Gregorio di Nissa
Vita di Mosé
INTRODUZIONE
In certo qual modo,
anch’io, stimatissimo tra i miei amici e fratelli, mi comporto come i
tifosi nelle corse ippiche. Costoro levano grida incomposte verso quei
cavalli che essi stessi hanno allenato accuratamente per le gare.
Ora, mentre i cavalli
rispondono alle richieste di velocità , i tifosi non tralasciano di
gridare, seguendo dagli spalti dello stadio, con occhio attento, lo
svolgersi della corsa: incitano l’auriga ritenendo di accelerarne la
velocità ; piegano le ginocchia nello stesso istante che le piegano i
cavalli; protendono e agitano contro di essi le mani, come se fossero
una frusta. Fanno così, non perché quei loro atti possano contribuire
in qualche modo ad ottenere la vittoria, ma perché vogliono dimostrare,
con la voce e i gesti, la passione che li lega ai contendenti.
Pare che anch’io dunque,
faccia qualche cosa di simile. Proprio mentre tu stai sostenendo, con
lodevoli risultati, la gara di una corsa divina nello stadio della virtù
e ti lanci a passi veloci e leggeri, verso il premio al quale Dio
dall’alto ti chiama, ecco che io mi metto a gridarti contro e a
incitarti e ti impongo di accrescere lo sforzo di velocità .
Così facendo, non sono
spinto da cieca passione, ma voglio soltanto offrirti, come a un figlio
amato, ciò che ti possa essere di gradimento. Pertanto, la lettera che
recentemente mi hai fatto pervenire, avrà soddisfatto la richiesta con
uno scritto di esortazione alla vita perfetta che a te indirizzo.
Probabilmente tu non ricaverai nessuna utilità dalle cose che ti dico,
ma questo fatto ti sarà esempio non inutile di lodevole obbedienza.
Se noi, posti in prima
fila nell’ufficio di padri di tante anime, pensiamo non sconveniente
alla nostra età accogliere l’invito di un giovane virtuoso quale sei
tu, ben possiamo aspettarci da ciò un rafforzamento della tua virtù di
docilità . Cosa del resto che ci siamo sempre preoccupati di coltivare in
te, abituandoti a volonterosa sottomissione. A questo punto occorre por
mano al nostro proposito, prendendo il Signore a guida di questa
esposizione.
Tu ci hai chiesto che ti
venga delineato in esempi pratici la vita perfetta, con il preciso
intento di applicare alla tua vita personale il dono delle nostre
parole, caso mai vi scoprissi quanto ci hai domandato. Ma qui io mi
trovo in difficoltà di fronte a due compiti del tutto diversi.
Anzitutto ritengo
superiore alle mie forze il compito di dare una definizione teoretica
della perfezione e poi quello di mostrare nella vita pratica le
conclusioni cui arriveranno le mie riflessioni. Del resto non io solo,
ma molti dei grandi che eccellono nella virtù, non avranno difficoltà ad
ammettere l’impossibilità di una impresa simile. Tuttavia intendo
esporti chiaro il mio pensiero per non sembrare di temere là dove non
c’è da temere. Così, almeno, dice il Salmo.
Tutta la realtà oggetto di
percezione sensibile, è circoscritta da certi aspetti ben determinati e
precisi, quali la quantità continua e discontinua. Infatti ogni unitÃ
di misura applicabile alla quantità , risulta fissata in limiti precisi e
chi voglia considerare o una squadra o il numero dieci, conosce il loro
punto di inizio e il loro punto di arrivo. In questo fatto pare
consistere la perfezione di tali entità misurabili. L’Apostolo, invece,
ci ha appreso che la perfezione della virtù ha il solo limite di non
avere limiti.
Il divino Apostolo, mente
acuta e profonda, che ha sempre corso nella gara della virtù, non ha mai
cessato di incalzare e superare nella corsa quelli che lo
precedevano, così che anche un puro ritardo lo rendeva tormentato.
Questo, perché ciò che per natura sua è bene, non ha limiti e, se
subisce limitazioni, avviene solo per la presenza del suo contrario,
come la vita che viene distrutta dalla morte; oppure la luce, dalle
tenebre.
In generale, ogni bene
subisce una limitazione se rapportato al suo contrario: cioè la fine
della vita è l’inizio della morte, e la sosta nella corsa della virtù è
inizio della corsa verso il male. Pertanto la mia affermazione circa la
impossibilità di definire la perfezione della virtù è tutt’altro che
falsa.
Stabilito che non
appartiene alla virtù quanto è compreso in limiti definiti, cercherò
ora di chiarire l’altra affermazione da me fatta, che cioè, è
impossibile raggiungere la perfezione anche per quelli che giÃ
posseggono una vita virtuosa.
Il bene primo e sommo,
quale è concepibile dall’umana natura, è quello che possiede la bontÃ
per natura: Dio. Ma siccome la virtù non soffre limiti se non quelli
della presenza del male e poiché questo non può intaccare la divinità ,
ne consegue essere la natura divina illimitata e infinita. Ora, chi
persegue la vera virtù, non mira ad altro che possedere Dio, la Virtù
per eccellenza.
Inoltre, la conoscenza di
ciò che per natura è bello ne implica il desiderio e, se questa
bellezza, come è quella di Dio, non ha limiti, genera in chi vuol
esserne partecipe, un desiderio che dura all’infinito e non conosce
sosta.
È dunque impossibile
raggiungere la perfezione appunto perché, come fu detto, essa non è
(chiusa in confini determinati) circoscritta e il suo unico limite è
l’infinito. Chi mai renderebbe finita una ricerca se non ne potrà mai
raggiungere il termine?
Ma allora, visto che la
ragione ha dimostrato la irraggiungibilità dell’oggetto ricercato, sarÃ
esonerata dal prendere in considerazione il comando del Signore: «Siate
perfetti, come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli...»?
Il parere dei saggi si è,
invece, che la impossibilità a ottenere tutta intera la bellezza delle
cose, le quali la posseggono per natura, non preclude l’ascesa alla
virtù, che anzi non esserne privi neppure in minima parte costituirebbe
già un grande vantaggio. Bisogna dunque impegnarsi con ogni sforzo a
non allontanarci da quel grado di perfezione a noi
possibile e farne graduale acquisto nella misura dei progressi fatti
sul cammino della sua ricerca.
Nella natura umana le cose
sono state disposte in modo che spesso trova nel bello il bene più
grande. E questa è senz’altro una perfezione. Nel campo del bene e del
bello è cosa buona seguire i consigli della Scrittura. «Guardate ad
Abramo, vostro Padre, e a Sara, vostra genitrice», è l’invito che il
Signore per meno del Profeta Isaia, rivolge agli erratici dalle virtù.
Esso mira a ricondurre al porto della divina virtù i naufraghi del mare
della vita: le anime che non hanno una guida.
È la storia dei marinai
allontanatisi dalla giusta rotta verso il porto che, avvedutisi dello
sbaglio, tornano indietro alla vista di qualche chiaro segnale, sia
fuoco di altura o cima ben visibile di promontorio. Ambedue i sessi,
cioè i maschi e le femmine, in cui si distingue il genere umano, hanno
pari facoltà di decidersi al bene o al male. È la ragione per cui la
divina parola ha presentato loro un corrispettivo esempio di virtù,
perché l’uno e l’altro, guardando al modello connaturale al proprio
sesso ad Abramo gli uomini e a Sara le donne fossero sospinti, da
congeniale esempio, alla vita virtuosa. Per me stesso, anche il ricordo
di uno solo di quanti rifulsero in questa vita per virtù, sarebbe
sufficiente,
qual faro, a mostrare
all’anima la possibilità di approdo nel tranquillo porto della virtù,
evitando di essere investita dalle gelide raffiche di questa vita o di
subire naufragio dentro gli abissi del male, per effetto delle violente
ondate delle passioni.
Prendersi cura, pertanto,
di studiare la vita di anime superiori risponde al desiderio di vedere
gli uomini, per il residuato tempo di loro vita, intraprendere, a
imitazione degli esempi di rettitudine di quelli, la strada che porta
al Signore.
Si potrebbe obiettare: io
non sono un caldeo, come Abramo, né sono stato nutrito da donne
egiziane, come Mosè, né trovo nella mia vita punti di contatto con
quella degli antichi. E allora, come posso considerarmi uno di loro,
quasi ne avessi lo stesso genere di vita? Non vedo come debba imitare
chi è tanto lontano dalle mie abitudini.
La risposta è che non è un
bene, né un male essere caldeo. Non si rimane estranei alla virtù
perché si vive in Egitto o a Babilonia. Dio non si fa conoscere
soltanto in Giudea a quelli che ne sono degni. Sion non è per
definizione il solo luogo della dimora di Dio. Afferma, invece, che
occorre aperta intelligenza e acuto sguardo allo scopo di individuare,
con la guida della storia, i caldei e gli egiziani dai quali fuggire per
conseguire vita beata.
È cosa buona, pertanto,
che questa mia trattazione ti presenti Mosè, quale modello di vita
perfetta. Esposte sommariamente le vicende della sua vita, secondo le
risultanze della Scrittura, concentreremo i nostri sforzi alla ricerca
di una dottrina utile a spronare alla virtù e così per suo mezzo
conoscere quale vita perfetta sia possibile agli uomini.
STORIA DI MOSÈ
Nascita e salvezza di Mosè (Es 2,1-10)
All’epoca in cui nacque
Mosè, una legge dispotica, ricordata dalla Scrittura, imponeva che i
nati maschi fossero soppressi. Ma i suoi genitori non vollero sottostare
a quella legge, perché nel volto del bambino già allora splendeva la
bellezza che tutti in seguito avrebbero ammirato.
Costretti, tuttavia, a
cedere alle minacce del tiranno, affidarono il bambino alle acque del
fiume, preoccupandosi che non venisse subito sommerso.
Lo misero in un canestro
spalmato di pece e lo abbandonarono così alla corrente. (Questi
particolari ci sono riferiti con esattezza dagli storici della sua
vita).
Il canestro, come guidato
dalla mano di Dio, entrò in uno dei canali laterali del fiume e finì
per essere sbalzato dalla corrente sui bordi del canale stesso.
La figlia del re che
passava lungo i prati proprio là dove il canestro si era fermato, lo
scoprì sentendo uscirne dei vagiti. Piena di stupore per la bellezza
del bambino, decise di portarlo con sé, di curano e tenerlo come un
figlio.
Ma il bambino, per istinto
di natura, non si lasciava allattare da estranee per cui, alcune
persone avvedute, appartenenti alla sua stessa razza, riuscirono a
farlo allattare da sua madre.
Uscito di fanciullezza,
dopo che era stato educato nelle discipline di quel popolo straniero,
egli ricusò gli onori che avrebbe potuto ottenere presso di loro; si
staccò dalla madre fittizia che l’aveva tenuto come figlio e tornò tra i
compatrioti presso la propria madre.
Fuga nel deserto di Madian (Es 2, 11 12)
Un giorno, imbattutosi in
un ebreo e in un egiziano che litigavano, volle prender le difese del
compatriota ed uccise l’egiziano. In altra occasione si adoperò per
pacificare due ebrei che rissavano furiosamente. Inutilmente ricordò a
essi che erano fratelli e avrebbero dovuto risolvere la controversia non
già con l’ira ma nello spirito della reciproca comunanza di stirpe:
quello dei due che aveva torto lo costrinse ad andarsene ed egli
approfittò dell’offesa per acquistarsi una saggezza più alta1.
Portatosi lontano, fuori
dai rumori del mondo, in luoghi solitari, si mise al servizio di una
persona straniera molto saggia e sperimentata nel giudicare i costumi e
la condotta degli uomini2. Fu sufficiente l’episodio dell’assalto dei pastori perché quest’uomo comprendesse il valore del giovane Mosè.
Costui infatti si rese
conto che Mosè non si era scagliato contro i pastori a scopo di lucro o
di difesa essi non l’avevano provocato ma perché, giudicando un
onore potersi battere per la giustizia, aveva voluto punire appunto il
loro ingiusto comportamento.
Fu questo atto che gli
meritò l’ammirazione del suo padrone straniero, il quale finì per dargli
in moglie la figlia, tenendo in gran conto il coraggio del giovane e
non badando invece alla sua povertà . Lo lasciò libero di condurre il
genere di vita che più gli gradisse.
Così Mosè, divenuto
pastore di pecore, continuò a restare nel deserto, lontano dalla
confusione della folla, pienamente soddisfatto di quella vita.
La vocazione (Es 3, 2 22)
Fu nel tempo in cui si trovava nel deserto che, secondo la testimonianza della storia, Dio gli si manifestò in modo miracoloso.
Un giorno, in pieno
meriggio, fu colpito da una luce così intensa che superava quella del
sole e quasi lo accecò. L’insolito fenomeno, pur avendolo sbalordito,
non gli impedì di levare gli occhi verso la cima del monte, dove vide un
chiarore di fuoco attorno a un cespuglio, i cui rami però continuavano
a restare verdi anche in mezzo alle fiamme, come se fossero coperti di
rugiada.
A quella vista Mosè
esclamò: «Andrò a vedere questa grande visione» (Es 3, 3) e mentre
pronunziava queste parole avvertì che il chiarore del fuoco
raggiungeva contemporaneamente e incredibilmente tanto i suoi occhi
come il suo udito.
Da quelle fiamme
avvampanti vennero infatti a lui come due grazie diverse: l’una
attraverso la luce dava vigore agli occhi, l’altra faceva risuonare
alle orecchie ordini santi.
La voce proveniente dal
chiarore ingiunse a Mosè di levare i calzari e di salire a piedi nudi
verso il luogo in cui splendeva la luce divina.
Poiché ritengo superfluo,
per l’intento che mi sono proposto, dilungarmi su tutte le singole
vicende esteriori della vita di Mosè, mi basta far notare che
l’apparizione divina gli donò tanta forza che fu in grado di accettare
l’ordine di liberare il popolo dalla schiavitù degli Egiziani.
Egli fece esperienza della
forza ricevuta, attraverso prove che Dio gli comandò di eseguire lì
sul momento. Fatta cadere per terra una verga che teneva in mano, essa
si trasformò in serpente, ma non appena l’ebbe raccolta da terra,
ritornò come prima. Fu poi la volta di una mano che, appena estratta
dal seno, mutò il colore della pelle, divenendo bianca come neve, ma
rimessa al posto di prima riacquistò il colore naturale.
Ritorno in Egitto (Es 4, 18 27)
Decise allora di ritornare
in Egitto conducendo con sé la moglie e il figlio. Nel viaggio, come
dice la storia, gli andò incontro un angelo, che gli minacciò la morte,
ma la donna riuscì a placarlo con il sangue della circoncisione del
figlio.
Anche Aronne, suo fratello, venne a incontrarlo e a parlargli secondo l’ordine che aveva ricevuto da Dio.
Per la liberazione del popolo (Es 4, 28 31; 5, 1 19)
Il popolo che viveva
disperso in mezzo agli Egiziani e oppresso sotto i lavori forzati, fu
da loro convocato in assemblea, dove essi promisero a tutti la
liberazione dalla schiavitù. Il proposito fu manifestato al sovrano da
Mosè stesso, ma quello si mise a opprimere ancor più gli Israeliti,
mostrandosi più esigente con i sovrintendenti ai lavori. Ordini più
severi imposero la raccolta di una quantità maggiore di argilla, di
paglia e di stoppa.
Gli indovini egiziani e i serpenti (Es 7, 8 13)
Quando il Faraone, tale
era il nome del tiranno degli egiziani, fu informato dei portenti che
Mosè aveva compiuto in mezzo al suo popolo, escogitò dei raggiri
servendosi degli indovini. Era convinto che le arti magiche di costoro
avrebbero potuto riprodurre lo stesso portento delle verghe trasformate
da Mosè in serpente al cospetto di tutti gli Egiziani.
In realtà , anche le verghe
degli indovini divennero serpenti, ma il serpente uscito dalla verga
di Mosè si lanciò su di loro e li divorò.
Questo bastò a smascherare
l’errore e mostrare che la magia aveva saputo procurare alle verghe
soltanto una vita effimera, capace di destare l’ammirazione di persone
facili a lasciarsi ingannare.
Le piaghe d’Egitto (Es 7, 14 11, 36)
Quando Mosè s’accorse che
anche il popolo egiziano appoggiava pienamente il despota autore di
quei raggiri, procurò di colpirli tutti indistintamente, con dei
castighi.
Gli stessi elementi del
mondo materiale, quasi un esercito agli ordini di Mosè, si schierarono
contro gli Egiziani: la terra, l’acqua, l’aria, il fuoco mutarono le
loro qualità naturali, ma soltanto quando si trattava di castigare gli
Egiziani maldisposti verso gli Ebrei. Quando qualcuno di questi
elementi causava la punizione dei primi, contemporaneamente e nel
medesimo luogo lasciava immuni gli altri, perché innocenti.
Le acque mutate in sangue (Es 7, 14 25)
Così le acque d’Egitto si
mutarono in sangue coagulato che, formando una massa compatta, fece
morire i pesci. Ma per gli Ebrei l’acqua restò quella che era, anche se,
per il suo apparente colore, poteva essere scambiata per sangue.
Gli indovini presero a pretesto l’apparenza di sangue che aveva l’acqua usata dagli Ebrei, per ordire nuovi inganni.
Le rane (Es 7, 26; 8, 11)
Una moltitudine di rane
riempì in seguito tutto l’Egitto. Esse non venivano da una eccezionale
proliferazione della natura, ma le fece accorrere in numero
straordinario un ordine di Mosè. Penetrarono così in tutte le case
degli Egiziani, causando gravi danni, ma non toccarono quelle degli
Ebrei.
Le tenebre (Es 10, 21 23)
Il nuovo castigo degli
Egiziani fu di non riuscire più a distinguere il giorno dalla notte.
Restarono avvolti in una oscurità continua, mentre gli Ebrei non
trovarono mutato il consueto alternarsi di luce e tenebre.
Altre calamità (Es 8,12 10, 20)
Molte altre calamitÃ
vennero suscitate da Mosè contro gli Egiziani: la grandine, il fuoco, le
mosche, le pustole, i topi, gli sciami di cavallette. Tutte queste
cose procurarono danni di maggiore o minore entità in conformità con la
loro specifica natura. Come sempre, gli Ebrei non subirono danno
alcuno, ma ne venivano a conoscenza dalle grida e dalle informazioni
dei loro vicini Egiziani.
La morte dei primogeniti (Es 12,29 30)
Tuttavia il fatto che rese
più evidente questa diversità tra Ebrei ed Egiziani, fu la morte dei
primogeniti. Davanti ai loro figli più cari trovati morti, gli
Egiziani levarono grandi grida di dolore, mentre tra gli Ebrei c’era
piena tranquillità e sicurezza. Essi infatti avevano segnato gli
stipiti delle porte di ogni loro casa con il sangue degli agnelli
uccisi e questa fu la ragione della loro salvezza.
La partenza degli Ebrei (Es 12,37 42)
Mosè non appena vide gli
Egiziani colpiti indistintamente con la morte dei loro primogeniti e,
per tanta disgrazia, immersi nel dolore e nel pianto, diede agli
Israeliti l’ordine della partenza, rendendoli docili con l’invito a
chiedere agli Egiziani le loro suppellettili, a titolo di prestito.
L’inseguimento (Es 14,5 9)
Per tre giorni gli Ebrei
camminarono fuori dei confini dell’Egitto, ma l’Egiziano, ci dice la
storia, dispiaciuto che Israele non fosse più sottoposto alla sua
schiavitù, decise di assalirli con la forza, mandando contro di loro un
esercito di cavalieri. Alla vista dell’esercito con armi e cavalli gli
Ebrei, poco pratici di guerra e non abituati a tali spettacoli, si
spaventarono e si ribellarono a Mosè. Ma qui la storia riferisce sul
conto di questi un fatto quasi incredibile: mentre infatti egli
moltiplicava le energie per incoraggiare i suoi, esortandoli a nutrire
buone speranze, nel suo intimo supplicava il Signore che li liberasse
dalle angustie. Riferiscono che Dio intese quel grido silenzioso,
consigliando a Mosè come scampare dal pericolo.
La nube (Es 13,21 22)
Intanto era apparsa una
nube a far da guida al popolo. Essa non consisteva di vapori umidi,
soggetti a condensazione, come normalmente avviene. Era una nube dalla
straordinaria composizione cui corrispondevano altrettanto straordinari
effetti. Infatti era guidata dal Signore e, se stiamo alle
informazioni del racconto, avveniva questo: quando i raggi del sole
splendevano con forza, la nube faceva da riparo al popolo, mandando
ombra a chi le stava sotto e insieme una sottile rugiada, che
rinfrescava l’aria infuocata; di notte invece, si trasformava in fuoco
che, da sera fino all’alba, mandava luce sul cammino degli Israeliti3.
Il passaggio del Mar Rosso (Es 14, 5 31)
Mosè la seguiva e
altrettanto raccomandava di fare al popolo. Giunsero così, dietro tale
guida, sulle rive del Mar Rosso. Ma l’esercito egiziano piombò alle
spalle degli Israeliti, mettendoli in grave angustia, poiché non
avevano altra via di scampo che spingersi dentro il mare. Sorretto dalla
forza di Dio, Mosè operò allora un prodigio grande, incredibile. Stando
sulla riva del mare, ne colpì con la verga le acque ed ecco, sotto i
colpi della verga, il mare si divise e le onde, rotte a una estremità ,
portarono la loro spaccatura fino alla riva opposta, proprio come
succede in un vetro, quando la frattura fatta a un capo si estende fino
all’altro capo.
