalla posizione in cui si trova, non può far altro che scendere; sopra di lui non c'è nulla, perciò egli non può salire, innalzarsi. Quando fa qualcosa "fuori di sé" (ad extra), Dio non può che "abbassarsi", umiliarsi. Ed è quello che ha sempre fatto dalla creazione del mondo. La storia della salvezza non è che la storia delle successive "umiliazioni" di Dio. Così la vede infatti S. Francesco: "Ecco - scrive - ogni giorno egli si umilia, come quando dalla sede regale discese nel grembo della Vergine; ogni giorno discende dal seno del Padre sopra l'altare" (FF n. 144); e parlando dell'eucaristia esclama: "Guardate, frati, l'umiltà di Dio!" (FF n. 221).

In seguito, mi sono accorto che questa era stata già un'idea familiare ai Padri della Chiesa. Essi parlavano della synkatábasis di Dio, parola che, tradotta, vuol dire "condiscendenza", cioè farsi piccolo per potersi accostare all'uomo e scendere al suo livello. S. Giovanni Crisostomo - a cui tale termine era particolarmente caro - dice che già la creazione è un atto della condiscendenza di Dio; che la rivelazione biblica - il fatto che Dio si adatti a balbettare il linguaggio umano - è un atto della condiscendenza di Dio; tale è pure e soprattutto l'Incarnazione.

Ma anche la Pentecoste che stiamo celebrando è un atto di umiltà di Dio. Perché parliamo di "discesa" dello Spirito Santo, se non per lo stesso motivo, e cioè che ogni intervento di Dio a favore dell'uomo è una condiscendenza, un umiliarsi? Nel caso della Pentecoste, lo Spirito Santo si abbassa, assumendo dei poveri segni come sono il fuoco, il vento, le lingue. Si abbassa ad abitare in povere creature di carne facendone il suo tempio.

(Soffermiamoci un istante in preghiera su questa scoperta; ringraziamo il Signore perché ha voluto "uscire" da se stesso per amore nostro, dandoci un meraviglioso esempio di umiltà).

Dopo ciò ho capito perché S. Francesco, nel "Cantico delle creature", scrive: "Laudato si', mi' Signore, per sora aqua, la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta". Uacqua è umile perché, come Dio, dalla posizione in cui si trova non sale mai, ma sempre scende, scende, fino a raggiungere il punto più basso; tende sempre ad occupare l'ultimo posto.

Dio è umiltà: che cosa abbiamo scoperto con ciò? Solo un'idea teologica in più? No, abbiamo scoperto il vero motivo per cui dobbiamo essere umili. Noi dobbiamo essere umili per essere figli del Padre nostro, per "riprendere" dal nostro legittimo Padre. Perché se non siamo umili, noi non riprendiamo dal Padre nostro che è nei cieli, ma da un altro padre ben diverso. Chi è, nell'universo, colui che ha come suo movimento proprio il salire, il dare la scalata? Chi è colui che dice: "Salirò in cielo, sulle stelle di Dio innalzerò il mio trono... mi farò uguale all'Altissimo?" (Is 14,13-14). Non lo nominiamo neppure, per non fargli questo onore nel giorno di Pentecoste, tanto sappiamo bene di chi si tratta. Bisogna dunque essere umili per riprendere dal Padre nostro, altrimenti Gesù deve dire anche a noi quello che diceva ai farisei che si credevano figli di Abramo: '"Voi fate le opere di un padre che non è Abramo..." (cfr. Gv 8,38ss).
Umili con chi? L'esercizio dell'umiltà

Adesso possiamo porci la domanda iniziale: "Che cos'è l'umiltà", ma da un altro punto di vista, molto più profondo. L'umiltà è un atteggiamento verso noi stessi, verso gli altri, o verso Dio? Anni addietro, feci una meditazione sull'umiltà in cui sostenevo che essa non è un atteggiamento verso se stessi o verso gli altri, ma solo verso Dio. Adesso devo correggermi: l'umiltà è tutto questo insieme: è un modo di stare davanti a sé, davanti agli altri e davanti a Dio, pur rimanendo qualcosa di profondamente unitario.