Tutti, Mosè e il popolo,
scesero nel fossato che aveva diviso in due il mare e lì non solo si
trovarono all’asciutto, ma perfino il sole arrivò ad avvolgerli con la
sua luce. Attraversarono allora a piedi il fondo asciutto del mare,
senza paura delle pareti di ghiaccio che di qua e di là si levavano come
un muro4.
Anche il Faraone entrò coi suoi per la strada aperta in mezzo alle
acque, ma queste subito tornarono ad accavallarsi e confondersi e il
mare, ripresa uniformità d’aspetto, ricominciò a fluire alla maniera
consueta.
Quando gli Israeliti
avevano ormai terminato il tragitto sul fondo del mare e si trovarono
sull’altra riva, intonarono un inno di vittoria in onore del Signore,
che aveva drizzato innanzi a loro un trofeo non intriso di sangue5 e aveva sommerso nelle acque gli Egiziani, con cavalli, carri e armi.
Le acque di Mara (Es 15, 22 25)
Avanzarono nel deserto per
tre giorni, senza trovare acqua. Mosè era preoccupato per
l’impossibilità di soddisfare la sete di tante persone. Si accamparono
attorno a una palude dalle acque salate e più amare di quelle del mare.
La gente, divorata dalla sete, fissava, seduta sui bordi, l’acqua della
palude. Ma ispirato da Dio, Mosè andò in cerca di un pezzo di legno e
lo gettò nelle acque: subito esse divennero dolci.
Per effetto del legno,
l’acqua amara era diventata dolce. Poiché la nube riprese a precederli,
essi non avevano che da seguire gli spostamenti di quella guida,
stando a questa regola: se la nube si fermava sospendevano la marcia;
viceversa quando riprendevano il cammino, la nube tornava a guidarli.
Le palme di Elim (Es 15, 27)
Seguendola, giunsero in
una località ricca di buone acque, che zampillavano tutt’intorno da
dodici abbondanti fonti, ombreggiate da un boschetto di palme. Erano
appena settanta queste palme, ma tanto alte, belle e grosse da lasciare
meravigliati chi le mirava.
L’acqua dalla roccia (Es 17, 1 7)
La nube li guidò verso
un’altra località , dove fecero sosta. Il luogo era deserto, coperto di
sabbia asciutta e bruciata, senza alcuna vena d’acqua che lo inumidisse.
Di nuovo allora tornò la sete a tormentarli e Mosè procurò acqua
dolce, buona e abbondante più del bisogno, facendola ancora scaturire
da una roccia della collina, colpita con la sua verga.
La manna (Es 16, 9 27)
Intanto si era esaurita la
provvista di cibo che ciascuno aveva preso per il viaggio e si
trovavano ormai stretti dalla fame, quando avvenne un’incredibile
meraviglia. Il cibo arrivò non dalla terra come è normale, ma dal
cielo, al pari di rugiada. Proprio come una rugiada infatti esso
scendeva di mattina, ma nell’atto in cui lo raccoglievano, trovavano
che si trattava di cibo. Non erano infatti delle gocce, come avviene
nella rugiada, ma certi grani cristallini, simili al seme di coriandro,
rotondi e dal sapore di miele.
I fatti riguardanti la
raccolta di questo cibo hanno dello straordinario: succedeva anzitutto
che i più deboli non raccogliessero meno degli altri, tutti invece
finivano per avere una porzione eguale, anche se età e capacità fisiche
erano differenti e ciascuno cercasse di raccoglierne in proporzione
dei propri bisogni.
Ma non mancava qualcuno
che, non accontentandosi del fabbisogno quotidiano, ne ammassava per il
giorno seguente. Orbene, la porzione accantonata diveniva
immangiabile, trasformandosi in vermi.
Solo nel giorno precedente
a quello consacrato, per mistica ragione, al riposo, ognuno scopriva di
aver raccolto una porzione doppia, nonostante che la quantità discesa e
raccolta fosse la medesima degli altri giorni. Avveniva questo, perché
la necessità di raccogliere il cibo, non servisse di pretesto per
violare la legge del sabato. Si trovavano dunque di fronte a una più
chiara manifestazione della divina Potenza. Infatti negli altri giorni,
il cibo preso in più si guastava; esso invece restava intatto e non meno
fresco del solito, quando veniva raccolto per il sabato, che era il
loro giorno festivo.
Vittoria sugli Amaleciti (Es 17, 8 16)
Gli Amaleciti, una
popolazione straniera, mossero guerra contro di loro. Era la prima
volta che il popolo d’Israele scendeva armato a combattere. Furono in
realtà uomini appositamente scelti quelli che sostennero la battaglia,
non già tutto il popolo, ma veri e propri soldati, in grado di condurre
una guerra. In quell’occasione Mosè sperimentò una strategia nuova.
Nel tempo stesso in cui
l’altro capo degli Israeliti, Giosuè, muoveva con l’esercito contro gli
Amaleciti, Mosè in disparte stava sopra un colle, con gli occhi
rivolti al cielo, assistito di qua e di là da due aiutanti. Il racconto
ci fa sapere che l’esercito d’Israele aveva il sopravvento sui nemici,
fin quando Mosè teneva sollevate le mani al cielo; cedeva invece ai
loro assalti, quando anche le mani di Mosè si lasciavano andare. Ciò
costatando, i due assistenti pensarono di tenergli sollevate le braccia,
divenute, per ignote ragioni, troppo pesanti per stare alzate da sole.
Ma anch’essi si stancarono di restare in quella posizione e perciò
fecero accomodare Mosè su un seggio di pietra; così gli fu più facile
tener sollevate le mani verso il cielo. Nel frattempo gli Israeliti
riuscirono a travolgere i loro nemici.
La nube continuava a
guidarli dall’alto e, seguendola, non avrebbero potuto perdere la
giusta direzione. Avevano dunque di che vivere senza troppe fatiche,
giacché il pane pioveva dal cielo già pronto, né mancava acqua da bere,
scaturendo essa dalla roccia. La nube da parte sua li proteggeva contro
il calore del giorno, e di notte, risplendendo come fuoco
fiammeggiante, disperdeva le tenebre.
La teofania del Sinai (Es 19, 1 24)
Durante una sosta nel
deserto ai piedi di una montagna, dove avevano piantato l’accampamento,
subirono una prova dolorosa. In compenso là furono iniziati da Mosè ai
misteri divini. Fu anzi Dio stesso che introdusse Mosè e il popolo ai
suoi misteri per mezzo di grandiosi miracoli. Questa mistagogia
avvenne in questo modo. Fu dato ordine al popolo che si tenesse lontano
da ogni impurità di corpo e di anima. Dovevano anche compiere diverse
abluzioni e astenersi dal matrimonio in determinati giorni. Purificati
da queste osservanze e liberate le loro anime dalle passioni, essi
dovevano salire verso il monte, per essere introdotti ai misteri di Dio6.
Il nome di questa montagna
era il Sinai. L’accesso a questo monte era permesso solo alle persone
di sesso maschile, purché si fossero purificate da ogni macchia. Venne
predisposta anche una rigorosa sorveglianza per impedire che non vi si
trovasse nessun animale e per scacciano immediatamente, qualora se ne
fosse scoperta la presenza.
L’aria, prima chiara e
luminosa, si fece improvvisamente oscura e una nube venne a coprire il
monte. Davanti a simile spettacolo, molti incominciarono a tremare di
paura e ancor più s’impaurirono, quando videro un fuoco provenire dalla
nube e circondare tutta la montagna insieme a nubi di fumo.
Mosè avanzava davanti a
tutti, ma anch’egli guardando a quanto succedeva, si sentiva agitato
dalla paura. Tremava al pari degli altri e, non riuscendo a nascondere
il suo stato d’animo, confessò apertamente il terrore che si era
impossessato di lui, visibile del resto anche dal tremore delle sue
membra.
Dall’apparizione usciva un
suono terrificante così che la loro paura traeva alimento dalla vista e
dall’udito. Era un suono simile a quello di numerose trombe, grave e
spaventevole come mai fu dato di udire. Nessuno, al suo primo esplodere,
poté sostenerne il rimbombo. Più il suono si avvicinava e si spandeva
attorno, più metteva paura. Poi, per divina virtù, si espresse in voce
articolata, come quella degli organi vocali e formulò un discorso,
ritrasmesso dall’aria. Non erano parole di cui si potesse tener poco
conto, poiché esse comunicavano gli ordini di Dio.
Avvicinandosi, la voce
cresceva di intensità e le parole risuonavano assai più forti e distinte
che non il suono di tante trombe, come era all’inizio7.
Ma il popolo non riuscì né
a sostenere la visione, né a percepire i suoni. Tutti allora, di
comune accordo, chiesero a Mosè che si incaricasse di trasmettere loro
gli ordini provenienti dalla voce8.
Tutti erano persuasi che
si trattasse di un insegnamento soprannaturale, ossia di una
rivelazione divina. Essi si ritrassero e scesero dal monte, lasciandovi
Mosè, solo. In lui allora successe il contrario di quanto avviene
normalmente. Rimasto solo, si sentì pieno di coraggio, come nessun
altro avrebbe potuto averne, mentre di fronte a cose spaventose di
solito si prende coraggio quando si è in molti.
Questo significa che la
paura iniziale non derivava propriamente da lui, ma dall’influsso che
su di lui aveva la paura degli altri. Non appena egli fu lontano dalla
folla timorosa, ebbe l’ardire di entrare solo nella nube e, scomparso
ormai alla vista di chi lo guardava, s’accostò alle realtà invisibili.
Non visto, stava dunque
vicino all’Essere invisibile, insegnando, a mio parere, con questo
fatto, che chiunque voglia unirsi a Dio deve estraniarsi dalle cose
visibili, per volgere la sua mente alla cima di quei monte che è
l’Essere invisibile e incomprensibile, cioè l’Essere divino. Esso si
trova là dove non può arrivare la comprensione dell’intelligenza.
Il Decalogo (Es 20,1 17)
Mosè giuntovi, ricevette i
divini comandamenti, che sono un ammaestramento alla virtù. Il primo di
essi riguarda la virtù della religione e ci impone di avere esatte
cognizioni intorno alla natura divina. Dobbiamo pensare che essa supera
ogni nostra cognizione derivata dai sensi o dall’intelligenza, così
che risulta impossibile qualsiasi paragone tra le nostre cognizioni e la
natura divina. Non dobbiamo dunque definire Dio secondo concetti umani,
perché la sua natura è superiore a tutte le cose dell’universo e non ha
alcuna somiglianza con quanto noi conosciamo. Dobbiamo soltanto
credere che essa esiste, senza darci pensiero di cercare la sua
qualità e quantità , l’origine e le modalità della sua esistenza: tutto
questo sarebbe infatti irraggiungibile dal pensiero umano.
I comandamenti divini,
così come erano formulati, contenevano anche ammaestramenti atti alla
correzione dei costumi. Essi si possono distinguere in leggi generali e
leggi particolari.
La legge generale che
comandava l’amore al prossimo, era atta a togliere alla radice ogni
ingiustizia. Da essa deriva il dovere di non far del male agli altri.
Alle leggi particolari apparteneva l’obbligo del rispetto verso i
genitori. Era poi elencata e condannata tutta una serie di altre
mancanze.
Il Tabernacolo celeste (Es 24, 15 18)
Purificato da queste
leggi, Mosè venne introdotto a più alti misteri, quando Dio gli
presentò. la complessa costruzione del Tabernacolo. Era un tempio la cui
bellezza e varietà non possono essere facilmente descritte. Comprendeva
un ingresso a colonne, tendaggi, lampadari, tavole, un altare dei
sacrifici e un altare degli olocausti e nell’interno un santuario
inaccessibile. Dio ordinò a Mosè di edificare quell’edificio di
armoniosa bellezza, affinché i posteri ne conservassero il ricordo e
ancor più ne ammirassero la meraviglia. Perciò Mosè non doveva
limitarsi a descrivere il Tabernacolo da lui visto in cielo, ma doveva
riprodurlo in una costruzione visibile qui in terra, usando i più
preziosi e più splendidi materiali che potesse trovare.
Il Tabernacolo terrestre e la sua tenda (Es 26,1 14; 36,8 19)
I fusti delle colonne
furono rivestiti d’oro, i loro capitelli d’argento, mentre le basi
erano di bronzo. Questa varietà di colori aveva, a mio parere, lo scopo
di dare maggior risalto ed estensione al bagliore dell’oro. Le parti
in bronzo stavano immediatamente sopra e sotto quelle in argento.
Anche i tessuti dei
tendaggi, delle coperture e dei drappi che correvano attorno al
Tabernacolo ed erano stesi sopra le colonne, furono fatti di materiali
finissimi, dalle tinte più varie: l’azzurro e la porpora, il rosso fuoco
o il bianco naturale e vivace del lino. Infatti, alcuni tessuti
destinati a usi particolari, erano di lino, altri invece di crine. I
drappi in rosso contribuivano da parte loro a rendere più attraente
tutto il complesso. Appena sceso dal monte, Mosè incominciò la
costruzione del Tabernacolo, servendosi di aiutanti per l’esecuzione.
Le vesti sacerdotali (Es 28,1 43; 39,1 31)
Già in antecedenza, quando
ancora stava nel Tabernacolo celeste, Mosè ricevette da Dio istruzioni
circa i paramenti che avrebbe dovuto indossare il Sommo Sacerdote,
entrando nel sacrario. C’erano vesti esterne e vesti interne e Dio
gliele fece conoscere in tutti i particolari, incominciando da quelle
esterne.
Comprendevano anzitutto
gli omerali, il cui colore corrispondeva a quello delle tende del
Tabernacolo ma recavano anche ricami in oro. Ai due lati erano
trattenuti da fibbie cerchiate d’oro e splendenti di smeraldi. Da
queste bellissime pietre irradiavano bagliori verdognoli. Erano oggetto
di ammirazione anche i ceselli che le ornavano, presentandosi però in
forma diversa da quella dei culti idolatrici. Invece di idoli vi erano
incisi i nomi dei Patriarchi, sei nomi per ciascuna pietra: davvero una
meraviglia!
Attaccati alle fibbie, sul
davanti, c’erano piccoli scudi, da cui pendevano, a modo di rete,
cordicelle intrecciate, di bellissimo effetto, perché ricevevano risalto
dalle parti sottostanti.
Anche sul petto, il Sommo
Sacerdote portava una stoffa lavorata in oro; vi apparivano, disposte su
quattro file, pietre preziose di diverso tipo, tante quanti sono i
Patriarchi. Ogni fila comprendeva tre pietre e ogni pietra portava
incisi i nomi dei capostipiti delle tribù.
Sotto gli omerali scendeva
fino ai piedi una tunica, intorno alla quale correva una bella
frangia, decorata di vari ricami e alla quale erano sospesi campanelli
dorati e piccole melograne, che la dividevano simmetricamente. Sul capo
il Sommo Sacerdote portava una fascia di colore violaceo e in fronte
una lamina d’oro, su cui erano incise parole arcane.
Le pieghe troppo larghe
della tunica erano strette da una fascia, e un apposito indumento
copriva le parti del corpo che vanno coperte. Ogni singola veste e ogni
suo ornamento erano simbolo e richiamo di corrispondenti virtù
richieste nel Sommo Sacerdote.
Le tavole della legge (Es 24,12 18; 31,18)
Dio dopo aver impartito a
Mosè questi arcani insegnamenti, gli comandò di uscire dalla nube
caliginosa e scendere, interiormente rinnovato, là dove si era
accampato il popolo, per far conoscere a tutti ciò che gli era stato
mostrato nella teofania: le leggi, il tabernacolo, il sacerdozio, tutto
secondo gli esemplari visti sul monte. Egli portava in mano le sacre
tavole consegnategli da Dio; esse non erano dovute al lavoro dell’uomo
ma tutto, sia il materiale di cui eran fatte, sia le lettere che vi si
vedevano incise, era opera di Dio.
Il vitello d’oro e le tavole spezzate (Es 32,1 24)
Ma il popolo, prima che il
Legislatore scendesse dal monte, si era dato all’idolatria, rendendo
così inutile il dono della legge che figurava scritta sulle tavole.
Infatti, durante i quaranta giorni e le quaranta notti del lungo
colloquio di Mosè con Dio nella nube caliginosa, quando egli veniva
iniziato ai misteri divini e faceva esperienza di una vita non più
terrena, ma soprannaturale (il suo corpo per tutto quel periodo non ebbe
bisogno di cibo), il popolo si lasciò andare ad azioni disordinate,
come farebbe un fanciullino, quando non si sente più sorvegliato dal
pedagogo. Tutti, infatti, si recarono da Aronne e lo costrinsero a farsi
promotore di un culto idolatrico. Costruirono un idolo d’oro in forma
di vitello e stavano già raccogliendosi intorno all’empio simulacro,
quando sopraggiunse Mosè, che infranse contro di esso le tavole
consegnategli da Dio. Questo fece per castigare il loro peccato e per
significare che avevano perduto la grazia del Signore.
La punizione dei colpevoli (Es 32,25 35)
I trasgressori lavarono
con il loro sangue la macchia di tanto delitto e la loro punizione, che
riuscì a placare il Signore, fu affidata ai Leviti.
Le seconde tavole di pietra (Es 34,1 4)
Mosè fece distruggere
anche l’idolo, poi, passati altri quaranta giorni, tornò con altre
tavole. Questa volta aveva dovuto lui stesso procurarsi le pietre,
mentre la Potenza divina provvide solo a incidervi le lettere. Anche in
quell’occasione, prima del ritorno con le nuove tavole, era vissuto
quaranta giorni in maniera straordinaria e soprannaturale, senza sentire
alcun bisogno di cibo.
Altre opere per il Tabernacolo (Es 27, 30)
Innalzato il Tabernacolo
per il servizio religioso e date le leggi, stabilì il sacerdozio,
conforme alle indicazioni ricevute dal Signore. Furono eseguite anche
molte altre opere inerenti al Tabernacolo: la sistemazione dell’ingresso
e quella dell’interno, l’altare dell’incenso e l’altare degli
olocausti, il candelabro, i drappi, il santuario interno, destinato
alla preghiera, le vesti sacerdotali, i profumi, le cerimonie sacre, le
purificazioni, le orazioni di ringraziamento, quelle per scongiurare i
malanni e di propiziazione per i peccatori, tutto fu ordinato in
conformità alle istruzioni ricevute.
L’invidia dei familiari (Nm 12)
Ma l’invidia, male
congenito della natura umana, si insinuò nell’animo dei suoi stessi
familiari, di Aronne suo fratello, che pure aveva l’onore del sommo
sacerdozio e di Maria, sua sorella, che fu presa da una gelosia tutta
femminile per gli onori che Mosè aveva ricevuto da Dio. Costoro osarono
muovere gravi critiche contro Mosè, tanto che il Signore non poté
lasciare impunita tale colpa.
In quella circostanza si
rivelò l’ammirevole mansuetudine di Mosè perché, volendo Dio punire la
cattiveria della sorella egli, superando il risentimento, supplicò il
Signore in suo favore.
Mormorazioni per il cibo (Nm 11)
In seguito ci fu una
ribellione tra il popolo, causata dai piaceri smoderati del ventre.
Infatti, non erano contenti di vivere bene, senza malattie, con il cibo
che scendeva dal cielo, ma desideravano avere la carne, disprezzando
così i beni che avevano a disposizione e rimpiangendo i tempi della
schiavitù sotto gli Egiziani.
Mosè parlò al Signore per
queste lamentele e il Signore, pur manifestando il suo disappunto, fece
in modo che avessero quanto desideravano, mandando sull’accampamento
una moltitudine di uccelli, che volavano raso terra.
Questo facilitò la loro
cattura e la gente ebbe la carne tanto bramata. Ma avendo a disposizione
molta varietà di cibi, ne usarono per preparare intingoli dannosi alla
salute, causa di malattie e perfino di morte. Viste tali conseguenze
rovinose, si ridussero a migliori consigli, cosa che dovrebbe
ripetersi a beneficio di chiunque si soffermi a meditare su tali fatti.
Gli Esploratori (Nm 13)
Il paese che per
assegnazione divina, avrebbero dovuto abitare, fu perlustrato da
osservatori inviati da Mosè. Ma, in seguito alle false notizie riferite
da alcuni di loro, il popolo di nuovo si adirò contro di lui.
Nuova sedizione (Nm 20, 1 4)
Dio, vedendo tanta
diffidenza nel suo aiuto, impedì loro per castigo che potessero
giungere a vedere la terra promessa. Continuava frattanto la marcia
attraverso il deserto e di nuovo venne a mancare l’acqua. Si era ormai
dileguato dalla loro memoria il ricordo del miracolo con cui
precedentemente il Signore aveva fatto scaturire l’acqua dalla roccia.
Essi perciò non avevano
fiducia di ottenere da Dio ciò di cui abbisognavano. Giunsero perfino,
nella loro disperazione, a lanciare oltraggi contro Dio e contro Mosè e
sembrò che anche questi stesse per cadere nell’incredulità . Avrebbe Dio
mutato ancora la dura roccia in acqua, con un nuovo miracolo?
Il serpente di bronzo (Nm 21, 4 9)
In preda ancora una volta
alle basse brame della gola, essi rimpiangevano i pasti abbondanti
dell’Egitto, sebbene non mancasse loro il necessario. I promotori della
ribellione, tutti giovani, furono puniti da serpenti, che li
assalirono e li morsero, iniettando in loro un veleno mortale. Molti
infatti morirono e Mosè allora, per suggerimento del Signore, fece
innalzare su un’altura, al cospetto dell’intero accampamento, un
serpente di bronzo.
Il danno arrecato dai
serpenti in mezzo al popolo fu fermato e tutti si sentirono liberati
dall’estrema rovina. Bastava volgere gli sguardi all’immagine bronzea
del serpente, per essere immunizzati dai morsi dei veri serpenti, come
se il loro morso, per una misteriosa operazione, iniettasse un veleno
dolce.
La sedizione per il sacerdozio (Nm 16,1 35; 17,1 15)
Avvenne una nuova rivolta
del popolo contro i capi, perché costoro volevano assumere con la forza
la dignità sacerdotale. Mosè si presentò ancora al Signore,
supplicandolo in favore dei rivoltosi, ma questa volta le decisioni
della divina Giustizia ebbero il sopravvento sui suoi sentimenti
compassionevoli. Il Signore provocò nel terreno l’apertura di una
voragine che, rinchiudendosi, divorò tutti quelli che si erano
sollevati contro l’autorità di Mosè. Coloro che avevano voluto usurpare
il sacerdozio con la violenza, circa duecentocinquanta persone, furono
bruciati vivi e questa punizione fece diventare più saggi gli altri.
La verga di Aronne (Nm 17, 16 26)
Per persuaderli che la
grazia del sacerdozio viene dal Signore, Mosè consegnò una verga ai
capi di ciascuna tribù, facendovi incidere il loro nome. Tra le verghe
c’era anche quella del Sommo Sacerdote Aronne.
Collocate davanti
all’altare, le verghe indicarono senza equivoci chi il Signore aveva
scelto alla dignità sacerdotale. Infatti, sola fra tutte, la verga di
Aronne germogliò dal suo fusto (era legno di noce), produsse e maturò un
frutto. La cosa fu giudicata miracolosa perfino dai più scettici, visto
che si trattava di un legno secco, legato in fascio con gli altri,
senza radice, eppure produsse un frutto, come si fosse trattato di una
pianta viva. La Potenza divina aveva dunque operato in quel legno ciò
che normalmente e insieme operano il terreno, l’umidità , la corteccia e
la radice.
Rifiuto degli Edomiti (Nm 20,14; 21,21 26)
Dopo questi fatti, Mosè
fece avanzare le sue schiere verso il territorio di una popolazione
straniera, che però non permise a loro di passare. Ciononostante egli
riuscì ugualmente a seguire la strada maestra, senza deviare dall’esatta
direzione. Quei nemici non si diedero per vinti ma, sconfitti in
battaglia, lasciarono via libera a Mosè.
Balaam l’indovino (Nm 22 24)
Un certo Balac, re degli
Edomiti, un popolo piuttosto evoluto, visto ciò che era capitato ai
prigionieri catturati dagli Ebrei, e temendo di subire la stessa
sorte, mandò in soccorso dei Madianiti non un esercito armato ma un
certo Balaam, maestro nelle arti magiche e divinatorie, di cui menava
gran vanto e da cui s’aspettava sorprendenti risultati. Egli esercitava
l’arte della divinazione con l’aiuto del demonio9. Sapeva perciò incutere timore e causare gravi danni alle persone superstiziose.
Mentre stava percorrendo
la strada insieme a quelli che erano venuti a condurlo dal re, egli si
sentì dire dalla voce del suo asino, che la sua sarebbe stata una
fatica vana. Fu poi istruito da un’apparizione come comportarsi. Così
ogni malefico influsso della magia risultò annullato, dal momento che
egli non maledisse affatto gli Ebrei impegnati in una battaglia, nella
quale avevano l’appoggio di Dio.
Non più ispirato dalle
potenze demoniache, ma da Dio stesso, pronunciò parole profetiche circa
gli eventi futuri. Sottratto alle arti del male, avendo preso coscienza
dell’Onnipotenza divina, abbandonò le pratiche divinatorie e si fece
interprete della divina volontà .
Le figlie di Moab (Nm 25,1 18)
Israele, che ormai si era
fatto forte nelle azioni di guerra, riuscì a sterminare il popolo dei
Madianiti, ma fu a sua volta sconfitto a causa dell’incontinenza nei
riguardi delle donne prigioniere. Finees passò a fil di spada quanti si
contaminarono con tali unioni illegittime e allora si placò l’ira del
Signore contro i colpevoli, che la passione aveva travolto.
La morte di Mosè (Dt 32,48 52; 34,1 12)
Fu quella l’epoca in cui
Mosè, il grande Legislatore, abbandonò questa vita terrena, dopo che
poté osservare da lontano, sulla cima di un monte, la terra assegnata a
Israele con promesse già fatte agli antichi patriarchi.
Egli non lasciò in terra
nessun vestigio corporale né il ricordo della sua partenza è legato a
qualche particolare luogo di sepoltura. Gli anni non offuscarono la
sua grazia, ne lo splendore dei suoi occhi, né la maestà del suo volto.
Sebbene la natura sia soggetta a continui cambiamenti, egli mantenne
immutata la sua bellezza.
Ti ho presentato in sunto
la storia di quest’uomo, così come l’abbiamo appresa, dilungandomi
necessariamente su quei fatti che interessano da vicino il nostro
tema. È venuto il momento di applicare le vicende ora esposte allo
scopo della nostra trattazione e dobbiamo perciò riprendere da capo
tutta la storia.
NASCITA SPIRITUALE
Possiamo imitare la nascita di Mosè
Dato che Mosè venne alla
luce quando una legge dispotica imponeva l’uccisione di ogni neonato
maschio, vediamo in che senso anche noi, con le libere scelte della
nostra volontà , possiamo imitare quella sua fortunosa nascita.
Subito qualcuno obietterÃ
vivacemente che è una pretesa assurda volerci rendere somiglianti a lui
anche nel modo di nascere. Ma non abbiamo difficoltà a prendere le
mosse delle nostre riflessioni da questo aspetto alquanto difficile
della imitazione di Mosè.
La libera volontà è il principio di questa nascita
Nessuno ignora che ogni
essere soggetto per natura a mutamenti, non rimane mai identico a sé
stesso, ma passa continuamente da una condizione all’altra, divenendo
migliore o peggiore in conseguenza di tali cambiamenti. È questa una
costatazione fondamentale per le nostre riflessioni. Se infatti il
tiranno egiziano lascia in vita le femmine, ciò fa perché il sesso
femminile gli torna gradito, incarnando esso un’attrattiva fisica
capace di destare passioni violente, alle quali la natura umana cede con
facilità . Invece il sesso maschile, dalle caratteristiche più austere e
affini con la virtù, viene trattato dal tiranno come nemico, per il
sospetto che possa un giorno insidiare il suo potere.
Ogni cosa soggetta a
mutamenti deve in certo modo essere generata di continuo. Nelle sostanze
mutevoli nulla può restare identico a sé stesso. Ma il particolare tipo
di generazione al quale noi ci riferiamo, non ha origine da cause
esterne, come capita nella generazione corporale di una nuova
creatura. Il suo frutto proviene invece da un atto libero della
volontà . Noi siamo perciò in certo senso padri di noi stessi, potendoci
generare quali ci vogliamo e darci liberamente il volto che desideriamo
o di maschio o di femmina, secondo che ci siamo lasciati guidare dalla
virtù o dal vizio.
È certamente possibile
anche a noi, contro il volere e con dispiacere del nostro tiranno,
giungere a nascere spiritualmente e ottenere che i genitori di così
bella creatura (essi sono i buoni movimenti dell’animo) possano
ammirarla e mantenerla in vita, nonostante l’opposizione del tiranno.
Affinché ognuno, prendendo
le mosse dai fatti della storia, ne possa cogliere meglio il
significato recondito, vogliamo dire quale insegnamento ci dà qui la
Scrittura. Essa ci dice che l’inizio della nostra vita spirituale
coincide con una nascita che reca dolore al nostro nemico. Questa
nascita è portata a buon fine dalla nostra volontà . Ma se uno non
mostrasse sopra di sé i segni visibili della vittoria sull’avversario,
come potrebbe riuscire a rattristano?
È compito esclusivo della
libertà generare quella forte creatura che è la virtù, nutrirla con
alimenti adatti e provvedere che venga salvata dalle acque senza che
abbia a subire danni10.
Coloro che consegnano i
loro figli al tiranno, li espongono nudi e senza protezione alla
corrente del fiume. Chiamo fiume la vita che è agitata dalle onde
incessanti delle passioni; esse sommergono e travolgono chiunque venga
immerso nelle sue acque.
I vantaggi di una solida formazione
Ma le provvide e sagge
disposizioni dell’animo, che sono padri di creature, virili, mettono al
sicuro i loro figli dentro un cesto, allorché le necessità della vita
le costringono ad abbandonarli alle onde. Otterranno così che,
nonostante la furia delle acque, i loro figli non finiscano affogati.
Il cesto che è formato dall’intreccio di molti giunchi rappresenta
l’opera educativa, costituita da varie discipline e capace di tenere a
galla sopra le onde chiunque a essa si affida.
La nuova creatura di cui
siamo i padri, una volta messa al sicuro nel canestro di una solida
formazione, non verrà trascinata per molto tempo alla ventura in balia
di onde impetuose, ma sotto la loro stessa spinta, sarà automaticamente
sbalzata dal pelago della vita sopra il terreno solido del litorale.
L’esperienza ci insegna
che le persone capaci di non lasciarsi sommergere dalle umane illusioni,
riescono a tenersi lontane dalle vicende tumultuose della vita, come
se queste, nel loro incessante movimento, trattino come peso inutile
quelli che a esse si oppongono con la loro virtù.
I limiti della cultura profana
La figlia del Faraone, che
era sterile e senza figli (in lei vedo simboleggiata la cultura pagana)
fa credere che il ragazzo sia suo per poter essere chiamata madre11. Egli acconsente che duri quel fittizio legame fin quando non abbia superato l’età della fanciullezza.
Una volta arrivato all’etÃ
adulta, sappiamo che Mosè considera una vergogna essere chiamato figlio
di una donna sterile. Veramente la cultura profana è sterile, perché
quando ha concepito, non porta a compimento il parto. Quali sono i
frutti derivati dalle dottrine che la filosofia pagana ha concepito in
gran numero e a prezzo di tante fatiche?
Anche se tali dottrine non
sempre sono del tutto vane e informi, succede che abortiscano prima di
giungere alla luce della conoscenza di Dio. Potrebbero divenire creature
virili, ma nascoste come sono nel grembo di una sterile saggezza, esse
finiscono per morire.
Mosè dunque ritorna vicino
alla vera sua madre, dopo aver trascorso presso la regina degli
Egiziani un periodo di tempo sufficiente a mostrare che era stato
educato in mezzo a splendori regali. In realtà non restò mai del tutto
separato dalla madre neppure quando rimase presso la regina, perché fu
proprio sua madre che lo allattò.
Non trascurare il cibo della fede
A mio parere qui ci viene
insegnato che non dobbiamo lasciare il latte della Chiesa, nostra
madre, quando nel periodo della formazione fossimo costretti a
familiarizzare con dottrine estranee alla fede12.
Le leggi e gli usi della Chiesa rappresentano il latte che nutre le nostre anime e le irrobustisce, favorendone la crescita.
Mosè ci viene presentato
in seguito dal testo biblico in mezzo a due nemici, che simboleggiano
l’uno il complesso delle dottrine profane, l’altro l’insegnamento
tradizionale.
C’è realmente un contrasto
tra la religione ebraica e quella delle altre popolazioni, ed esse si
battono per avere la preminenza. Certe persone superficiali,
lasciandosi persuadere, abbandonano la fede per allearsi con i suoi
nemici e tradire così la dottrina dei loro padri13.
Ma chi possiede un animo
grande e coraggioso come l’aveva Mosè, procura la morte a quanti si
oppongono alla dottrina della fede.
Il dissidio interiore dell’uomo
Altri danno una diversa
spiegazione di questo passo, dicendo che tale lotta tra nemici si svolge
dentro di noi. L’uomo infatti si trova in mezzo a due contendenti, a
uno dei quali può procurare la vittoria sull’avversario, se egli si
mette dalla sua parte. Idolatria e vera religione, intemperanza e
moderazione, giustizia e ingiustizia e ogni altra realtà morale in
reciproca opposizione, riproducono in noi la lite tra l’egiziano e
l’ebreo.
Mosè ci insegna con il suo
esempio a farci alleati della virtù, sopprimendo chiunque a essa si
opponga. In realtà la vittoria della vera religione significa morte e
distruzione dell’idolatria. Parimenti l’ingiustizia viene eliminata
dalla giustizia e la superbia uccisa dall’umiltà .
Contrasto tra dottrina ortodossa ed eresia
In noi si ripete anche la
lite tra i due connazionali ebrei. L’eresia infatti non troverebbe modo
di affermarsi, se non si svolgesse dentro di noi una lotta serrata tra
le vere e le false dottrine.
Quando, per il malefico
influsso della cattiva condotta sui principi della verità , noi ci
sentissimo deboli di fronte al dovere di difendere la sana dottrina,
converrà che cerchiamo rifugio nell’adesione ai più alti misteri della
fede, come ci viene indicato dall’esempio di Mosè.
Piena adesione alla fede
Che se per necessitÃ
fossimo costretti a ritornare in mezzo agli stranieri, cioè a trattare
con persone i cui principi sono contrari alla fede, questo possiamo
farlo, purché anche noi allontaniamo i cattivi pastori dall’uso
illegittimo dei pozzi. In altre parole, noi dobbiamo confutare i
maestri del male, che cercano di sfruttare la loro missione di
insegnamento.
Vivremo allora in disparte14,
non più occupati a fare da pacieri tra persone litigiose, ma in mezzo a
gente pacifica, che si trova in pieno accordo con i nostri pastori.
Ne conseguirà che anche i
moti dell’anima resteranno sottomessi, come docili pecorelle, ai
comandi dello spirito che li presiede15.
Mentre godiamo tale sosta
di pace e di tranquillità , risplenderà su noi il sole della verità , che
illumina con i suoi raggi gli occhi delle nostre anime.
Questa verità è Dio, manifestatosi a Mosè nella soprannaturale e ineffabile rivelazione, di cui abbiamo parlato.
La virtù è la condizione per la conoscenza del Dio incarnato
Non dobbiamo trascurare,
in relazione all’oggetto della nostra ricerca, il fatto che l’anima del
Profeta venga rischiarata dalla luce proveniente da un cespuglio.
Se Dio è verità e la
verità è luce, termini questi che il Vangelo applica al Dio incarnato
(Gv 1,2), solo la strada della virtù ci conduce alla conoscenza di
quella luce divina che si è manifestata in una natura umana. Essa non
brilla a noi da un astro del cielo, per farci credere che emana da una
materia celeste, ma da un cespuglio della terra, con una forza
d’irradiazione superiore a quella degli astri del cielo.
In questa luce emanante
dal cespuglio, noi scorgiamo il mistero della Vergine, dal cui parto
sorse sul mondo la luce di Dio. Questa lasciò intatto il cespuglio da
cui proveniva, così che il parto non inaridì il fiore della verginitÃ
di lei.
La conoscenza del vero Essere
La luce del cespuglio ci insegna che anche noi dobbiamo restare esposti ai raggi della vera luce.
Sulla cima ove splende la
luce della verità , non si può salire con l’anima avvolta da quelle pelli
di animali morti di cui fu rivestita all’inizio la nostra natura,
quando ci trovammo denudati per aver disobbedito al comando divino16.
Solo se avremo tolto
questi indumenti, fatti di cose morte, la verità ci si svelerà e ci
rischiarerà . Conoscere l’Essere significa liberarsi da tutte le
cognizioni che hanno riferimento a ciò che non è. La falsità è l’idea
di una cosa che non esiste, ma si suppone esistente, mentre la verità è
conoscenza certa di ciò che realmente esiste.
Dopo aver riflettuto a
lungo e con tranquillità su problemi così ardui, nessuno riuscirÃ
facilmente a comprendere che cosa realmente è l’Essere, che ha come
prima sua proprietà quella di esistere e che cosa invece è il non essere
il quale, possedendo una natura contingente, si riduce a una parvenza
di essere.
Mosè nella divina visione,
venne a sapere e riconoscere che nessuna delle nostre conoscenze
sensibili e nessuna delle idee della nostra mente ha una reale
esistenza. Questa è posseduta invece in modo esclusivo da quella
sostanza a tutte superiore che è causa del tutto e dalla quale tutto
dipende.
Se fissiamo il nostro
pensiero sugli altri esseri esistenti, in nessuno di loro noi possiamo
scoprire quella emancipazione da legami con altri esseri che renda loro
possibile esistere senza possedere l’essere per partecipazione.
Quale sarà allora l’Essere
per essenza? Esso sarà l’Essere sempre identico a se stesso, quello
che non cresce e non diminuisce, non cambia in peggio o in meglio
(infatti non contiene nessun male e non c’è un altro bene che possa
superano), non abbisogna di nessun altro.
Sarà questo l’Essere
unicamente desidèrabile, dal quale ogni cosa prende esistenza, ma che
non si colloca al livello degli altri esseri, che hanno una esistenza
partecipata. Conoscere questo Essere equivale a conoscere la verità .
Mosè si avvicinò a lui.
Anche chi vuole imitarne l’esempio deve prima liberarsi dal peso delle
cose terrene e mirare poi alla luce che esce dal roveto, simbolo questo
della carne che manda su noi i suoi raggi quale luce di verità , come
dice il Vangelo (Gv 1, 9).
Il mistero dell’Incarnazione
Per effetto di quella luce
Mosè fu completamente trasformato, tanto da poter provvedere alla
salvezza degli altri. Si diede allora a contrastare la tirannide
prepotente e rovinosa con l’intento di ridare la libertà al suo popolo,
sottomesso a una spietata schiavitù.
Ciò avvenne dopo che la
mano mutò miracolosamente il suo colore naturale e dopo che la verga
taumaturgica si cambiò in serpente. A mio parere, questi fatti alludono
al mistero dell’Incarnazione del Signore, con la quale la DivinitÃ
apparve tra gli uomini per debellare il tiranno e liberare quelli
sottomessi al suo dominio.
Ci sono i testi dei
Profeti e del Vangelo a suffragare queste mie dichiarazioni. Dice il
Profeta: «La destra dell’Altissimo non è più la stessa» (Sal 76, 11). Il
Profeta, pur continuando a considerare immutabile la natura divina,
dice che essa si è esternamente mutata per accondiscendere alla nostra
debolezza e ha assunto la somiglianza della nostra natura.
Secondo il racconto
biblico, la mano del legislatore Mosè, non appena fu estratta dal seno,
assunse un colore non naturale; quando l’ebbe rimessa là donde l’aveva
tolta, riacquistò la primitiva bellezza. Anche l’Unigenito Figlio che è
nel seno del Padre (Gv 1, 18), è la destra dell’Altissimo.
Uscendo dal seno di Dio
per apparire in mezzo a noi, egli assunse la nostra somiglianza. Ma dopo
averci purificato dalle nostre debolezze, egli portò in cielo, nel seno
del Padre, quella mano che la natura gli aveva dato simile alla nostra
e allora non fu la sua natura divina, immune da alterazioni, che mutò,
ma fu la nostra natura umana, mutevole e passibile, che divenne
inalterabile al contatto con l’Essere immutabile.
Il serpente figura di Cristo
I credenti in Cristo
vedendo che noi ora connettiamo l’esposizione del mistero con un
animale che è il meno adatto a simboleggiarlo, cioè con il serpente nel
quale si mutò la verga di Mosè, non devono sentirsi in imbarazzo.
La stessa Verità non
disdegna simile accostamento quando dichiara nel Vangelo: «Come Mosè
innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il
Figlio dell’uomo» (Gv 3,14).
La ragione è chiara: se
l’autore del peccato ebbe dalla Scrittura il nome di serpente e se un
serpente, come è evidente, non genera che serpenti, il peccato viene
di conseguenza ad avere il i4ome stesso di colui che ne è stata la
causa.
Ci sono le parole
dell’Apostolo a testimoniare che Cristo è divenuto peccato per noi (2
Cor 5,21), dopo aver assunto la nostra natura peccatrice.
A ragione dunque viene applicato a Cristo il simbolo del serpente17, se teniamo ben presente che serpente e peccato sono la stessa cosa e che Cristo è diventato peccato.
Cristo, divenuto peccato,
si fece serpente perché questo, come abbiamo visto, altro non è che il
peccato. Fu per noi che Cristo divenne serpente onde divorare e
distruggere i serpenti egiziani, chiamati a vita dai maghi. Dopo di ciò,
egli torna a essere verga per l’emendamento dei peccatori e per
sostegno di coloro che salgono lungo l’erta della virtù, appoggiati alla
speranza e alla fede.
La fede infatti è sostanza
di cose sperate (Eb 11,1). La comprensione di queste realtà fa di noi
come degli dei rispetto agli oppositori della verità che si lasciano
facilmente ingannare dalle apparenze, persuadendosi che dare ascolto al
vero Essere è cosa spregevole18.
La forza che deriva dalla conoscenza della veritÃ
Il Faraone pensa appunto
così, quando dice: «Chi è mai costui perché io lo ascolti? Io non
conosco il Signore» (Es 5,2). Egli apprezza soltanto le cose materiali e
carnali, oggetto delle sensazioni più irragionevoli. Mosè invece
ricevette tanta forza dalla luce della verità che gli consentì di
affrontare vigorosamente i suoi oppositori. Egli fece come l’atleta
che, dopo il tirocinio con il maestro di ginnastica, si accinge con
coraggio e fiducia ad affrontare l’avversario19.
Mosè con in mano la famosa verga, simbolo della dottrina della fede, riuscì a eliminare i serpenti egiziani.
La cultura profana e la fede
Sua moglie, che era
forestiera, volle accompagnarlo. Essa è simbolo della cultura profana,
servendoci della quale noi potremmo anche riuscire a far maturare, in
noi i frutti della virtù. La filosofia morale e la filosofia fisica
potrebbero realmente favorire un’autentica vita spirituale, qualora
riuscissimo a purificare i loro dati dottrinali dalle deturpazioni di
errori profani.