Ho detto sopra che l'umiltà è sorella gemella della carità; come la carità si esprime in due atteggiamenti legati intimamente tra di loro: "Ama il Signore Dio tuo con tutto il cuore e il prossimo tuo come te stesso", così è dell'umiltà. L'umiltà vera consiste nell'essere umili con Dio e umili con il prossimo: le due cose insieme. Non si può essere umili dinanzi a Dio, nella preghiera, se non lo si è con i fratelli. Essere umili davanti a Dio significa essere bambini, essere gli anawin biblici, cioè i poveri che non hanno nessuno su cui appoggiarsi se non Dio solo; significa non confidare né nei carri né nei cavalli, né sulla propria intelligenza, né sulla propria giustizia. E tutto questo va benissimo. Ma se tu non sei umile con il fratello che vedi, come puoi dire di essere umile con Dio che non vedi? Se tu non lavi i piedi al fratello che vedi, cosa significa il tuo voler lavare i piedi a Dio che non vedi? I piedi di Dio sono i tuoi fratelli! Come si vede, si possono dire dell'umiltà le medesime cose che Giovanni dice della carità (cfr. I Gv 4,20).

Ci sono persone (io sono certamente tra queste), le quali sono capaci di dire di se stesse tutto il male possibile e immaginabile; che, in preghiera, fanno delle autoaccuse di una schiettezza e di un coraggio ammirevoli. Dunque, sono umili davanti a Dio e verso se stessi. Ma appena un fratello accenna a prendere sul serio le loro confessioni, o si azzarda a dire, di essi, una piccola parte di quello che si son detti da soli, sono scintille! Non era vera umiltà la loro. Il vero umile è colui che si guarda in Dio, in lui scopre ciò che è, e poi trasfonde questa verità nel rapporto con i fratelli.

L'umiltà che stiamo scoprendo è un bene che scende dal cielo; essa è quel "dono perfetto che viene dall'alto e discende dal Padre della luce" (cfr. Ge 1, l 7). Non è una pianta che spunta naturalmente sulla nostra terra; il mondo non la conosce. Questa è la sapienza dei Vangelo che confonde la sapienza del mondo. Su questo terreno le due sapienze si scontrano frontalmente, tanto che S. Paolo può dire: "Se qualcuno tra voi si crede un sapiente in questo mondo, si faccia stolto per diventare sapiente; perché la sapienza di questo mondo è stoltezza davanti a Dio" (1Cor 3,18ss).

Lo vediamo chiaramente intorno a noi: il mondo, invece di coltivare l'umiltà, esalta l'orgoglio; quando si vuol fare un comiplimento a qualcuno, si dice che "ha dell'orgoglio". Il mondo è strutturato sul valore dell'arrivismo, del fare carriera, cioè salire più in alto nella scala sociale. Dalla scuola in su, che cosa si inculca ai giovani se non di fare carriera, di affermarsi al di sopra degli altri, di primeggiare?

Il modo di pensare di Gesù è semplicemente diverso di novanta gradi. E tuttavia bisogna non cadere in errore. A che cosa mira l'umiltà evangelica? Forse a creare una comunità di rassegnati, di gente inerte, priva di slancio, che non traffica i talenti? Assolutamente no! Il filosofo che affermava questo (Nietzsche), non aveva capito niente del Vangelo. L'umiltà evangelica non significa che tu non devi trafficare i talenti ricevuti; al contrario. La differenza rispetto al mondo è che questi tuoi talenti tu non li impieghi solamente per te stesso, per porti al di sopra degli altri e dominarli, ma li impieghi per il servizio degli altri; non per essere servito, ma per servire,
Umiltà nel matrimonio

Vorrei ora accennare ad alcuni ambiti particolari in cui l'umiltà si rivela particolarmente necessaria. Anzitutto quello della famiglia: come e perché essere umili nel matrimonio.