Siccome Mosè non aveva
provveduto a distruggere totalmente ciò che era impuro e dannoso, gli
mosse incontro un Angelo a minacciargli la morte. Sua moglie allora
procurò di eliminare i segni che facevano riconoscere il loro figlio
come uno straniero e lo presentò, così purificato all’Angelo, cui
rivolse le sue suppliche. Dovrebbe risultare chiaro da ciò che ho detto
a chi è iniziato al simbolismo della storia, che la virtù progredisce
gradualmente; ciò appare nel significato simbolico delle vicende che la
Scrittura va a mano a mano raccontando.
In realtà gli insegnamenti
delle dottrine filosofiche contengono qualcosa come di carnale e di
incirconciso. Se lo togliamo, esse splendono di quel nobile decoro che è
tutto israelitico. La filosofia pagana insegna che l’anima è immortale
e si tratta indubbiamente di un insegnamento buono.
Essa però torna alla
condizione degli stranieri incirconcisi e carnali, quando dichiara che
l’anima passa da un corpo all’altro, trasformandosi in una natura
irrazionale20.
Simili esemplificazioni si
potrebbero moltiplicare. Così essa afferma che Dio esiste, ma poi lo
concepisce come un essere materiale21. Lo riconosce creatore, ma dice contemporaneamente che non può creare se gli manca la materia22. Concede che egli sia buono e potente, ma ammette che spesso è soggetto alla forza del fato23.
Troppo lungo sarebbe
passare in rassegna a una a una le dottrine lodevoli della filosofia
profana, cui sono congiunti insegnamenti assurdi. Se li togliamo, ci
apparirà benevolo l’Angelo di Dio a mostrarci ciò che di buono
contengono tali dottrine.
L’INCONTRO CON L’ANGELO
L’aiuto dell’Angelo custode
Fissiamo ora la nostra
attenzione sui fatti successivi, affinché anche noi, in procinto di
scendere in lotta contro i nostri nemici egiziani, possiamo incontrarci
con chi ci offra un aiuto fraterno.
Ben ricordiamo che Mosè
agli inizi della vita di perfezione si trovò immischiato in un episodio
di violenza e in una lite, allorché l’Egiziano uccise l’Ebreo e poi un
Ebreo si scagliò contro un proprio connazionale.
Egli però si volse a
propositi di vita più perfetta, sostenuto oltre che da questi propositi
anche dalla visione soprannaturale che ebbe in cima al monte e
meritando la grazia che Dio gli mandasse incontro il fratello, animato
da sentimenti amichevoli.
Noi non pensiamo di
scostarci dal nostro intento, se diamo a questi fatti
un’interpretazione simbolica. Il soccorso divino non manca in realtà a
coloro che si applicano a vivere virtuosamente ed è un soccorso
accordato da Dio già fin dalla nascita naturale24.
Esso diventerà più tangibile e visibile quando, applicandoci con
maggior diligenza e impegno nella vita spirituale, ci sentiremo in
mezzo a lotte più aspre. Per non dare l’impressione di dare spiegazioni
di cose oscure attraverso spiegazioni altrettanto oscure, cercherò di
chiarire il mio pensiero.
Un insegnamento fondato
sulla tradizione patristica asserisce che Dio non abbandona l’uomo a sé
stesso dopo che è stato assoggettato al peccato, non per colpa
personale, ma in forza di quella che ha coinvolto tutto il genere umano.
Dio assegna a ciascun uomo l’aiuto di un Angelo, che è una creatura
non fornita di corpo. Il guastatore della nostra natura da parte sua
cerca di ostacolarci per mezzo di un demone malefico, intento solo al
nostro danno25.
L’uomo si trova pertanto
in mezzo a due esseri che lo accompagnano con intenti contrari:
l’Angelo buono che lo spinge a riflettere sui beni della virtù,
oggetto della speranza di quelli che la praticano e l’Angelo cattivo che
spinge ai piaceri sensuali, incapaci di suscitare la speranza dei beni
futuri perché, dando un godimento immediato, sottomettono a schiavitù i
sensi di coloro che vi si abbandonano.
Solo se ci liberiamo dagli
allettamenti del male e se fissiamo la nostra mente verso le mete più
alte, lasciando ogni atto cattivo e mettendoci davanti come uno
specchio la speranza dei beni eterni26,
potremo riflettere nella limpidezza della nostra anima l’immagine delle
cose celesti e sentiremo vicino l’aiuto di un fratello.
L’uomo infatti,
considerando la parte spirituale e razionale del suo essere, è come un
fratello dell’Angelo mandato ad assisterci quando stiamo per
avvicinarci al Faraone.
Precisazioni sul metodo esegetico
Se nel corso delle nostre
riflessioni sui fatti della storia di Mosè, si riscontrasse che
qualcuno di quei fatti non concorda con le nostre spiegazioni, nessuno
deve prendere motivo da ciò per rifiutare in blocco le applicazioni da
noi date.
Bisogna che sia sempre
tenuto presente lo scopo del nostro scritto mirante, come abbiamo
spiegato nell’introduzione, a proporre la vita di uomini grandi come
modello di virtù per i posteri27.
Evidentemente non è
possibile che gli emuli delle virtù di quei grandi si trovino nelle
loro identiche materiali situazioni. (Ci si dovrebbe trovare ancora
nel caso di un popolo che cresce sotto la schiavitù degli Egiziani,
trovarsi davanti a un persecutore che fa uccidere i neonati maschi,
lasciando vivere il sesso più debole e gentile, ripetersi gli altri
particolari narrati dalla storia). Risulta perciò impensabile che le
loro gesta possano essere ripetute tali e quali.
Conviene invece ricavare
dalle loro imprese un insegnamento spirituale, utile per quelli che
mirano a condurre una vita simile alla loro nella pratica della virtù.
Tralasceremo perciò come inutile al nostro scopo quegli avvenimenti che
risultassero completamente estranei all’ordine delle nostre
considerazioni, non volendo creare una frattura nell’esposizione della
dottrina della virtù, attinta da noi a quei fatti che ce ne offrono la
possibilità .
Questa precisazione era
necessaria per rispondere in anticipo a chi avesse da obiettare circa
le applicazioni che farò delle vicende di Aronne.
Qualcuno infatti potrebbe
fare osservare che, se il compito di aiutare chi combatte contro i
nemici, affidato all’Angelo, è in armonia con la sua natura spirituale e
intelligente (sotto questo aspetto la natura angelica è pari a quella
dell’anima umana, pur avendo però un’esistenza anteriore alla nostra),
non si può invece accettare di porre su un piano di identità l’Angelo e
Aronne.
Risponderemo a questa
obiezione partendo dal principio già esposto che l’incontro difatti
estranei al nostro intento non deve comportare uno sconvolgimento
nell’ordine della trattazione e costatando come i termini di angelo e
fratello siano in certo senso sinonimi e si possono ugualmente applicare
a due esseri tra loro in contrasto.
Anche nella Scrittura si
accenna a un Angelo di Dio e a un angelo di Satana (2 Cor 12,7). Anche
noi chiamiamo fratello tanto quello buono come quello cattivo. La
Scrittura si esprime in questo senso quando parla di fratelli buoni,
premurosi dei bisogni altrui (Pro 17,7) e di fratelli cattivi, che
prendono a calci i propri fratelli (Ger 9, 3).
Il compito di guida spirituale esige una preparazione
Ma proseguiamo
l’esposizione, rimandando a dopo l’esame particolareggiato di questi
punti ed esaminando ora i fatti che successivamente il racconto ci
propone.
Mosè, ricevuta la forza
necessaria nell’apparizione luminosa, assistito e protetto dal
fratello, può parlare con sicurezza al popolo della liberazione vicina,
ricordare a tutti la comune nobiltà di stirpe, indicare come sottrarsi
alle gravose imposizioni della raccolta di argilla e della
fabbricazione di mattoni.
Che cosa ci insegna qui la storia? Che non bisogna presumere di parlare al popolo senza un’opportuna preparazione.
Sebbene Mosè già al tempo
della sua giovinezza fosse avanzato nella virtù, come ben sai, tuttavia
quando volle intromettersi come paciere, tra due litiganti, non fu ben
accolto. Ora invece affronta una intera moltitudine, quasi in contrasto
con la riservatezza del suo carattere.
La storia sottolinea
questo particolare per dirci che è azzardato esporci al giudizio di
tanti ascoltatori, se non possediamo una preparazione adeguata.
LE PRIME TENTAZIONI
Mosè usa le parole più
adatte per proporre al popolo la prospettiva della liberazione,
riuscendo a suscitare in tutti una brama così ardente di libertà che i
loro oppressori reagiscono duramente, decidendo di aggravare le
sofferenze di quanti hanno ascoltato le parole di Mosè.
Questo si ripete
esattamente anche adesso. Molti, dopo aver dato ascolto a colui che ci
libera dalla tirannide spirituale, udendone da vicino la parola,
subiscono ancora da parte del nemico gli assalti delle tentazioni. Ora,
di fronte a tali assalti c’è chi diviene più buono e più forte nella
fede, perché sa premunirsi contro i colpi avversi, ma c’è chi, più
debole, cede alle difficoltà e alle accresciute fatiche.
Costoro allora affermano
che è cosa più vantaggiosa fare i sordi alle promesse di liberazione
che non intraprendere a lottare per ottenerla28.
Si verificò appunto questo
tra gli Israeliti i quali, diventati pusillanimi, si misero ad
accusare colui che aveva loro proposto la liberazione dalla schiavitù.
Non bisogna invece cessare di esortare e stimolare al bene chi, preso
dallo spavento per l’inesperienza della tentazione, è rimasto bambino e
imperfetto nell’anima. Il demonio fa di tutto per perderci, ottenendo
che gli uomini, una volta a lui sottomessi, non guardino più verso il
cielo, ma si pieghino sulla terra a fabbricare mattoni.
Insaziabilità delle passioni
In questo atteggiamento
sono simboleggiate le soddisfazioni materiali, formate di terra e di
acqua, come è dato vedere nei piaceri del ventre e della tavola e nelle
altre soddisfazioni procurate dalla ricchezza.
Terra e acqua mescolate
insieme formano il fango. In verità , tutti quelli che si abbandonano
alle soddisfazioni impure si riempiono di fango, senza mai riuscire a
saziarsi, perché non appena svuotano il materiale versato prima, subito
lo sostituiscono con dell’altro. Proprio così fa il costruttore di
mattoni, quando vera altro fango nella forma vuota.
Chi ha appagato un
desiderio, si sente sospinto verso un altro oggetto da una nuova brama
ancora insoddisfatta. Quando l’anima, ottenendo ciò che desiderava, ha
riempito questo suo vuoto, altri desideri sorgono in lei a. creare
altri vuoti. Il succedersi di desideri inappagati continuerà in noi fino
al termine della vita.
La tattica ingannatrice di Satana
La divina voce del Vangelo
e quella autorevole dell’Apostolo ci fanno osservare (Mt 3,12; 1Cor
3,12) che la canna e la paglia raccolta dagli Ebrei per ordini tirannici
e mescolate con il fango per farne mattoni, costituiscono materia del
fuoco.
La persona virtuosa che
intende liberare chi è vittima dell’errore e condurlo a una vita libera e
saggia, sa dal Vangelo (Mt 4,1 11) che il demonio usa ogni mezzo per
irretire con l’inganno le nostre anime, opponendo alla legge del Signore
i sofismi dell’errore.
Dico questo fissando
l’attenzione sui serpenti egiziani di cui ci parla il racconto e che
rappresentano le malvagie arti dell’inganno.
Ma i serpenti sono stati distrutti dalla verga di Mosè e su ciò abbiamo già fatto appropriate riflessioni.
Armato di questa
prodigiosa verga che, rimasta illesa, fu in grado di distruggere quelle
degli Egiziani, Mosè avanza sul cammino di una vita spirituale ricca di
eventi miracolosi.
Finalità del miracolo
Egli possiede il potere dei miracoli e ne usa non per suscitare l’ammirazione dei curiosi29, ma per l’utilità dei salvati.
La forza derivante dai miracoli abbatte gli avversari e contemporaneamente dà sostegno ai fedeli.
Se teniamo presente lo
scopo generale dei miracoli nella vita spirituale, saremo poi in grado
di cogliere le finalità particolari di ciascuno di essi.
Però la comprensione
dell’insegnamento della verità è in stretto rapporto con le disposizioni
d’animo di quelli che l’ascoltano. Il Verbo presenta a tutti
indistintamente il bene e il male, ma c’è chi, docile al suo
insegnamento, accoglie la luce nella sua mente e c’è chi non vuole
esporre la propria anima ai raggi della verità , per cui rimangono in lui
le tenebre dell’ignoranza30.
I contrasti di opinione in materia di fede
Se le riflessioni da noi
fatte su questi punti non sono false, neppure lo saranno le applicazioni
ai singoli fatti, perché lo studio dei particolari è già presente
nella visione dell’insieme.
Non c’è da meravigliarsi
che gli Ebrei restino immuni dalle disgrazie degli Egiziani, pur vivendo
in mezzo a costoro. Il fatto si ripete identico anche adesso. Nelle
grandi città dove la gente si trova in mezzo a opinioni contrastanti,
l’acqua della fede si offrirà limpida e buona a coloro che l’attingono
dall’insegnamento divino, ma si presenterà alterata in sangue a quelli
che, danneggiati da dottrine malvagie, imitano gli atteggiamenti degli
Egiziani.
L’orditore di inganni, con
le arti della corruzione e della falsità , si adopera per far apparire
sangue anche l’acqua degli Ebrei, tenta cioè di mostrare che la nostra
non è la vera dottrina.
Egli potrebbe certo
riuscire in questo tentativo di dare alle limpide acque della vera
dottrina il colore apparente del sangue, cioè mescolarvi l’errore, ma
non riuscirà mai a ottenere un’adulterazione completa. In realtà gli
Ebrei bevono acqua genuina, anche se i loro nemici hanno procurato
apparenze capaci di trarli in inganno.
L’impurità e i suoi segni
Quegli animali anfibi e
schifosi che sono le rane (esse passano la vita ora in acqua ora sulla
terra, saltano e strisciano, sono nauseanti d’aspetto e maleodoranti)
penetrano in massa nelle case, nei letti, nei ripostigli degli Egiziani,
ma lasciano immuni gli Ebrei.
L’uomo che conduce una
vita intemperante, affogata nel fango, se esternamente riesce a
conservare la sua natura di uomo, in realtà viene abbassato dalla
passione al livello di una bestia, trasformandosi così in un essere
anfibio e indefinibile31.
Egli è preso da una
malattia vera e propria, della quale scoprirai i segni non nel suo
letto soltanto, ma sulla sua tavola, nei suoi armadi, in tutta la sua
casa. Essi sono i contrassegni della dissolutezza.
Negli oggetti che uno
tiene in casa si rivela se egli conduce una vita viziosa o una vita
pura. Sulle pareti della casa del vizioso sono visibili le eccitazioni
al piacere sensuale, poiché l’artista vi ha raffigurato figure ignobili
che esprimono in certo modo la malattia di cui l’anima è affetta e la
cui vista costituisce un continuo eccitamento alla passione.
Nella casa della persona pura noti invece la vigile preoccupazione di sottrarre alla vista qualsiasi oggetto sensuale.
Lo stesso dicasi della
tavola. Mentre la persona virtuosa sa renderla pura, il vizioso che è
avvoltolato nel fango, la rende immonda e carnale.
Introduciti nei ripostigli
della casa dei dissoluti, cioè nelle pieghe nascoste e misteriose
della loro esistenza e lì troverai più che altrove un vero esercito di
rane.
PROVVIDENZA E LIBERTÀ
Non è Dio che causa l’indurimento del peccatore
Non ci si deve stupire
quando la storia riferisce che i mali degli Egiziani furono causati
dalla verga prodigiosa di Mosè e che Dio indurì il cuore del Faraone.
Ci domandiamo tuttavia come è possibile che il Faraone meriti una
condanna, se le cattive disposizioni del suo animo gli sono imposte da
una forza superiore. Pare che anche il divino Apostolo, riferendosi a
quanti commettono azioni vituperevoli, affermi la stessa cosa quando
dice: «Perché non vollero riconoscere Dio, egli li abbandonò in balia di
passioni ignominiose» (Rm 1,24).
Quando la Scrittura
afferma che Dio abbandona in preda a passioni vergognose l’uomo
sensuale, non vuole significare che l’indurimento del cuore del Faraone è
causato dal volere di Dio né che la vita impura trova nella virtù la
causa del suo consolidamento.
Se questi effetti
dipendessero dal volere divino, le decisioni della nostra volontÃ
sarebbero ridotte tutte conseguentemente allo stesso livello e verrebbe
così annullata ogni distinzione tra virtù e vizio32.
Predominio della libertÃ
Non tutti vivono allo stesso modo, ma c’è chi progredisce nella virtù e chi s’abbandona al vizio.
A ben considerare, non
possiamo attribuire questi modi diversi di vivere, a una imposizione
ineluttabile della divina volontà , ma al potere di libera decisione
posseduto da ogni uomo.
L’Apostolo ci fa sapere con chiarezza chi mai Dio abbandona in balia di passioni ignominiose.
Si tratta di chi non si è
degnato di conoscere Dio per cui, ignorato da Dio e privo della sua
protezione, viene a trovarsi alla mercé delle proprie passioni. La
vera causa che fa precipitare l’uomo nella sensualità più vergognosa è
il rifiuto di riconoscere Dio.
Sentendo che un tale è
caduto in un fosso perché non è riuscito a vederlo, noi non penseremo
mai che il sole abbia voluto castigare quell’uomo, facendolo cadere nel
fosso, perché non guardava a lui.
Le nostre precedenti
dichiarazioni vanno appunto intese nello stesso senso per cui cerchiamo
la causa della caduta nel fosso di quell’uomo disattento, nella sua
impossibilità a vedere.
Risulta perciò chiaro
anche il pensiero dell’Apostolo là dove afferma che i misconoscitori di
Dio vengono lasciati in preda a passioni vergognose.
Dio indurisce il cuore del
Faraone non nel senso che il suo intervento produca nell’anima un
atteggiamento di opposizione, ma nel senso che l’invito rivolto al buon
volere del Faraone perché deponesse l’ostilità contro gli Ebrei, non
ebbe accoglienza, perché egli era già propenso a malvagi propositi.
Così l’azione della verga
prodigiosa procura agli Ebrei la liberazione da una vita ignobile, ma
nello stesso tempo rivela che gli Egiziani sono affetti da simile
malattia.
Lo sguardo al Crocifisso
Mosè con il gesto delle
mani distese, fece scomparire le rane anche dalle case degli Egiziani.
Ci è possibile osservare anche oggigiorno questo fatto. Colui che vede
il Legislatore stendere le mani (questo gesto, come ben capisci, è in
misteriosa relazione con quello del vero Legislatore che distese le
mani sulla croce) e tiene fissi gli occhi sopra di lui, viene liberato
dall’odiosa compagnia di pensieri luridi e impuri, così che la passione
finisce per morire e imputridire. Il ricordo del passato causa un
disgusto insopportabile in quelli che, con la mortificazione dei moti
disordinati dell’anima, si sono liberati dal male.
L’Apostolo, quando accenna
a coloro che hanno abbandonato le vie del male per seguire la strada
della virtù, dice appunto che essi sentono vergogna del loro passato:
«Quale frutto avevate allora nelle cose di cui ora vi vergognate?» (Rm
6, 21).
Tu devi interpretare alla
luce di queste considerazioni anche il fatto che, per effetto della
verga di Mosè, l’aria si ottenebrò sotto gli occhi stessi degli
Egiziani.
Predominio della volontÃ
Esaminando questo fatto,
vedrai confermata la tesi da noi esposta, che non si deve attribuire a
una forza superiore ineluttabile il trovarsi nelle tenebre del male o
nella luce del bene. Gli uomini hanno dentro di sé, nella direzione
delle loro libere scelte, la vera causa delle tenebre o della luce in
cui vivono.
Essi diventano tali quali
vogliono essere. La storia non ci dice che gli occhi degli Egiziani
erano impossibilitati a vedere perché avevano davanti qualche muro o
qualche montagna che intercettasse i raggi del sole o protendesse su di
loro la sua ombra.
In realtà il sole spandeva
ovunque i suoi raggi, ma solo gli Ebrei ne godevano i benefici, mentre
gli Egiziani neppure potevano accorgersi della loro presenza.
A tutti è data la
possibilità di una vita piena di luce, ma alcuni per la loro cattiva
condotta vanno avanti fra le tenebre sempre più intense del male, altri
invece vivono nella splendida luce della virtù.
Salvezza universale?
Basandosi sul fatto che
dopo tre giorni di oscurità gli Egiziani ritornano a godere la luce,
qualcuno potrebbe sentirsi autorizzato a interpretare questo fatto
come restaurazione finale (apocatastasis) nel regno dei Cieli dei dannati all’inferno33.
Effettivamente le
espressioni «tenebre profonde» venute sopra l’Egitto e «tenebre
esteriori», presentano affinità di termini e di concetto. Ma abbiamo
visto che le tenebre vengono dissipate per effetto delle mani, stese da
Mosè sopra gli Egiziani, che ne erano stati colpiti.
Se guardiamo al
significato del termine fornace presente in quella «cenere di fornace»
che causò tante dolorose pustole alla pelle degli Egiziani, esso
potrebbe indicare il castigo del fuoco della geenna minacciato a coloro
che imitano gli Egiziani nel loro modo di vivere.
Il vero Israelita, figlio
ed imitatore di Abramo, associato alla famiglia degli eletti per merito
delle sue libere decisioni, resta immune dalle pene della fornace. Ma
anche gli Egiziani e i loro imitatori potrebbero essere guariti dai
mali che li affliggono e ottenere la liberazione dal castigo, se Mosè
ripetesse su di loro il gesto di stendere la mano, di cui già ho
spiegato il recondito significato.
Ciascuno è causa dei propri mali
Tutti gli altri castighi
che ho ricordato nella parte narrativa: i piccolissimi insetti dalle
dolorose morsicature, gli scarabei pari ai primi nel recar danno, le
cavallette che distrussero i raccolti della campagna, i fulmini scesi
insieme alla grandine, tutti questi castighi hanno un particolare
simbolismo, non difficile da trovare con il metodo di interpretazione
usato fin qui.
Già abbiamo avuto modo di
costatare che questi castighi sono una conseguenza degli atti liberi
degli Egiziani. Questi atti hanno provocato l’intervento
dell’incorruttibile giustizia di Dio, perché moralmente cattivi.
Bisogna dunque ritenere
che, secondo il senso letterale dei fatti narrati, certe sofferenze da
noi patite, sono meritate da noi e non causate da Dio.
Ciascuno con le decisioni
della propria volontà è causa dei propri mali, proprio come afferma
l’Apostolo quando si rivolge a coloro che si trovano in questa
situazione: «Per la tua durezza e il tuo cuore impenitente accumuli per
te ira nel giorno dell’ira, della rivelazione e del giusto giudizio di
Dio, il quale darà a ciascuno secondo le sue opere» (Rm 2,5 6).
Il medico che con i mezzi
dell’arte provoca il vomito al paziente per estrargli dalle viscere
intossicate le sostanze dannose, frutto di una vita sregolata, non può
certo essere accusato di aver prodotto quelle sostanze nocive, causa di
malattie. Si dovrà piuttosto accusare l’uso smoderato del cibo, mentre
l’opera del medico si è limitata a espellerle.
Parimenti noi non possiamo
affermare che il castigo per un atto libero della nostra volontà si
deve attribuire a Dio, ma dobbiamo convincerci che la sua origine e
causa è in noi. Le tenebre, i vermi, la geenna e tutti gli altri
spaventosi castighi non colpiscono chi è vissuto senza peccato, proprio
come gli Ebrei non subirono le piaghe abbattutesi sull’Egitto.
Il fatto che l’Egiziano è
sottoposto al castigo e l’Ebreo no, dimostra che diversi furono gli
atteggiamenti della loro volontà e che nessun male può colpirci senza
che sia in rapporto con le deliberazioni da noi prese.
LA MORTE DEI PRIMOGENITI
Eliminare il male dagli inizi
Applichiamo la nostra riflessione alle vicende successive per ricavarne un ammaestramento.
Mosè e chiunque voglia
imitarlo nell’ascesa verso la virtù, dopo aver ricevuto forza
nell’esercizio di una vita austera e dall’illuminazione soprannaturale
scesa su lui dal cielo, si ritiene in dovere di mettersi a capo del
popolo per guidano verso la libertà . Si presenta a loro ad avvertirli
che i mali di cui sono vittime potrebbero aggravarsi, sapendo così
destare in tutti un acceso desiderio di liberazione. Per ottenerla, fa
in modo che la morte colpisca ogni primogenito tra gli Egiziani. Così
agendo egli ci ammonisce che il male va sradicato fin dal suo primo
apparire.
Mi pare opportuno
approfondire questa considerazione perché, tenendo conto soltanto dei
fatti puri e semplici, si verrebbe a sopprimere ogni conveniente
interpretazione del loro significato. Mentre i colpevoli sono gli
Egiziani adulti, il castigo si abbatte sui loro figli appena nati,
privi ancora della capacità di discernere il bene. Nella vita di un
infante non hanno posto le passioni cattive. Egli non sa neppure
distinguere la sinistra dalla destra e l’unica cosa di cui s’accorge
sono le poppe della madre. Per farsi capire quando sta male, non ha
altro mezzo che le lacrime e per esprimere la contentezza, quando ha
ottenuto ciò di cui sentiva istintivo bisogno, non ha che il riso. Ma
se il figlio subisce il castigo per la colpa del padre, dov’è la
giustizia, la religione, la santità ? Perché Ezechiele va gridando:
«L’anima che ha peccato subirà la morte» e ancora: «Non erediterà il
peccato del padre il figlio nato da lui»? (Ez 18,20).
È ovvio allora che nei
fatti presentati dalla Scrittura dobbiamo vedere un significato
spirituale e ritenere che il divino Legislatore abbia voluto
presentarci in quei fatti un insegnamento nascosto.
Qui ci insegna dunque che
bisogna eliminare il male ai suoi inizi quando noi, incamminati sulla
strada della virtù, ci troviamo impegnati a debellare qualche nostra
cattiva tendenza.
Se eliminiamo il male non appena si manifesta, viene automaticamente eliminata ogni sua conseguenza.
Ce lo insegna il Signore
nel Vangelo, quasi ad’ ammonirci di tagliare alla radice il mal degli
Egiziani, là dove ci comanda di sopprimere i. moti convulsi della
passione, affinché non abbiamo più a temere né l’ira, né l’adulterio,
né l’omicidio (Mt 5,22).
Se l’ira conduce al
delitto e la passione impura all’adulterio, ciò significa che sono i
moti delle passioni la causa di quelle colpe.
Prima della generazione di
un figlio adulterino, c’è stata la generazione del desiderio che
porterà all’adulterio e similmente prima dell’omicidio, è avvenuta
un’esplosione di ira nell’animo di chi l’ha commesso.
Se elimini sul nascere un
desiderio cattivo, già hai eliminato tutto ciò che da quel desiderio può
derivare e fai allora come colui che, schiacciando il capo del
serpente, causa la morte di tutto il lungo corpo che esso si trascina
dietro.
Il sangue dell’agnello, garanzia di salvezza
Ma non si arriva a questo
risultato, se l’uscio delle nostre case non è stato contrassegnato con
il sangue che tiene lontano l’Angelo sterminatore.
Sia l’uccisione dei
primogeniti come l’immunità per le porte segnate con il sangue, sono due
fatti che conducono alle medesime considerazioni da noi espresse,
chiunque voglia comprendere con maggior precisione le interpretazioni
che abbiamo dato fin qui.
Nell’uccisione dei
primogeniti costatiamo come il male sia distrutto subito agli inizi,
mentre nell’immunità delle porte troviamo che gli viene proibito
l’accesso dentro di noi in virtù del sangue del vero Agnello. Infatti
noi non ci accingiamo a scacciare colui che vuole il nostro sterminio,
quando ci accorgiamo che ormai è entrato in noi ma, sorretti dalla
legge, vigiliamo perché non vi si introduca fin dagli inizi. Gli Ebrei
infatti, contrassegnando gli stipiti e i battenti delle loro case con il
sangue dell’agnello, ebbero una sicura garanzia di salvezza.
L’anima e le sue parti
Questo fatto della
Scrittura contiene significative allusioni circa la dottrina
dell’anima. Di questo argomento si è interessata anche la filosofia
pagana, distinguendo l’anima in tre parti: la razionale, l’irascibile e
la concupiscibile. Da queste due ultime parti provengono, secondo i
filosofi, i moti dell’ira e i desideri. Tuttavia né la parte
concupiscibile né l’irascibile restano prive della presenza
dell’attività dell’anima razionale. Quei filosofi precisano infatti che
la parte razionale giunge a vivificare la parte irascibile e
concupiscibile. Le tiene legate a sé ed è a sua volta come sostenuta da
esse34.
La razionale si determina e
si muove sotto la spinta dell’appetito irascibile e raggiunge il
possesso di un bene sotto la spinta dell’appetito concupiscibile.
Finché l’anima rimane salda in questa struttura, saldi rimangono anche i
suoi intenti virtuosi, quasi fossero tenuti fermi da chiodi, così che
in tutte le sue parti si attua una reciproca spinta verso il bene: la
parte razionale per sua natura è portata a tener salde le parti
inferiori e tuttavia riceve da queste un aiuto non indifferente.
Ma quando questa struttura
venisse sconvolta e la parte che deve stare in alto è portata in basso,
quando cioè si riduce la parte razionale dal suo ruolo direttivo a
quello proprio dell’appetito irascibile o concupiscibile, allora il suo
nemico mortale riesce a invaderla. Non c’è più il segno del sangue che
gli proibisce l’ingresso, cioè manca a essa, ridotta in quello stato, il
soccorso della fede in Cristo.
Chi riceve il comando di
segnare con il sangue lo stipite e i due battenti, come potrebbe
contrassegnare la parte alta, cioè l’anima razionale, se essa non si
trova più al suo posto?
Ancora sulla necessità di estirpare il male fin dall’inizio
Anche se i due fatti
considerati, ossia lo sterminio dei primogeniti e l’aspersione del
sangue sulle porte, non sono avvenuti simultaneamente tra gli Israeliti,
tu non devi trarne una difficoltà per rigettare la dottrina esposta
circa l’eliminazione del male, come se fosse il risultato di false
deduzioni.
Nei nomi di ebreo e di
egiziano abbiamo visto indicata la distinzione tra virtù e vizio. Poiché
dunque la riflessione ci suggerisce di riconoscere in Israele il
simbolo della virtù, nessuno di noi, se è sano di mente, si metterebbe a
eliminare le primizie dei frutti della virtù, simboleggiati nei figli
degli Israeliti. Bisognerà invece preoccuparci di far scomparire quei
frutti dalla cui conservazione potrà derivare un danno. Per questo
abbiamo appreso dal Signore a togliere perfino la possibilità che
nascano ancora dei figli agli Egiziani.
In altre parole, il male
deve essere distrutto appena accenna a comparire. Conclusione questa
che si accorda perfettamente con gli avvenimenti da cui è ricavata. I
figli d’Israele, con l’aspersione del sangue, ottengono di essere
difesi, affinché il bene possa svilupparsi fino alla sua perfezione. Ma
i primogeniti che un giorno, fatti adulti, potrebbero portare
vantaggio al popolo egiziano, sono eliminati prima che raggiungano la
piena capacità di operare il male.
USCITA DALL’EGITTO
Difesa dell’interpretazione spirituale della Scrittura
Le riflessioni che facciamo ora seguire, rafforzeranno l’interpretazione spirituale (anagogica) seguita fin qui.
La Scrittura ordina agli
Ebrei di cibarsi delle carni da cui sgorgò il sangue che essi misero
sulle porte, per tener lontano l’uccisore dei primogeniti egiziani. Essa
impone a chi prende quel cibo un modo di vestire che è diverso da
quello in uso nei banchetti della gente spensierata. Costoro a
banchetto ci stanno con le mani libere, le vesti discinte, i piedi
nudi. Al contrario gli Ebrei devono portare i calzari, avere attorno ai
fianchi una fascia che stringa forte le pieghe superflue della veste,
tenere in mano un bastone per difendersi dai cani.
Vestiti in questo modo, essi preparano il cibo, cucinandolo in fretta, senza condimenti, su un fuoco improvvisato.
Esso è rappresentato dalle
carni dell’agnello, che devono consumare totalmente, lasciando intatto
soltanto il midollo delle ossa. Neppure le ossa dovevano essere
spezzate e se ci fossero stati degli avanzi, dovevano essere distrutti
nel fuoco.
Tutti questi particolari
ci fanno chiaramente capire che la lettera della Scrittura mira a un
insegnamento spirituale. Non possiamo pensare che la legge voglia
insegnarci il modo di cucinare i cibi (a questo basta la natura che ha
messo in noi il desiderio del cibo), ma dobbiamo ritenere che essa, con
tutti questi precetti, ha valore semantico.
La vita è un viaggio che richiede un equipaggiamento adatto
Ci domandiamo quale
importanza possa avere rispetto al vizio o alla virtù il fatto di
prendere il cibo in un modo piuttosto che in un altro, con o senza una
fascia ai fianchi, a piedi nudi o calzati, a mani libere o fornite di
un bastone.
Nel tenersi pronti alla
partenza in tenuta da viaggio c’è un significato simbolico abbastanza
chiaro, che ci fa capire come la vita terrena sia un viaggio. Fin dalla
nascita esso procede sotto la spinta di una forza ineluttabile verso
quel termine che segna la fine delle nostre attività presenti. A rendere
più sicuro il viaggio, occorre provvedere l’equipaggiamento
necessario alle mani e ai piedi. Bisogna coprirci i piedi, perché le
spine di questa vita che sono i peccati non ci danneggino. Ci occorrono
perciò calzature robuste che, fuor di metafora, sono le austerità e le
mortificazioni, capaci di spezzare la punta delle spine35,
di impedire cioè che il peccato penetri nell’anima fin dagli inizi,
quando si presenta in forma attraente ed entra in noi furtivamente.
Una tunica lunga fino ai piedi e chiusa tutt’intorno non pare molto adatta per un viaggio, che Dio vuole condotto speditamente.
Essa dovrebbe essere
interpretata come il simbolo delle piacevoli comodità della vita che la
retta ragione, al pari di una fascia attorno ai fianchi, deve cercare
di ridurre al minimo indispensabile.
Questa fascia è la
saggezza, come risulta chiaro dal posto in cui viene applicata. Il
bastone, destinato a tener distanti i cani, rappresenta invece le
parole della speranza cui ci appoggiamo nelle stanchezze dell’anima e
con le quali ci difendiamo dai rabbiosi assalti dei nemici36.
Il cibo cotto al fuoco sarebbe simbolo, a mio parere, della fede che,
senza nostro merito, abbiamo ricevuto come fiamma già accesa. Il cibo
già pronto della fede si prende con semplicità e facilità secondo le
nostre capacità e lo si mette al fuoco, lasciando da parte certi
complicati e difficili ragionamenti della ragione.
Accontentarci delle interpretazioni facili
Dio dunque, come vediamo,
si serve di simboli per istruirci ma per il fatto che essi sono di
facile e spontanea interpretazione, né la pigrizia né la fretta devono
indurci a tenerli in poco conto. Sono anch’essi un cibo offertoci
perché, poveri e bisognosi quali siamo, ce ne nutriamo e riusciamo così
ad avere un viaggio felice.
Esistono invece problemi
ai quali non riusciamo a dare una soluzione soddisfacente. Ci chiediamo a
volte che cosa è l’essenza divina, che cosa esisteva prima della
creazione, che cosa c’è al di là delle realtà visibili e se gli
avvenimenti siano determinati da una forza ineluttabile.
Solo lo Spirito Santo
possiede la piena risposta a questi e altri problemi che agitano gli
spiriti più curiosi. Egli, come dice l’Apostolo, scruta le profonditÃ
di Dio (1 Cor 2,10). Chi conosce bene le Scritture non può ignorare che
in diversi punti lo Spirito Santo vi è menzionato sotto il nome di
fuoco. Anche il libro della Sapienza ci spinge a riflessioni non
dissimili da quelle qui espresse, quando dice: «Non occuparti di cose
più grandi di te, non voler sviscerare le ragioni nascoste, perché ciò
che ti viene nascosto non è necessario» (Eccl 3,22 23).
RICCHEZZE D’EGITTO
Critica a un ordine di Mosè
Mosè fu dunque il
promotore dell’uscita del popolo d’Israele dall’Egitto. Anche tutti
coloro che hanno il compito di fare da guida agli altri, se si
metteranno dietro le orme di Mosè, riusciranno a liberare dalla
schiavitù d’Egitto le anime loro affidate.
Queste anime, venendo
dietro chi le guida sulla strada della virtù, dovranno portare con sé le
ricchezze e i tesori degli Egiziani, cioè di una popolazione
straniera. Mosè ordina infatti alla sua gente di usare in proprio favore
i beni sottratti ai nemici. Quest’ordine a prima vista appare
incomprensibile in quanto spinge a rubare i beni dei ricchi ed è quindi
incentivo di ingiustizia.
Ma per capire che non si
tratta di un ordine dettato da intenzioni contrarie al giusto, basta
dare uno sguardo alle leggi che Mosè emanerà in seguito: esse dalla
prima all’ultima non hanno altro scopo che colpire con rigore ogni
ingiustizia.
Alcuni approvano che gli Israeliti per farsi pagare il debito dei lavori eseguiti in favore degli Egiziani37 abbiano trovato questo espediente. Ma esso può certamente essere oggetto di biasimo perché contiene una menzogna e un inganno.
È indubbiamente un
truffatore, colpevole di furto, chi prende a prestito e non
restituisce, ma tale si deve considerare anche chi, volendo rientrare in
possesso delle proprie cose, le chiede in prestito con l’assicurazione
che verranno restituite.
Le discipline profane messe al servizio della Chiesa
Ma consideriamo il
significato più profondo e spirituale di questo comando. Esso spinge i
cultori della virtù a far proprie con tutta libertà le ricchezze della
cultura profana, di cui si vantano le persone estranee alla fede.
L’ordine dato da colui che fa da guida sul cammino della virtù è di
prendere come in prestito le ricchezze possedute dagli Egiziani.
Orbene, la filosofia morale e la scienza fisica, la geometria,
l’astronomia, la logica e tutte le altre discipline coltivate da chi è
fuori della Chiesa, sono beni assai utili ed è buona cosa che le
ricchezze dell’intelligenza vengano usate per decorare il tempio dei
misteri della fede38.
I tesori presi agli
Egiziani, furono poi portati a Mosè per contribuire, con offerte
personali, all’allestimento del tabernacolo in corso di attuazione.
La cosa si verifica anche
ai nostri giorni. Molti e tra questi il grande Basilio, portano in dono
alla Chiesa di Dio la loro cultura profana. Egli offrì a Dio le
ricchezze d’Egitto che si era procacciato al tempo della sua giovinezza e
con esse decorò il vero tabernacolo che è la Chiesa.
LA COLONNA DI NUBE
Ma dobbiamo ritornare al
punto del testo dove ci siamo fermati. Chi è uscito dal territorio della
dominazione egiziana e si è messo in viaggio verso la meta della virtù,
non potrà evitare né assalti, né tentazioni, né prove d’ogni genere:
angustie, paure, pericoli mortali. Egli si sentirà tanto scosso nelle
convinzioni della fede da poco entrate nella sua anima, che cadrà nella
sfiducia più completa di poter raggiungere i beni cercati39.
Mosè e gli altri capi
sanno con il loro consiglio mettere un freno alla paura, dar coraggio
alle anime troppo impressionabili, suscitare la speranza dell’aiuto
divino.
Sovente le persone poste a
governare gli altri si preoccupano soltanto che tutto proceda bene
nelle cose esteriori e non danno alcuna importanza alle interne
disposizioni, invisibili agli altri, ma note a Dio. Non così si comportò
Mosè. Invitato a infondere coraggio al popolo, pregò il Signore di
venire in aiuto ma senza far uscire suoni dalla sua bocca. Tuttavia ci
viene assicurato che egli levava grida verso il Signore. Che cosa ci
vuole insegnare qui la Scrittura se non questo: che alle orecchie di
Dio sale gradita non la voce più rumorosa ma quella che esprime la
supplica di una coscienza pura40.
L’aiuto dello Spirito Santo
Quando Mosè si trovò a
dover affrontare più dure battaglie, il «fratello» mandatogli incontro
al suo rientro in Egitto e nel quale abbiamo visto il simbolo
dell’Angelo, non gli poté offrire che un aiuto molto limitato.
Fu allora che, in forme
adeguate alle sue capacità conoscitive, gli si manifestò l’Essere
trascendente. Se riflettiamo su questi avvenimenti, abbiamo la
possibilità di conoscere la loro applicazione alla nostra vita
spirituale.
L’anima che ha abbandonato
la terra d’Egitto e si trova esposta all’assalto delle tentazioni, può
trovarsi piena di paura. Ma chi la guida sa mostrarle la salvezza che
scende dall’alto, e costringere il mare a farsi come una strada
asciutta su cui passare a piedi, nel momento in cui il nemico incalza
l’anima e la stringe da ogni parte.
Allora apparirà anche la
nube a precederla sul cammino. Giustamente i nostri padri hanno
cambiato nome a questa nube, identificandola con la grazia dello
Spirito Santo da cui proviene ai santi la guida verso il bene.
Chi le sta dietro, passa attraverso le acque del mare dove gli è stata aperta una strada.
Lo Spirito Santo rende
sicura la libertà che abbiamo acquistato, facendo in modo che gli
inseguitori decisi a catturarci, vengano affogati nelle acque.
LA TRAVERSATA DEL MAR ROSSO
L’esercito delle passioni
Nessuno che senta il
racconto di questi fatti potrebbe ignorare il loro riferimento a un
mistero. C’è ancora chi passa attraverso le acque ed è inseguito da un
esercito nemico. Ancora le acque sommergono l’esercito inseguitore ed
egli è il solo che ne esce salvo41.
L’esercito egiziano con tutti quei cavalieri, carri, cavalli, lancieri,
frombolieri e combattenti schierati a battaglia, rappresenta le
molteplici passioni che tiranneggiano l’uomo42.
Troviamo perfetta identitÃ
tra l’esercito egiziano e quei sentimenti d’ira, quelle inclinazioni al
piacere, alla tristezza, alla superbia che si trovano nella nostra
anima.
L’insulto contro il
prossimo è ben paragonabile a un sasso lanciato sulla fronte con una
fionda e lo scatto dell’ira è veramente come la punta vibrante di una
lancia.
Quanto ai cavalli che irresistibilmente trascinano il carro di guerra vi vedo simboleggiati i piaceri sensuali.