lo dico che l'urniltà è stata inventata da Dio anche per salvare i matrimoni. Il matrimonio, inteso come l'amore tra l'uomo e la donna, nasce dall'umiltà. Innamorarsi di un'altra persona - quando si tratta di un vero fatto di innamoramento - è il più radicale atto di umiltà che si possa immaginare. Significa andare da un altro e dirgli: lo non mi basto, io non sono sufficiente a me stesso; ho bisogno del tuo essere. E' come stendere la mano e chiedere in elemosina a un'altra creatura un po' del suo essere. Ripeto: è l'atto di umiltà più radicale. Dio ha creato l'uomo bisognoso, mendicante; ha inscritto l'umiltà nella sua stessa carne, quando li ha creati maschio e femmina, cioè incompleti. Ne ha fatto, fin dall'origine, due esseri in movimento, in ricerca l'uno dell'altro, "insoddisfatti" ognuno di se stesso. Ha posto così la creatura umana come su un piano inclinato verso l'alto, non verso il basso, perché l'unione doveva elevarlo dall'altro sesso, all'Altro per eccellenza che è Dio stesso.

Dunque, il matrimonio nasce dall'umiltà, e se nasce dall'umiltà della condizione umana non può sopravvivere che nell'umiltà. S. Paolo diceva ai coniugi cristiani: "Rivestitevi... di sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza; sopportandovi a vicenda e perdonandovi scambievolmente, se qualcuno abbia di che lamentarsi nei riguardi degli altri" (Col 3,12ss). L'umiltà e il perdono sono come il lubrificante che permette, giorno per giorno, di sciogliere ogni principio di ruggine, di abbattere i piccoli muri di incomprensione e di risentimento, prima che diventino grandi muri che non si possono più abbattere. Gli sposi devono vigilare a che 1`altro padre", quello spurio, non instauri tra di loro la logica della ripicca, della rivincita... Non bisogna dare ascolto alla voce che grida dentro: Perché devo essere sempre io a cedere, a umiliarmi? Cedere non è perdere, ma vincere, vincere il vero nemico dell'amore che è il nostro egoismo, il nostro "io".
Umiltà nel Rinnovamento
Il Rinnovamento ha bisogno di famiglie rinnovate e le famiglie, abbiamo visto, si rinnovano anche con l'umiltà. à l'amore, certo, che rinnova le famiglie, ma è l'umiltà che rende possibile l'amore.

Ma in questa circostanza, devo dire una parola anche a proposito dell'umiltà nel "Rinnovamento". Se il Rinnovamento, come è stato detto molto giustamente, è "restituire il potere a Dio", allora Si capisce quanto l'umiltà sia urgente nel Rinnovamento nello spirito. L'umiltà è ciò che preserva il Rinnovamento dallo sciuparsi in cosa umana. Bisogna che periodicamente noi rimettiamo il, potere nelle mani di Dio, e questo si fa con l'umiltà. Bisogna che impariamo a dire, con l'Apocalisse e con la liturgia della Chiesa: "Tuo è il regno, tua la potenza e la gloria nei secoli!".

Ogni volta che dimentichiamo questo e facciamo centro sulle persone, sono disastri, come a Corinto. I nostri incontri di preghiera talvolta soffrono di questo: non c'è abbastanza pulizia di tutto l'elemento umano. L'umiltà nel Rinnovamento è importante quanto è importante l'isolante nell'elettricità. Più alta è la tensione della corrente che passa in un filo, più deve essere spesso ed efficiente l'isolante; altrimenti: corto circuito! Ricordo vagamente le nozioni che ci inculcava, a questo proposito, il mio vecchio professore di fisica al liceo: "L'isolante - diceva - è una materia inerte e vile, ma è assolutamente indispensabile, come lo sono i fili di rame che trasportano la corrente. Questi servono a trasportare la corrente, quello a non disperderla. I progressi che si fanno nella tecnica della conduzione dell'elettricità devono sempre essere accompagnati da un proporzionato progresso nella tecnica dell'isolamento. Altrimenti, corto circuito!".