Ancora sulle tre parti dell’anima
Sappiamo dalla storia che
sul carro di guerra salivano tre uomini chiamati “primi dignitari”. GiÃ
nel simbolismo dello stipite e dei due battenti abbiamo scorto le tre
dimensioni dell’anima. Se ora fissiamo la nostra attenzione sui tre
combattenti che il carro porta con sé in una corsa impetuosa, non avremo
difficoltà a vedervi un richiamo alle tre parti dell’anima: la
razionale, l’irascibile, la concupiscibile.
Quei tre precipitano nelle acque insieme ai loro compagni, mentre inseguono Israele a tutta forza.
Efficacia salvifica del battesimo
Coloro che si erano
affidati alla virtù della verga ed erano rischiarati dalla nube, scesero
in quella stessa acqua e vi trovarono la salvezza, mentre i loro
inseguitori vi affogarono43.
Da questi fatti ci viene
un ulteriore insegnamento. Nessuno, una volta passato attraverso
l’acqua, deve più trascinarsi dietro i resti dell’esercito nemico.
Se permettiamo che il
nostro nemico riemerga dall’acqua insieme con noi, dopo l’immersione,
questo significa che rimaniamo nello stato di schiavitù, perché ci
ritroviamo vivo e vicino il tiranno, non essendo riusciti ad affogarlo.
Per rendere evidente il
significato nascosto di questi fatti, è necessario che ci esprimiamo in
termini più chiari. Questi fatti interessano tutti coloro che passano
attraverso le mistiche acque del battesimo.
In esse devono annegare le
cattive tendenze dell’anima e le opere che ne derivano, cioè tutto
l’esercito del male: avarizia, desideri impuri, furto, vanità ,
superbia, violenza, ira, rancore, invidia, gelosia e tante altre
passioni che la natura porta con sé dalla nascita44.
Impegni del battesimo
Quando la legge parla del
mistero della Pasqua cioè della festa destinata a ricordare la
preservazione dalla morte, ottenuta per mezzo del sangue, ordina di
mangiare pane azzimo, privo del vecchio fermento.
Ci fa capire in tal modo
che il convertito non deve continuare sulla strada del male, ma
ricominciare da capo la sua vita senza più l’antico fermento del male45.
Essa vuole anche qui che
facciamo affogare nelle acque del battesimo, come negli abissi di un
mare, ogni egiziano cioè ogni abitudine di peccato. Vuole essa che da
queste acque riemergiamo soli, non più permettendo che elementi
estranei si trovino nella nostra vita.
È questo appunto
l’insegnamento della Scrittura quando ci mostra le medesime acque dar
rovina e morte ai nemici, vita e salvezza agli amici.
Purtroppo molti
battezzati, ignorando gli ordini della legge, introducono nella loro
vita dopo il battesimo il vecchio lievito del male e trascinano ancora
dietro di sé nei loro atti, dopo il passaggio attraverso l’acqua
l’esercito egiziano in piena efficienza.
Chi, prima del battesimo,
si è arricchito con rapine e ingiustizie, chi è venuto in possesso di
un terreno attraverso falsi giuramenti, chi conviveva in adulterio con
una donna o aveva commesso altre violazioni della legge, se continua a
tenere ciò che ha preso ingiustamente, si illude di essersi liberato con
il battesimo dalla schiavitù dei suoi peccati e non s’accorge che in
realtà è rimasto sottoposto a padroni tirannici.
Una passione sfrenata
domina senza pietà l’anima razionale, flagellandola con i piaceri come
fossero delle verghe. Anche l’ingordigia è un padrone dispotico, che
nega ogni riposo a chi lo serve; aggiunga pure costui lavoro a lavoro
per procacciare al suo padrone i beni che esige; sempre verrà incalzato
a fare ancora di più.
Davvero ogni atto cattivo
che compiamo è un debito pagato a padroni dispotici. Chi li serve dopo
aver attraversato il mare è come se non fosse stato neppure sfiorato
dalla mistica acqua che abbiamo ricordato e alla quale si deve
l’eliminazione di tiranni così crudeli.
LE SOSTE NEL DESERTO
L’obbedienza
Ma proseguiamo la nostra
esposizione. Il popolo che ha percorso la strada in fondo al mare e ha
visto morire gli Egiziani nel modo descritto, costata che Mosè ha
sempre in mano la verga prodigiosa e che soprattutto confida in Dio.
È per questo che la
Scrittura ci informa come il popolo obbediva a Mosè, servo di Dio. È ciò
che costatiamo anche ora. Le persone passate per le acque del
battesimo e consacrate a Dio, si sottomettono e obbediscono a coloro
che, secondo la parola dell’Apostolo, hanno ricevuto con l’ordinazione
sacerdotale la cura delle cose divine (Eb 13,17).
Forza consolatrice della risurrezione di Cristo
Gli Ebrei, dopo aver
attraversato il mare, camminano per tre giorni fin quando si accampano
dove trovano acqua, che tuttavia si rivela terribilmente amara.
Ma gli assetati ebbero per
loro fortuna acqua dolce, quando fu gettato il legno. Il miracolo
attestato dal racconto si ripete esattamente anche adesso.
In principio risulta dura e
disgustosa la vita di chi ha abbandonato i piaceri d’Egitto, di cui era
schiavo prima di attraversare il mare. Ma se egli getta il legno nelle
acque amare, se cioè si dà a considerare il mistero della Risurrezione
che prende inizio dal legno (mi riferisco evidentemente al legno della
croce), allora la vita virtuosa gli diventa più dolce e più saporosa di
qualsiasi dolcezza grata al gusto, poiché essa si fonda sulla speranza
dei beni futuri46.
Gli araldi del Vangelo
Nella, successiva tappa,
gli Ebrei poterono finalmente, dopo lungo cammino, riposarsi presso un
luogo allietato da palme e da sorgenti. Si trattava di dodici fonti
d’acqua pura e dolcissima e di settanta palme molto alte.
Che cosa trovare in tutti
questi particolari? Direi questo: che il mistero del legno dà agli
assetati di poter bere l’acqua della virtù e poi li conduce alle dodici
sorgenti e alle settanta palme, cioè agli insegnamenti del Vangelo.
Le dodici sorgenti
indicano gli Apostoli che Cristo scelse perché vi attingessimo la
parola della verità , conforme all’annuncio del Profeta, quando
predisse che dagli Apostoli sarebbe zampillata come da una sorgente
un’acqua abbondante. Ecco le sue parole: «Nelle vostre riunioni lodate
il Signore Iddio dalle fonti di Israele» (Sal 67,27).
Le settanta palme
rappresentano gli Apostoli mandati in tutto il mondo, in numero appunto
di settanta, se escludiamo i dodici Discepoli47.
Pronti ad accogliere Cristo
Credo opportuno accelerare
l’esposizione iniziata, onde rendere facile, attraverso brevi
commenti, la comprensione del significato spirituale delle altre tappe.
Sono in esse simboleggiate le virtù, che rappresentano come una sosta
un riposo per chi, seguendo la colonna di nube, s’affatica nel continuo
camminare.
Trascurando i fatti
avvenuti nelle altre tappe, mi limiterò a ricordare il miracolo della
roccia, per mezzo del quale la materia dura e resistente della rupe si
trasformò in dolce acqua corrente, a soddisfare il bisogno degli
assetati.
Non abbiamo particolare
difficoltà a collocare questi fatti; al pari dei precedenti, nel quadro
di una interpretazione spirituale uniforme.
Colui che ha lasciato alle
sue spalle gli Egiziani morti e ha provato le acque addolcite dal
legno, chi ha avuto la grazia di attingere alle fonti degli Apostoli e
s’è disteso a riposare all’ombra delle palme, è ormai in grado di
accogliere Dio.
Osserviamo che i Dodici
sono chiamati qui con il nome di Discepoli e i settanta con il nome di
Apostoli. Dice infatti l’Apostolo: Cristo è la roccia (1Cor 10, 4):
pietra dura e resistente per gli increduli, ma che diviene acqua buona
per l’assetato che le si avvicini con la verga della fede.
Cristo penetra nell’intimo
di chi lo accoglie, poiché è lui stesso che afferma: «Io e il Padre
verremo e faremo dimora in lui» (Gv 14, 23).
LA MANNA
Il Verbo fatto carne per essere nostro cibo
Dopo che abbiamo
considerato il passaggio del mare, la conversione dell’acqua amara in
acqua buona per soddisfare la sete dei viandanti della virtù, la sosta
confortevole presso le sorgenti all’ombra delle palme e l’assaggio
dell’acqua scaturita dalla pietra, non dobbiamo lasciare inosservato il
fatto che i cibi portati dall’Egitto vengono a finire. Ma fu appunto in
seguito alla totale scomparsa delle vettovaglie prese da una terra
straniera quale l’Egitto, che discese dal cielo un cibo vario e
uniforme a un tempo.
Uniforme all’aspetto, esso
variava nel gusto che era adattato alla voglia di ciascuno. Da questo
fatto dobbiamo apprendere a liberare la nostra vita da abitudini
profane, svuotando il sacco dell’anima da ogni cibo corrompitore con cui
si sostenevano gli Egiziani, per accogliere in un’anima pura il cibo
che scende dall’alto. Esso non è frutto di un seme giunto a maturazione
per il lavoro dell’agricoltore, ma è pane già pronto, che non ha avuto
bisogno né di aratura né di semina e, disceso dal cielo, è apparso sul
terreno.
In questo pane devi vedere simboleggiato il vero cibo, quel pane celeste che è disceso tra noi in una sostanza corporale.
In realtà come potrebbe
diventare nostro cibo una sostanza mancante di corpo? Ciò che non è
senza corpo, evidentemente è un corpo. Ma né aratura né seminagione
hanno prodotto la materia di questo pane, eppure ne vediamo ripieno il
terreno, senza che sia stato per nulla smosso, per nutrire chi ha fame
di cibo divino. Con il miracolo della manna gli Ebrei appresero
anzitempo il mistero della nascita verginale.
Il Verbo si offre alle anime in misura diversa
Questo pane non derivato dal lavoro agricolo, è il Verbo la cui forza nutritiva dipende dalle capacità di chi se ne ciba.
Il Verbo infatti non
sempre si presenta come pane ma anche in forma di latte e carni e
legumi o altro che possa convenire e piacere a chi lo accoglie48.
Proprio in questo senso il divino Apostolo Paolo, fornendoci una tavola
copiosissima, offre ai più perfetti un insegnamento in forma di cibo
sostanzioso quale la carne, mentre dà ai più deboli un insegnamento
paragonabile ai legumi e dà ai fanciulli un insegnamento paragonabile
al latte (Eb 5, 12; Rm 14, 2).
La temperanza
Anche gli altri fatti
miracolosi che la Scrittura riferisce intorno a quel cibo, contengono un
insegnamento relativo alla vita virtuosa.
La Scrittura infatti ci
informa che tutti avevano un’identica porzione di cibo, non superiore né
inferiore al necessario, indipendentemente dalla maggiore o minore
robustezza fisica di chi lo raccoglieva. A me pare di poter scorgere
qui un consiglio utile a tutti. I mezzi di sussistenza fornitici dalla
natura non devono superare il limite del bisogno. Dobbiamo anche tener
presente che l’unica misura data dalla natura circa l’uso del cibo è la
quantità necessaria al sostentamento di un giorno.
Se fossero preparati e
messi in tavola cibi in quantità superiore al bisogno, il ventre non
avrebbe la capacità di allargarsi e allungarsi oltre le proprie misure.
Anche quelli che vollero
raccogliere la manna in quantità superiore, s’accorsero di non averne a
disposizione più degli altri (mancava del resto il posto dove
conservarla) e coloro che ne presero poca, non si sentirono menomati,
perché la quantità da essi raccolta corrispondeva pienamente ai loro
bisogni, che erano inferiori a quelli degli altri.
Avvertimenti agli avari
Quel superfluo, accumulato
da alcuni per ingordigia e trasformatosi in un semenzaio di vermi,
dice ad alta voce agli avari che i loro averi superflui, frutto di
avarizia, si trasformeranno in vermi nella vita futura, a dispetto della
loro brama di accumulare.
Quanto a noi invece, la
vita futura è oggetto di speranza. Il lettore saprà scorgere nei vermi
ricordati dal racconto il verme sempre operante dell’avarizia.
Seminare per la vita futura
Si può ricavare un
insegnamento anche dal fatto che il superfluo, raccolto per il giorno
di sabato, non marciva. Bisogna infatti accumulare i beni che, anche
ammassati, non subiscono corruzione.
Essi ci serviranno quando,
terminata questa vita di preparazione, ci troveremo nella forzata
inazione che segue la morte. Il giorno che precede il sabato è chiamato
parasceve perché serve di preparazione al sabato. Esso simboleggia la
vita presente, durante la quale prepariamo quanto ci servirà nella
futura49.
Là non eseguiremo più
nessuna delle opere che possiamo esercitare qui, non l’agricoltura, non
il commercio, non il mestiere delle armi; nessuna delle presenti
attività ci sarà più consentita, perché resteremo a riposo, godendo i
frutti dei semi gettati nel terreno di questa vita: frutti perfetti se i
semi gettati quaggiù furono buoni; frutti guasti e letali, se tali sono
cresciuti per negligenza di chi li ha piantati.
«Chi semina per lo spirito
dice la Scrittura dallo spirito mieterà vita eterna; chi semina per
la carne, dalla carne mieterà corruzione» (Gal 6, 8). Merita
propriamente il nome di parasceve solo quella preparazione che mira a
una migliore riuscita nel bene. Solo questa è sanzionata dalla legge
che vuole farci mettere da parte beni non soggetti a corruzione. Non è
parasceve e non ne merita il nome ogni intento contrario al bene.
Nessuno potrebbe chiamare
con il nome di parasceve la mancanza di beni; questa dovrebbe
piuttosto denominarsi assenza di preparazione.
La Scrittura prescrive
perciò i preparativi destinati a una migliore riuscita nel bene,
lasciando intendere, con il fatto di non parlarne, che non esiste una
preparazione contraria a questo scopo.
Come il capo di un
esercito, arruolando i soldati, prima paga il soldo e poi consegna loro
i vessilli di guerra, così i militi della virtù prima ricevono il
mistico soldo e poi, comandati da Giosuè, successore di Mosè, scendono
in guerra contro i nemici.
SENSO DELLE SCRITTURE
Bisogna saper sostenere da soli il combattimento spirituale
Intuisci a quali
conseguenze portano queste riflessioni? L’uomo fin quando è dominato da
una tirannide crudele, si trova in uno stato di così grave debolezza
che non può, con le sole sue forze, respingere il nemico. Ma c’è chi
prende le difese dei deboli e assale il nemico senza risparmiare colpi.
Allora il debole viene
liberato dalla schiavitù tirannica ed esperimenta, in virtù del legno,
la dolcezza dello spirito. Sosta a riposare sotto le palme, viene a
conoscenza del mistero della roccia, si ciba del pane celeste e allora
si trova in grado di respingere da solo il nemico, non più per mano di
altri. Egli possiede ormai la forza propria di chi, oltrepassata la
fanciullezza, si trova nel pieno sviluppo dell’età giovanile e muove
contro i nemici non più sotto il comando di Mosè, ma di Dio stesso, di
cui Mosè fu il servo50.
Valore dell’interpretazione spirituale della Scrittura
Il popolo muove contro il nemico quando le mani del suo Legislatore restano sollevate, fugge invece quando s’abbassano.
Mosè che tiene alzate le
mani significa chi riflette sui testi della Scrittura e dà loro una
interpretazione spirituale. Le mani abbandonate verso terra indicano
invece l’interpretazione puramente letterale. Neppure il fatto che un
sacerdote e un familiare sostengono le mani appesantite di Mosè può
rimanere estraneo alla linea delle nostre riflessioni.
È infatti il sacerdozio
che per mezzo della parola affidatagli, risolleva le energie della
legge, abbassata fino a terra dalla troppo letterale interpretazione
giudaica.
È ancora il sacerdozio che
rende visibile la legge, collocandola sopra una pietra. da dove essa,
allargando le mani, rivela a chi la scorge il proprio fine.
Nella legge infatti le
persone illuminate vedono il mistero della croce. Per questo il Vangelo
in un certo passo (Mt 5, 18) afferma che non si perderà un jota o un
apice della legge, annuendo con questi termini al braccio trasversale e
a quello perpendicolare che compongono la figura della croce.
Essa è già visibile in
Mosè il quale, come simbolo della legge, diviene segno e causa di
vittoria a chi fissa gli sguardi sopra di lui.
La legge che fu data per
essere tipo e ombra delle cose future, abbandonato il campo di
battaglia, è sostituita nel compito di stratega da colui che la
perfeziona. Egli è il successore di Mosè, già preannunciato nel nome di
Giosuè, che era il capo dell’esercito di allora.
L’ascesa verso la montagna della divina conoscenza
Le nostre riflessioni
vanno innalzandosi sempre più verso le alte cime della virtù. Colui che,
ricevuta forza dal cibo celeste, ne esperimenta l’efficacia,
scontrandosi con i nemici e uscendone vittorioso, viene poi introdotto
alla misteriosa conoscenza di Dio.
La Scrittura, facendoci
conoscere queste cose, ci mostra quali fatiche uno deve affrontare per
riuscire un giorno ad accostarsi al monte della divina conoscenza,
sostenere il suono della tromba, entrare nella nube caliginosa dove è
Dio, far incidere su tavole di pietra le lettere divine, presentare a
Dio nuove tavole ottenute con il proprio lavoro se mai le prime si
fossero rotte, affinché il dito di Dio ancora vi incida le sue lettere.
Seguendo il filo del
racconto, noi dobbiamo adeguare il nostro insegnamento al senso
spirituale, che è il più profondo. Chi, tenendo fissi gli sguardi alle
due guide di chiunque vuole avanzare sulla strada della virtù, cioè a
Mosè e alla nube (Mosè rappresenterebbe la lettera della legge e la nube
lo spirito) è stato purificato nel passaggio attraverso l’acqua, dove
distrusse e rinnegò in sé stesso ogni resto di profanità , giunge ad
assaggiare l’acqua di Mara cioè una vita priva di piaceri, che sulle
prime risulta amara e spiacevole, ma poi, una volta assaporato il legno,
procura dolcezza.
Egli potrà poi ammirare le
belle palme evangeliche che sorgono vicino alle sorgenti, saziarsi
dell’acqua viva sgorgante dalla pietra, ricevere in alimento il pane
celeste che gli dà forza contro i nemici e vedere il suo Legislatore
con le mani allargate in un gesto che è causa di vittoria e prefigura
il mistero della croce. Soltanto allora egli verrà introdotto alla
visione dell’Essere soprannaturale.
Purificarsi da ogni macchia
Per giungere a così alta
conoscenza egli deve pulirsi il corpo con abluzioni e avere i vestiti
senza macchie. Chi vuole avvicinarsi alla visione delle realtà 51,
deve essere mondo nell’anima e nel corpo, allontanando da sé ogni
macchia e sporcizia. Allora appariremo mondi anche agli occhi di colui
che vede dove l’occhio materiale non arriva. Ci sarà una perfetta
armonia tra il nostro aspetto esteriore e le interiori disposizioni
dell’animo. È per questo motivo che Dio ordina di lavare le vesti,
prima che si salga la montagna. Le vesti indicano simbolicamente gli
aspetti esteriori della vita. Nessuno può affermare che un vestito,
anche se molto macchiato, costituisce un impedimento a salire verso
Dio. Giova perciò pensare che nelle vesti siano indicate tutte le
occupazioni esteriori di questa vita.
Superare le conoscenze sensibili
Fatti questi preparativi,
l’anima procede all’ascesa verso le più alte cime, avendo cura di
tenere il più lontano possibile dal monte qualsiasi animale.
La scomparsa dal monte di
qualunque animale ci sprona a superare le conoscenze sensibili per
mezzo della visione delle realtà . Gli animali, privi come sono
d’intelligenza, vivono soltanto delle loro sensazioni; è una
caratteristica della loro natura.
Essi sono guidati dalla
vista, sebbene anche l’udito a volte li spinga verso qualche oggetto.
Sono presenti in loro tutte le altre sensazioni nelle quali si attua la
conoscenza sensibile. Ma la contemplazione di Dio non si attua per mezzo
della vista o dell’udito, e neppure vi si arriva attraverso le nostre
facoltà intellettuali.
«Né occhio vide, né
orecchio udì, né mai entrò in cuore di uomo» (1 Cor 2, 9). Chi intende
salire verso la conoscenza delle più alte realtà , deve liberarsi da ogni
forma di attività sensibile e irrazionale.
Ogni concetto derivante
dalla conoscenza sensibile va separato e liberato da quegli elementi
sensibili con i quali abitualmente è congiunto, come lo sono due
persone abitanti nella stessa casa. Solo allora si può affrontare la
montagna. Ma essa è tanto scoscesa che la maggior parte della gente può a
mala pena spingersi fino ai suoi piedi.
La divina rivelazione
Per salire in alto fino a
sentire i suoni delle trombe bisogna diventare come Mosè, che li sente
farsi più forti a mano a mano che sale, come il racconto riferisce.
La rivelazione che ha per
oggetto la natura divina è veramente una tromba che fa vibrare le
nostre orecchie. Essa è un annuncio già grandioso al suo primo
echeggiare, ma negli ultimi tempi è risuonato più distinto alle nostre
orecchie.
La legge e i profeti hanno
proclamato il divino mistero dell’Incarnazione, ma le loro voci erano
inizialmente troppo deboli perché riuscissero a colpire l’udito di chi
avesse voluto sentirle.
I giudei restarono sordi al suono di quelle trombe. Tuttavia il racconto ci informa che quel suono diventava sempre più forte.
I suoni uditi negli ultimi
tempi corrispondono all’annuncio del Vangelo. Essi hanno potuto colpire
le nostre orecchie perché, attraverso la voce di intermediari, era lo
Spirito che si faceva sentire e suscitava un’eco più vibrata e più
profonda anche per coloro che verranno dopo.
Il magistero della Chiesa, intermediario della divina rivelazione
I profeti e gli apostoli
sono gli strumenti che diffondono la loro voce sotto l’azione dello
Spirito. Essa come dice il Salmo si è diffusa su tutta la terra e
le loro parole sono giunte fino ai confini del mondo (Sal 18, 5).
Sappiamo che la
moltitudine non comprese i suoni provenienti dalla montagna e affidò a
Mosè l’incarico di interpretare quelle misteriose rivelazioni. Mosè poi
istruì il popolo sulle dottrine che aveva appreso nell’insegnamento
celeste.
Questi due fatti
concordano con l’ordinamento della Chiesa per il quale non tutti possono
penetrare da soli nella comprensione dei misteri, ma si sceglie chi
sia in grado di capire le cose di Dio e a lui si presta fiducioso
ascolto, perché tutto ciò che viene insegnato da chi è stato istruito
nelle cose divine si deve giudicare degno di fede.
«Non tutti dice la
Scrittura sono apostoli, né tutti sono profeti» (1 Cor 12, 29). Questo
ordinamento non viene rispettato oggigiorno in molte chiese. Molti
osano affrontare la salita verso Dio mentre devono ancora purificare la
loro vita passata e, per non essersi lavati, portano sopra di sé il
sudiciume delle manifestazioni esteriori della vita e non hanno altro
equipaggiamento che le conoscenze sensibili, vuote di razionalità .
Costoro saranno investiti dalle pietre dei loro stessi pensieri. Le
dottrine eretiche sono precisamente come pietre che ricadano sullo
stesso autore52.
LE TENEBRE
Vediamo ora che cosa ci
suggerisce l’entrata di Mosè nella nube tenebrosa, dove ebbe la visione
di Dio. Pare che qui la Scrittura si contraddica con ciò che ha riferito
circa la prima teofania53. Allora, infatti, Dio apparve nella luce, ora nelle tenebre.
Invisibilità dell’essenza divina
Non si pensi che questi
particolari del racconto mal si accordino con la nostra spirituale
contemplazione. Per mezzo loro la Scrittura ci insegna che la
conoscenza (gnosi) del mistero di Dio è luce per coloro che le si
avvicinano. Tenebra invece è l’empietà , ma la tenebra si dissipa quando
si entrai nella luce.
La mente che penetra con
più intensa e perfetta attenzione nella intelligenza delle realtà ,
quanto più avanza nella contemplazione tanto più s’accorge che la natura
divina è invisibile.
Solo se lasciamo da parte
le conoscenze sensibili e ciò che di vero ha soltanto apparenza,
p0tremo, con il travaglio della riflessione, penetrare in profonditÃ
fino a raggiungere l’Essere invisibile e inconoscibile: là allora
vedremo Dio.
Ma potremo dire di vederlo
veramente quando ci accorgeremo che l’oggetto della nostra ricerca sta
nascosto, come in una nube caliginosa, al di fuori del nostro campo
visivo.
Il mistico Giovanni che si
trovò in questa luminosa caligine afferma che «nessuno mai vide Dio»
(Gv 1, 18). Con questa costatazione negativa, egli stabilisce che la
conoscenza dell’essenza divina è irraggiungibile non solo dagli uomini,
ma da qualsiasi creatura intellettuale54.
Mosè asserisce di vedere
Dio nella caligine, proprio quando ne ha raggiunto una conoscenza più
perfetta. Egli intende affermare che Dio è per natura superiore a ogni
capacità di conoscenza e di comprensione delle creature. La Scrittura
dichiara infatti che Mosè avanzò in mezzo alla caligine, ove era Dio.
Quale Dio? Colui che pose nelle tenebre il suo nascondiglio (Sal 17,
12).
Così dice anche Davide, iniziato a misteri ineffabili in questo medesimo santuario segreto55.
Mosè, giunto nel mezzo della caligine, viene istruito da Dio a viva
voce, affinché possa trasmettere anche a noi la dottrina appresa, con
una concretezza maggiore. Le parole divine insegnano che nessuna umana
conoscenza può darci un’idea adeguata della divinità .
Se mai concetto o immagine
pretenda offrirci la conoscenza o l’intuizione della natura divina,
bisogna ammettere che essi esprimono soltanto un fantasma di Dio, non
già la sua reale essenza56.
I doveri morali
La virtù cristiana è
costituita da due parti: la prima ci conduce a Dio, l’altra mira alla
correzione dei costumi, poiché la purezza della vita è parte integrante
della religione.
Dopo aver appreso la
giusta nozione di Dio, che cioè le conoscenze umane nulla ci possono far
sapere di lui, bisogna apprendere quell’aspetto della virtù che
consiste nell’adempimento dei doveri, atti a rendere perfetta la nostra
vita morale57.
Conoscenza naturale e conoscenza soprannaturale di Dio
Mosè entrò poi nel
tabernacolo celeste non fatto da mano d’uomo. Ma chi lo potrà seguire
nelle ascensioni della sua mente? Prima di iniziare la salita dai piedi
del monte egli si sbarazza di tutto ciò che potrebbe essergli di
impaccio. Giunto in cima, lo colpisce il suono delle trombe e penetra
poi nel recondito invisibile santuario della conoscenza di Dio. Tuttavia
non vi si ferma, poiché passa nel Tabernacolo non costruito da mano
d’uomo.
Allora veramente tocca il
termine del suo viaggio, dopo essere giunto a tanta altezza per strade
così varie. Nonostante la diversa interpretazione data da altri, mi
pare che le trombe celesti vogliano trasmettere a chi le ascolta un
insegnamento circa l’accesso alle realtà increate.
Tutto il meraviglioso
apparato dei cieli è una voce che grida la visibile sapienza di Dio e ne
proclama la grande gloria a chiunque l’ascolti. «I cieli narrano la
gloria di Dio» (Sal 18, 2).
È questa la tromba che,
con suono potente e prolungato, diffonde il suo insegnamento. Così
infatti dice il Profeta: «Il cielo risuonò dall’alto» (Eccl. 46, 17).
Chi ha ascoltato quel suono con purità di cuore e attenzione di mente,
chi cioè ha potuto conoscere la divina potenza attraverso la
contemplazione delle realtà create, viene spinto a entrare con la mente
fin là dove è Dio. Questo luogo è chiamato dalla Scrittura nube
caliginosa che simboleggia, come fu detto, le realtà sconosciute e
invisibili.
Là entrato, Mosè poté
vedere e ammirare il celeste Tabernacolo di cui dovrà presentare
l’immagine al popolo rimasto ai piedi del monte, attraverso una
costruzione materiale: vera riproduzione del modello mostratogli sul
monte.
IL TABERNACOLO CELESTE
Il Tabernacolo non fatto
da mano d’uomo è il misterioso archetipo che desta l’ammirazione di
Mosè e che Dio gli ordina di riprodurre in un edificio materiale
innalzato dagli uomini. «Ecco gli dice il Signore tu farai tutto
secondo il modello che ti fu mostrato sul monte» (Es 25, 9).
Nuova descrizione del santuario
Le sue colonne dorate
posavano su basi d’argento e portavano capitelli anch’essi d’argento.
Altre colonne invece avevano basi e capitelli di bronzo e d’argento il
fusto.
Il pavimento su cui
poggiavano le colonne era di legno pregiato, non soggetto a
putrefazione. Tutti questi materiali preziosi spandevano attorno un
meraviglioso splendore.
C’era anche un candelabro
con un unico piedistallo che in alto si divideva in sette braccia,
ciascuno dei quali portava una fiamma. Esso era di oro massiccio non
già di legno dorato. C’erano l’altare, il propiziatorio, i cosiddetti
cherubini che con le loro ali ombreggiavano l’arca.
Tutti questi oggetti non
erano semplicemente rivestiti d’oro per ingannare l’occhio, ma erano
fatti di oro massiccio. Tende di diverse stoffe artisticamente intessute
abbellivano il santuario con la varietà dei loro colori. Esse
dividevano il luogo del santuario ove potevano entrare i sacri
ministri, da quello più interno e inaccessibile.
La parte anteriore del
tabernacolo era denominata il Santo, quella più recondita il Santo dei
Santi. C’erano anche dei catini per le abluzioni e dei bracieri. Una
tenda copriva i cortili. C’erano tende di crine e pelli di color rosso e
altri oggetti che il testo descrive con precisione.
Ci domandiamo se questi oggetti sono la riproduzione di realtà increate e quale utile insegnamento essi possono darci.
Interpretazioni sottoposte al giudizio dei lettori
Mi pare opportuno lasciare
la, spiegazione di queste realtà a chi sia in grado di parlare dei
divini misteri sotto l’ispirazione dello Spirito, come afferma
l’Apostolo (1 Cor 14, 2). Essi infatti hanno ricevuto dallo Spirito la
capacità di scandagliare le profondità di Dio (1 Cor 2, 10).
Quanto a noi, daremo di
queste realtà interpretazioni congetturali e approssimative, che
l’illuminato giudizio dei lettori potrà accettare o no, in piena
libertà . Fondandoci su alcune indicazioni dell’apostolo Paolo, quando
ci svela in parte il mistero di queste realtà , siamo del parere che esse
rappresentano dei simboli, attraverso i quali Mosè fu istruito circa
il mistero del Tabernacolo che contiene il tutto.
L’Incarnazione e il suo fine
Esso sarebbe il Cristo,
Potenza e Sapienza di Dio. Egli, increato per natura, accetta di venire
creato allorché si rende necessaria in mezzo a noi la costruzione del
Tabernacolo.
Perciò Cristo è nello
stesso tempo increato e creato: increato a motivo della sua
preesistenza, creato dal momento in cui gli viene data un’esistenza
materiale58.
Queste nostre parole non
risulteranno oscure a coloro che sono istruiti nei misteri della fede.
Uno solo è l’Essere che esisteva prima del tempo e nacque al termine di
un lungo volger di secoli.
Questo Essere, che non
aveva bisogno di nascere alla vita temporale. (Egli è prima del tempo e
prima di tutti i secoli), accetta di nascere tra noi, per ricondurci a
quell’Essere da cui eravamo venuti e dal quale ci eravamo staccati per
volontaria colpa.
Egli è il Dio Unigenito, che comprendendo in sé stesso il tutto, ha eretto in mezzo a noi su solide basi il suo Tabernacolo59.
Il fedele non si turbi se
applichiamo a Cristo il nome di Tabernacolo. Cristo è un essere immenso,
ma questo termine di tabernacolo a lui applicato non intende
rimpicciolire la grandezza della sua natura. Non esiste in realtà un
termine capace di esprimere la natura divina, mancando tutti di un
contenuto preciso e completo. Questo vale sia per i termini chiaramente
inadeguati sia per quelli che contengono un’idea di grandezza.
Cristo viene qui
opportunamente indicato col termine di tabernacolo; esso corrisponde a
quei termini che usiamo per significare un particolare aspetto della
Potenza divina, quelli a esempio di: medico, pastore, protettore, pane,
vite, strada, porta, dimora, acqua, pietra, fonte e altri che
applichiamo al medesimo essere60.
La Potenza che contiene
l’universo e nella quale abita la pienezza della Divinità (Col 2, 9) può
benissimo essere chiamata col nome di Tabernacolo, perché è come una
corazza che protegge il tutto e lo stringe dentro di sé61.
La nostra contemplazione
deve adattarsi al significato simbolico del tabernacolo, perché
ciascuna delle cose che vi si trovano può aiutarci ad avere un’idea
meno difettosa della divinità .
Il grande Apostolo afferma
che il velo del tabernacolo celeste simboleggia la carne (Eb 10, 20),
mi sembra perché era composto di quattro stoffe diverse. Lo stesso
Apostolo, quando giunse nelle più alte regioni dei cieli e vide il
Tabernacolo celeste, fu istruito dallo Spirito intorno alle misteriose
realtà del paradiso (2 Cor 12, 4).
Fondandoci su queste
interpretazioni parziali, crediamo opportuno dare una interpretazione
generale di tutto il Tabernacolo. Le parole dell’Apostolo potrebbero
appunto darci la chiave per spiegarne i vari significati. In una delle
sue lettere (Col 1, 16), egli parla del Primogenito che abbiamo visto
raffigurato nel Tabernacolo.
«In lui tutto fu creato, le cose visibili e le invisibili, sia i Troni, sia le Potestà , sia i Principati, sia le Dominazioni, sia le Virtù»62.
Le potenze celesti e il loro compito
Le colonne splendenti
d’argento e oro, i sostegni, gli anelli, i cherubini protendenti sopra
l’arca le loro ali, tutti gli altri ,oggetti ricordati dalla Scrittura
nella descrizione del tabernacolo (scenopegia), altro non sono
nell’interpretazione spirituale, che le potenze (ipercosmiche) celesti
presenti nel tabernacolo e poste dal divino Volere a sostenere
l’universo63. A loro è affidata la missione di sostenerci e di servirci, essendo noi predestinati alla salvezza (Eb 1,14).
Queste Potenze inserite
nelle nostre anime come l’anello nel dito, aiutano a innalzare verso la
cima della virtù coloro che prima giacevano a terra. La Scrittura
conferma questa interpretazione del tabernacolo, quando accenna ai
cherubini che coprono con le ali gli oggetti misteriosi conservati
nell’Arca dell’Alleanza.
Altri simbolismi
Sappiamo che col nome di
cherubini sono indicate le manifestazioni della divina Onnipotenza,
viste da Isaia e da Ezechiele (Is 6, 2; Ez 5, 4).
Non dobbiamo meravigliarci
quando sentiamo che le ali dei cherubini ricoprono l’Arca
dell’alleanza. Anche per Isaia che ce ne parla hanno un significato
simbolico. Nel testo di Isaia l’Arca dell’Alleanza viene indicata col
nome di volto.
Ma sia che si parli di
volto oppure di arca, si tratta sempre del medesimo simbolismo riferito,
secondo il mio parere, a quelle realtà inconoscibili e ineffabili alle
quali non può giungere la nostra riflessione.
Quando nel testo
scritturistico senti nominare le lampade che escono come rami da un
unico fusto, spandendo ovunque abbondante luce, non sei lontano dal
vero se pensi che a questo Tabernacolo convergono i mirabili fulgori
dello Spirito, che Isaia distingue in sette fiamme (Ap 4, 5 Is 11, 2).
Quanto al propiziatorio,
mi pare che non occorrano spiegazioni, perché l’Apostolo ne ha giÃ
espresso il significato simbolico, quando parla di colui che Dio pose
propiziazione per le nostre anime (Romani 3, 25).
Nell’altare e nell’incensiere vedo invece l’incessante adorazione compiuta nei tabernacolo dalle creature celesti.
È ancora l’Apostolo a
dichiararci che le creature terrestri e infernali e le creature celesti
celebrano la lode dell’Essere che è principio dell’universo (Fil
2,10). Lo stesso Apostolo aggiunge: «Questo è il sacrificio gradito a
Dio: la lode delle labbra e il profumo della preghiera» (Eb 13, 5; Ap 5,
8).
L’ordine delle nostre
considerazioni non viene a essere sconvolto, se ci soffermiamo a
considerare il tessuto rosso le tende di crine che coprono il
tabernacolo.
Il Profeta che ebbe la
visione delle cose divine vede prefigurata in questi oggetti la Passione
del Salvatore. Il rosso infatti significa sangue e il crine significa
morte. Quest’ultimo, fatto di materiale insensibile, è eminentemente
simbolo di morte.
IL TABERNACOLO INTERIORE
Le colonne della Chiesa
Sono queste le realtà che
il Profeta vede nel tabernacolo celeste. Siccome a più riprese Paolo
chiama Cristo la Chiesa (1 Cor 2, 12; Ef 1, 23), queste stesse realtÃ
considerate nel tabernacolo terrestre che appunto è la Chiesa,
potrebbero simboleggiare i ministri del divino mistero, chiamati dalla
Scrittura «colonne» della Chiesa, apostoli, maestri, profeti (Gal 2, 9; 1
Cor 12, 29).
Non soltanto Pietro,
Giovanni e Giacomo sono colonne della Chiesa, non soltanto Giovanni
Battista era lucerna ardente, ma tutti coloro che, poggiando sopra di
essi, fanno da sostegno alla Chiesa e, per merito delle loro opere, sono
diventati astri luminosi, ricevendo così gli appellativi di colonne e
di lucerne (Fil 2, 15). «Voi siete la luce del mondo», dice il Signore
agli Apostoli (Mt 5, 4).
Del resto è ancora il
divino Apostolo Paolo che impone a tutti il dovere di essere come
colonne quando dice: «Siate fermi e irremovibili» (1 Cor 15, 58).
Diversità di uffici nella Chiesa e concordia di intenti
Egli aveva fatto di Timoteo una bella colonna, tanto da poterlo chiamare «colonna e fondamento (della Chiesa)» (1 Tm 3, 15).
Nel tabernacolo si
celebrava da mane a sera il sacrificio di lode e si levava incessante
l’incenso della preghiera. Il grande Davide ci fa comprendere il
significato di questi atti, quando innalza verso Dio l’incenso della sua
preghiera «in odore di soavità », e compie il sacrificio, tenendo le
mani levate (Sal 140, 2).
La Scrittura accenna anche
ai bacini nei quali vanno senz’altro individuati i ministri che, per
mezzo della mistica acqua, puliscono la sporcizia dei peccati.
Bacino era Giovanni che
puliva col battesimo di penitenza nelle acque del Giordano, bacino era
Pietro quando condusse alla medesima acqua in una sola volta tremila
persone, bacino Filippo nel battesimo dell’eunuco di Candace (At 2, 41;
8, 36) e tutti gli altri che, ricevuto il Dono, sono stati scelti a
trasmettere la grazia.
Non sarebbe in errore chi,
nelle tende che tutt’intorno una vicino all’altra chiudevano il
tabernacolo, volesse veder simboleggiata l’amorosa e pacifica
concordia dei credenti. È del resto l’interpretazione che ci dà Davide
dicendo «Ha posto come suoi confini la pace» (At 4, 32; Sal 147, 14).
La pelli rosse e le pelli
di crine poste a ornamento del tabernacolo, potrebbero rappresentare:
le une la morte della carne del peccato, le altre la vita austera di
penitenza, che dà particolare bellezza al tabernacolo della Chiesa. Le
pelli infatti, anche se in sé stesse non posseggono alcuna vitalità ,
acquistano tuttavia vivacità dal colore rosso. Questo ci insegna che la
grazia dello spirito, non può crescere negli uomini, se non quando è
stata data morte al peccato.
Simbolismi diversi
Ciascuno, seguendo il
proprio criterio, è libero di prendere il colore rosso come simbolo di
saggio pudore. Nel tessuto ruvido e opaco delle tende di crine viene
invece indicata l’austera penitenza, distruggitrice delle passioni. La
mortificazione della carne è appunto il segno caratteristico di chi vive
nello stato di verginità 64.
L’inaccessibilità del Santo dei Santi, che era proibito alla folla, si
inserisce senza forzature nel contesto delle nostre applicazioni
spirituali. Colui che rappresenta la Verità dell’universo è un Essere
santo, intangibile e inaccessibile, come lo era il Santo dei Santi.
Questa Verità collocata
nelle ineffabili profondità del mistero non può essere oggetto della
curiosità dell’intelligenza, perché ne oltrepassa le forze. Essa è
oggetto della fede, per mezzo della quale crediamo che esiste, sebbene
risulti a tutti invisibile e quasi inesprimibile nei segreti dello
spirito.
LE VESTI SACERDOTALI
Difficoltà di assegnare un significato spirituale alle singole vesti
A nuovi e più profondi
pensieri si innalza l’anima di Mosè quando gli vengono presentate le
vesti sacerdotali, dopo le ascensioni purificatrici cui lo portarono le
cose viste nel Tabernacolo.
Le vesti comprendevano la tunica, l’efod,
il pettorale splendente di pietre preziose, la tiara attorno alla
testa e la lamina che vi era sovrapposta, gli anelli, le melograne, i
campanelli. In alto c’erano l’oracolo, il giudizio, la verità , le fibbie
che li sostenevano da una parte e dall’altra e portavano incisi i nomi
dei patriarchi. La varietà dei nomi assegnati a queste vesti ci rende
difficoltosa una precisa e particolareggiata applicazione del senso
spirituale.
Esigenza di santità nei ministri del santuario
È difficile comprendere
come i termini di rivelazione, oracolo, verità , possano servire a
indicare delle vesti. Evidentemente questi nomi, usati dalla Scrittura
per designare vesti esteriori, contengono il riferimento a un vestito
interiore composto di atti virtuosi.
Alcuni, che prima di noi hanno spiegato questi testi, vedono simboleggiata l’aria nell’azzurro della tunica65.
Io non mi sentirei di confermare questa interpretazione, pur
riconoscendo che il colore del giacinto e quello dell’aria coincidono.
Per questa ragione non rigetterei del tutto l’accennato simbolismo.
Applicato alla dottrina
della virtù, esso è rivolto a chi si dedica al culto divino nel
ministero delle sacre celebrazioni e si consacra al servizio di Dio,
offrendo il suo corpo in sacrificio per divenire ostia vivente del
culto spirituale (Rm 12, 1). Dice loro il dovere di liberarsi dal peso
di una vita carnale, rendendosi leggeri al pari di ragnatela, attraverso
la purità delle azioni.
Allora la nostra natura,
nonostante il peso del corpo, verrà come ritessuta e risulterà leggera
come l’aria. Quando poi suonerà la tromba finale (escatologica), saremo
veramente trovati senza peso, pronti alla voce di comando che ci
solleverà con Cristo tra le nubi nell’aria (1 Ts 4, 17), senza più alcun
peso che ci trascini a terra.