In particolare, l'umiltà deve risplendere negli animatori e in chi svolge qualche ministero, come me in questo momento. Bisogna che ci lasciamo contestare senza reagire subito come chi si sente offeso, bisogna che ci lasciamo ammonire e correggere dai fratelli; bisogna che ci lasciamo sostituire e, anzi, che preveniamo in ciò i responsabili, senza che debbano dircelo più volte prima che capiamo.

Una tentazione possibile nel Rinnovamento è quella di volersi sempre trovare in quel punto preciso dove, secondo noi, "passa" la corrente dello Spirito, essere sempre nell'occhio del ciclone, cioè, fuori metafora, là dove c'è la persona più famosa, il gruppo più dotato... Se il Signore ci fa capire queste cose è perché ci vuole liberare da esse. E' bene voler essere nel punto dove agisce lo Spirito di Dio; solo che il punto dove agisce lo Spirito non è dove c'è la persona più in vista, perché lo Spirito di Dio è di preferenza nel nascondimento. Se dunque noi vogliamo essere veramente nell'occhio del ciclone dello Spirito, corriamo a occupare l'ultimo posto. Lì, lo Spirito trovò Maria e la riempì della sua potenza.

Il Rinnovamento ha bisogno di vocazioni al nascondimento. Chi oggi sente per sé questa vocazione, dica subito il suo "si", insieme con Maria. Bisogna che ci lasciamo tutti strappare a fatica dall'ultimo posto; i fratelli devono incontrare resistenza a tirarci via dal l'ultimo posto, non dal primo.

Occorre poi umiltà anche nei rapporti tra noi del Rinnovamento e i fratelli che servono il Signore in altri gruppi e realtà ecclesiali. Mai una mentalità da "eletti", che sciupa tutto. Non sentiamoci "carismatici", nel senso di persone dotate di particolari poteri, di trascinatori, ma solo nel senso di servitori dello Spirito.

Abbiamo ricercato la radice dell'umiltà e l'abbiamo scoperta in Dio; abbiamo considerato il suo tronco, i rami; adesso cerchiamo di coglierne i frutti. I frutti dell'umiltà sono tantissimi, e uno più squisito dell'altro, ma a me piace soffermarmi su questi due soli frutti: l'umiltà attira la compiacenza di Dio, l'umiltà ci riconcilia con i fratelli.

L'umile è guardato da Dio con occhio di padre, con tenerezza e simpatia. Il profeta Isaia ci fa seguire lo sguardo di Dio che si volge qua e là per l'universo in cerca di un posto dove posarsi, e non lo trova perché tutto è suo, tutto è uscito dalle sue mani; finché trova un "cuore contrito e umiliato" e in esso si riposa (cfr. Is 66.2). E' scritto:"Eccelso è il Signore e guarda verso l'umile, ma al superbo volge lo sguardo da lontano" (Sal 138,6). Come il Signore, dalla posizione in cui è, non può salire sopra di sé, così, si direbbe, non può guardare sopra di sé; come non può che scendere, così non può che guardare in basso. "Se tu ti innalzi, egli si allontana da te, se invece ti abbassi, egli si inchina verso di te" (S. Agostino, Ser. 21,2). Per questo Maria dice: "Ha guardato l'umiltà della sua serva " (Lc 1,48).

L'altro frutto, dicevo, riguarda i fratelli. L'umiltà conquista gli uomini. à una cosa curiosa: il mondo non coltiva l'umiltà, gli uomini in genere non sono umili; tuttavia sanno riconoscere a prima vista chi è umile e non sanno resistere all'umile. Non c'è difesa, né del Rinnovamento, né della Chiesa, che valga tanto quanto un atto di vera umiltà.

Termino recitando con voi il Salmo 131 che canta proprio i frutti dell' umiltà:

"Signore, non si inorgoglisce il mio cuore e non si leva con superbia il mio sguardo; non vado in cerca di cose grandi, superiori alle mie forze (la sobrietà!), lo sono tranquillo e sereno come bimbo svezzato in braccio a sua madre, come un bimbo svezzato è l'anima mia ".