Gli elementi costitutivi della virtù e le sue esigenze
Le parole del salmo
promettono una tunica celeste, che scenderà dalla terra fino ai piedi, a
chi ha distrutto la sua vita come si fa di una tarma. La legge,
attraverso il simbolo della tunica, vuole che la nostra virtù sia
completa. I campanelli d’oro alternati alle melograne sono
l’irradiamento delle buone opere.
Fede in Dio e vita secondo
coscienza rappresentano infatti i due elementi costitutivi della
virtù. Per questo il grande Paolo invita Timoteo a mettere sul suo
vestito tali melograne e campanelli, esortandolo ad aver fede e buona
coscienza (1 Tm 1, 19).
Suoni dunque forte e
distinta la nostra fede nella Santa Trinità e la nostra vita imiti le
caratteristiche dei frutti del melograno. Il loro involucro esterno
secco e aspro è immangiabile, ma l’interno è piacevole alla vista, per
la bella e varia disposizione dei grani e ancor più piacevole al gusto
per la loro dolcezza. La vita virtuosa e penitente risulta priva di
attrattiva e di gusto per i sensi, ma è carica di buone speranze, quando
i suoi frutti vengono a maturazione.
Allorché sarà giunto il
tempo in cui il divino Agricoltore delle nostre anime aprirà la
melograna della nostra vita e mostrerà i bei frutti che essa contiene,
potremo allora assaggiare e gustare la dolcezza di questo frutto.
Anche il divino Apostolo
afferma in un certo passo che al principio ogni disciplina sembra
causare dolore più che gioia (come avviene quando si tocca l’involucro
della melograna), ma poi dà frutti di pace (Eb 12, 11) e fa gustare il
dolce cibo che essa contiene66.
La legge ordina che la
tunica sia decorata di una frangia cosparsa di piccole sfere a scopo
ornamentale. Questo ci insegna che la virtù non deve restringersi
soltanto alle cose comandate, ma aggiungere spontaneamente al proprio
vestito qualche ornamento esterno. Così fece Paolo che, all’osservanza
dei precetti aggiunse, come frangia a un vestito, opere alle quali non
era tenuto. Soffrendo fame, sete e freddo, egli predicò il Vangelo senza
esigere ricompense, sebbene la legge disponga che i ministri
dell’altare vivano dell’altare e gli annunciatori del Vangelo vivano
del Vangelo (2 Cor 11, 17; 1 Cor 4, 11).
Ma Paolo vuole che il
Vangelo sia un dono gratuito e perciò preferisce subire la fame, la
sete, la fatica. Queste opere volontarie rappresentano appunto le belle
frange che ornano la tunica dei comandamenti.
Sopra la tunica si
trovavano due pezzi di stoffa scendenti dalle spalle sul petto e dietro
il dorso e trattenuti alle spalle da due fibbie. Le fibbie recavano
pietre preziose con Licisi i nomi dei patriarchi, sei per ciascuna.
I pezzi di stoffa erano
intessuti a vari colori: blu e rosso, cocco e lino. L’oro dei ricami,
sovrapposto alle stoffe colorate, faceva tutto risplendere di una
bellezza armoniosa.
Impariamo così che le
virtù, al pari degli ornamenti posti nelle parti superiori della
tunica, ornano il nostro cuore in modo vario e molteplice. Vediamo
infatti l’azzurro unito alla porpora, cioè la dignità regale alla
purezza dei costumi.
Il pudore, simboleggiato
nel colore rosso, dà maggior risalto al candore di una vita senza
macchia, simboleggiata nel bianco lino. L’oro che brilla sul fondo di
questi colori esprime la preziosità di tal genere di vita.
Gli omerali acquistavano
non poca bellezza dai nomi dei patriarchi che portavano incisi. Essi
insegnano che gli esempi di, virtù costituiscono l’ornamento più bello
della vita umana, poiché in essi c’è una forza trascinatrice.
Gli scudi d’oro, che
pendevano di qua e di là dal pettorale, davano ulteriore abbellimento ai
due pezzi di stoffa. Questi scudi sostenevano un oggetto
quadrangolare in oro con dodici pietre sistemate in fila.
Erano quattro file,
comprendenti ciascuna una triade di pietre. Non una di queste pietre
assomigliava alle altre, avendo ciascuna un proprio particolare
splendore.
Così si presentava nel
complesso quell’ornamento. Negli scudi pendenti dalle spalliere noi
scorgiamo un’allusione all’armatura che ci occorre per combattere il
nostro avversario. Essi, come si è visto, indicano il duplice aspetto
della virtù, consistente nell’adesione alla fede e nella testimonianza
di una buona coscienza, nell’uso delle armi della giustizia a destra e a
sinistra.
L’oggetto quadrangolare
attaccato agli scudi di qua e di là e recante le pietre con scritti i
nomi dei patriarchi eponimi delle tribù, rappresenta il velo steso a
protezione dell’uomo interiore.
La Scrittura, dopo avere
accennato agli scudi, simbolo della resistenza contro l’avversario,
bramoso di colpirci con i suoi dardi, ma costretto a fuggire, ci
presenta nel pettorale di forma quadrata l’anima vittoriosa che, dopo
tanti scontri, si trova in possesso delle molte virtù dei Patriarchi, a
ornamento e splendore dell’unica tunica della virtù.
La forma quadrata indica
il dovere della stabilità del bene. Il quadrato, composto di angoli e
lati uguali, è infatti una figura geometrica inalterabile.
Perfino le fibbie che
legano il pettorale alle spalle possono esprimere, a mio parere, un
insegnamento di vita spirituale. Esse insegnano che la filosofia morale
deve accompagnarsi alla filosofia teoretica e la contemplazione,
simboleggiata nel cuore, deve unirsi alle opere, simboleggiata nelle
braccia.
Il diadema posto sulla
testa indica la corona riservata a chi ha vissuto bene; essa reca
lettere arcane, incise su una lamina d’oro. Chi indossa queste vesti
non ha calzari ai piedi, affinché la sua corsa non sia impedita da pesi
inutili.
Una materia inerte come la
pelle usata per fare i calzari, e nella quale abbiamo scorto il simbolo
della morte, rende impossibile ogni movimento.
Non si capirebbe la
ragione per cui Mosè dovette togliersi i calzari se questi fossero
stati parte integrante delle vesti sacerdotali, mentre nella sua prima
iniziazione vennero considerati un impedimento.
LE TAVOLE INFRANTE E RESTAURATE
Il peccato di idolatria e la sua eliminazione
Abbiamo seguito Mosè passo
passo nell’ascensione verso le più alte cime e ora lo vediamo
discendere con in mano le tavole che Dio stesso gli procurò e ne
contenevano la legge. Ma esse si infransero contro il cuore duro e
ostile dei peccatori, che fabbricarono un idolo in forma di vitello
tutto cesellato a opera di artisti idolatri. Si trattava precisamente
del peccato di idolatria.
L’idolo abbattuto da Mosè
si sciolse in acqua e questa fu bevuta dai peccatori. La materia
dell’idolo che era servita all’empietà fu così ridotta a nulla.
I fatti qui riferiti preannunciano profeticamente ciò che avviene al presente.
Il peccato di idolatria è
stato eliminato dalla vita sociale grazie alla preghiera di lode che,
risuonando sulle labbra di persone pie, distrugge ogni residuo di
empietà . Le cerimonie vigenti un tempo tra gli idolatri sono scomparse
come acqua corrente e le lodi che allora si innalzavano agli idoli non
escono più da nessuna bocca67.
Costatando come queste persone, un tempo
vittime di simili pazzie fino al punto di esserne persuase, ora ne
sono totalmente libere, non ti pare che il racconto di questi fatti
della Scrittura sia come una voce che grida: ogni idolo un giorno verrÃ
travolto, attraverso le lodi che innalzeranno a Dio quanti sono
passati dall’idolatria alla vera religione?
Scopo medicinale, dei castighi divini
Mosè fa armare i leviti
per colpire i compatrioti, che vengono passati a fil di spada. I
leviti, percorrendo l’accampamento da un’estremità all’altra, colpivano
a morte chiunque incontravano, non distinguendo tra il nemico e
l’amico, l’estraneo e il congiunto, il compatriota o il forestiero.
Chi li incontrava era infallibilmente raggiunto dai loro colpi. Anche questi fatti possono offrirci qualche utile insegnamento68.
Il castigo colpisce tutti indistintamente perché tutti hanno
acconsentito al male o sono stati solidali. Avvenne allora ciò che
capita quando qualcuno batte con le verghe un colpevole preso sul fatto.
Egli sa benissimo che su qualunque parte del corpo faccia cadere i
colpi, tutto il corpo ne risente di modo che, castigando una parte,
viene castigato l’intero corpo.
La verga costituisce
perciò lo strumento di una punizione generale. Parimenti quando lo
sdegno divino si fa sentire solo contro alcuni, risparmiando altri,
colpevoli degli stessi falli, bisogna credere che il fine per cui Dio
agisce in questa maniera è quello di correggere gli uomini secondo un
disegno di amore.
È vero che il castigo non
raggiunge tutti i colpevoli ma tutti, vedendolo attuato, sono spinti al
ravvedimento e si staccano dal male. Questo insegnamento è pienamente
conforme al senso letterale del racconto biblico. Ma dobbiamo chiederci
quale è il senso spirituale, per trarne qualche utilità .
Bisogna stare con Dio e la sua legge
Mosè ordina ai suoi: chi è
per il Signore si metta dalla mia parte. È questa la voce della legge
che a tutti comanda: se qualcuno vuoi essere amico di Dio diventi amico
mio (nessun dubbio che, essendo amici della legge, si è anche amici di
Dio). A quelli che si sono messi dalla sua parte, Mosè ordina di usare
la spada contro i loro fratelli, amici e vicini. Se vogliamo stare in
armonia con il carattere spirituale delle nostre considerazioni,
dobbiamo apprendere da questo episodio che l’uomo, una volta passato
dalla parte di Dio e della legge, vede eliminate le cattive abitudini
che prima si erano stabilite in lui.
Distruggere in noi il peccato
La Scrittura non usa
sempre i termini di fratello, amico e vicino nel senso buono. A volte la
medesima persona è insieme fratello ed estraneo, vicino e lontano. Ci
sono pensieri che, lasciati crescere dentro di noi, operano la nostra
morte, ma estirpati permettono alla vita di svilupparsi. Questa
riflessione concorda con ciò che abbiamo detto a proposito di Aronne.
Egli era venuto incontro a Mosè col compito di essere suo aiutante e suo
angelo.
A lui si devono i prodigi
che recarono tanti danni agli Egiziani. Giustamente egli è ritenuto più
anziano di Mosè perché l’Angelo, avendo una natura spirituale, ha il
mandato di proteggerci. Aronne è ricordato e nominato come fratello di
Mosè e giustamente, perché tra la natura spirituale dell’angelo e le
facoltà del nostro spirito esistono come dei legami di parentela.
Il nome di fratello che la
Scrittura usa quando nomina Aronne è in palese contraddizione con il
fatto che egli diverrà ministro di un culto idolatrico per gli
Israeliti. Ci riesce perciò difficile pensare che il suo incontro con
Mosè sia stato un bene.
Ma appunto perché usa
questo termine di fratello, la Scrittura ci dice che esso può riferirsi
a realtà opposte. Il fratello che vince il tiranno d’Egitto è ben
diverso da quello che fa modellare l’idolo per il popolo, eppure ambedue
sono indicati con il medesimo nome di fratello. Mosè fa assalire con
la spada quei fratelli ai quali il termine si applica nel suo
significato peggiore.
In realtà ciò che comanda
agli altri lo impone a sé stesso. Sopprimere tali fratelli significa
distruggere il peccato. Se poi distruggiamo il male seminato dentro di
noi dal nostro avversario, distruggiamo nel medesimo tempo anche colui
che viveva dentro di noi in forza del peccato.
Il peccato originale e le sue conseguenze
Se riflettiamo e mettiamo a
confronto alcune notizie riferite dal racconto, scopriremo che esse
contengono un precetto destinato a noi in modo particolare. Nel testo
infatti si dice che Aronne impose l’obbligo di consegnare gli orecchini,
usati poi per la costruzione dell’idolo. Dunque costatiamo che mentre
Mosè offrì agli Israeliti lo splendido dono della legge simboleggiata
negli orecchini, il suo falso fratello, istigando alla disobbedienza,
fece togliere questo ornamento dalle loro orecchie e ne ricavò un idolo.
Colui che ha istigato a
disobbedire al comandamento divino facendo comparire per la prima volta
il peccato, ci ha precisamente sottratto un orecchino. Egli era il
serpente di cui i nostri progenitori, seguendone il consiglio, si fecero
amici e vicini. Egli li istigò a togliersi l’orecchino del precetto
cioè ad allontanarsi da Dio, quasi fosse cosa buona e utile.
Chi uccide fratelli, amici
e vicini di tal genere udrà dalla legge le parole stesse che il
racconto mette sulle labbra di Mosè all’indirizzo delle persone che
operarono quelle uccisioni: «Voi veniste oggi insieme con i vostri figli
e fratelli, con le mani piene davanti al Signore perché scenda su di
voi la sua benedizione».
Abbiamo accennato nella
nostra esposizione a coloro che hanno voluto il peccato di idolatria,
per apprendere in quale modo Mosè riporta le tavole nuove, in
sostituzione di quelle cadutegli di mano e spezzate contro il terreno.
Le prime tavole erano
opera di Dio, che vi aveva inciso la sua legge. Nelle altre, erano
identiche le lettere incise, ma la materia era diversa. Essa proveniva
dalla terra e fu presentata a Dio perché vi scrivesse le parole della
legge. Mosè otteneva così che insieme alla legge scritta sulle tavole di
pietra tornasse anche la grazia di Dio. Secondo l’indicazione che ci
viene da queste tavole noi possiamo giungere a conoscere l’azione
della divina Provvidenza nei nostri riguardi.
Il divino Apostolo, che ha
scrutato con l’aiuto dello Spirito le profondità di Dio (1 Cor 2, 10),
non può sbagliare quando parla delle tavole del cuore, che sono la cima
dell’anima69.
Da questo riferimento
apprendiamo che all’inizio la nostra natura fu plasmata dalle mani di
Dio integra e immortale. Dio l’abbellì con leggi non scritte, che
dirigevano le nostre volontà nel costante rifiuto del male e nel timore
di Dio.
Ma il tuono del peccato
scoppiò sopra di noi in voce di serpente. È l’espressione usata dalle
prime pagine della Scrittura, ma il testo che parla delle tavole di
pietra la definisce voce di avvinazzati (Gn 3, 4).
L’incarnazione
Il vero legislatore di cui
Mosè era figura riplasmò di sua iniziativa, con materiale preso dalla
terra, la nostra natura, raffigurata nelle tavole di pietra. La carne,
nella quale scese la divinità , non proviene da unione maritale, ma fu
da lui stesso preparata, come facendo sopra di sé il lavoro del
tagliapietre.
Il dito di Dio vi incise
poi le sue lettere. Lo Spirito Santo infatti discese sulla Vergine e la
virtù dell’Altissimo la copri con la sua ombra (Lc 1, 35).
Dopo questo evento la
natura umana riebbe l’antica infrangibile compattezza e ritornò
immortale in virtù delle lettere che vi incise il dito di Dio, che. è lo
Spirito Santo, secondo una espressione frequentemente usata dalla
Scrittura.
È allora che avviene in
Mosè la meravigliosa trasformazione che lo circonfuse di luce gloriosa e
insostenibile da occhi mortali. A chi è pienamente istruito nei misteri
della fede, non sfuggirà l’esatta corrispondenza tra il senso
letterale di questi fatti e la loro interpretazione in senso spirituale.
Il Restauratore dell’umana
natura che giaceva spezzata (devi vedere indicato in queste parole
colui che si è dato pensiero di rimediare alle nostre fratture), dopo
averle ridato l’antica bellezza, servendosi del dito di Dio, è
diventato inaccessibile agli occhi degli indegni, poiché da lui emana
tanta luce di gloria da abbagliare la vista.
Dice il Vangelo che quando
egli apparirà nella sua gloria e gli Angeli con lui, solo i giusti a
mala pena potranno accoglierlo e contemplarlo (Mt 25, 3). L’empio e
chiunque volontariamente si fa simile ai giudei, non saranno ammessi a
quella visione, come afferma Isaia (Is 26, 10).
LA VISIONE DI DIO
Un caso in cui l’interpretazione letterale del testo scritturistico è insufficiente
Seguendo per ordine a una a
una le particolarità accennate dal testo, noi abbiamo interpretato
tutto questo passo in senso allegorico.
Dobbiamo ora proseguire la
nostra indagine sui testi che seguono. La Scrittura, descrivendoci le
numerose teofanie avute da Mosè, parla di un incontro «faccia a
faccia», come quello di un amico che parla all’amico.
Con tali espressioni essa
ci assicura che Mosè vedeva Dio chiaramente, ma poi, e qui sta la
difficoltà la stessa Scrittura ci presenta Mosè nell’atteggiamento
di uno che, non avendo ottenuto ciò che sperava, prega perché gli si
mostri quel Dio che ancora non ha visto.
Dio viene incontro benevolo alla preghiera di Mosè, non ricusandogli la grazia richiesta.
Quando però gli dice che
egli ha chiesto un bene immensamente superiore alle facoltà dell’uomo,
toglie a lui quasi ogni speranza. Allora Dio gli indica una roccia
vicina e nella roccia un’apertura dove Mosè entrerà .
Dio metterà la sua mano
sulla bocca dell’apertura e passando davanti chiamerà Mosè che, a quel
richiamo, dovrà uscire e potrà allora vedere il dorso di colui che l’ha
chiamato.
Gli sembrerà così di aver
visto l’Essere che aveva chiesto di vedere e la promessa di Dio non gli
apparirà vana. Un’interpretazione soltanto letterale di questi fatti
potrà dar luogo a molta confusione, dando a chi vi riflette un’idea
superficiale di Dio. Infatti, solo le cose che hanno una figura
possiedono una parte anteriore e una posteriore.
Ora la figura si trova
sempre legata a un corpo. Ma ogni corpo è un composto e il composto è
formato dalla fusione di elementi eterogenei. Perciò il composto è
divisibile e una sostanza divisibile è soggetta a distruzione.
Separando gli elementi del composto se ne provoca infatti la
distruzione.
Se dunque l’espressione
«il dorso di Dio» fosse presa alla lettera, se ne dovrebbero dedurre
conseguenze assurde, perché ogni figura ha immancabilmente una parte
anteriore e una posteriore e ogni figura è corpo. Un corpo è per natura
decomponibile, essendo una sostanza composta. Chi dunque fosse troppo
ligio al senso letterale, dovrebbe logicamente giungere ad ammettere in
Dio una possibilità di decomposizione. Ma Dio è incorruttibile e senza
corpo.
Difesa del senso spirituale
Qual è dunque il concetto che possiamo intravedere sotto le parole del testo, al di là del loro significato letterale?
Se questo passo ci obbliga
a trovare una interpretazione diversa da quella propria del testo,
conviene ammettere che tutto l’intero episodio in questione esige
questa interpretazione diversa. Non esiste un tutto se le parti che lo
compongono non sono complete. Dovremo perciò applicare il criterio del
senso spirituale a tutti gli altri particolari citati dal testo: il
luogo che è presso Dio, la roccia situata in quel luogo, il ricettacolo
che vi si trova, l’entrata di Mosè nel rifugio, l’estensione della mano
di Dio, il richiamo e l’uscita di Mosè, la visione del dorso.
Forza d’attrazione del Sommo Bene
Quale è dunque il loro
significato? Mi pare questo: l’anima alleggerita dal peso delle
passioni, sale con volo leggero e rapido verso le cime più alte, con
effetto contrario a quello per cui i corpi pesanti, messi in moto su un
piano inclinato, corrono giù lungo il pendio senza bisogno di spinte,
trascinati dalla loro stessa forma, purché non incontrino qualche
impedimento che li arresti70.
L’anima sale così ad altezze sempre maggiori71, purché nulla intervenga a interrompere la sua corsa, in forza dell’attrattiva che il bene esercita su coloro che lo seguono72.
Sospinta dal desiderio del
cielo essa si protende in avanti, come afferma l’Apostolo (Fil 3,13),
sollevandosi a volo verso regioni sempre più eccelse. Preoccupata di
non perdere quota, essa moltiplica lo slancio verso le altezze,
attingendo nuove energie dai risultati raggiunti. Soltanto gli sforzi
spesi per vivere virtuosamente non danno stanchezza, ma vigore e non
diminuiscono, ma accrescono le forze di operare ulteriormente.
Riconosciamo perciò che il
grande Mosè, migliorandosi sempre più, mai ha cessato di salire e
neppure ha fissato un termine alla sua ascensione lungo la scala
«sulla quale stava il Signore» (Gn 28, 13). Egli sale di gradino in
gradino senza sostare, poiché trova sempre un altro gradino dopo quello
che ha lasciato dietro di sé.
Insaziabilità del desiderio di perfezione
Mosè rifiuta il falso
legame di figliolanza con la Regina d’Egitto, prende le difese del suo
compatriota, fissa dimora nel deserto ove non lo disturba il tumulto
della vita degli uomini, pascola nella sua anima il gregge di muti
animali, vede lampeggiare la luce, rende più spedita la salita
togliendosi i calzari, conduce a libertà il suo popolo e i suoi
familiari, gode la protezione della nube, vede i nemici sommersi nelle
acque, soddisfa la sete per mezzo della roccia, raccoglie il pane
disceso dal cielo, combatte contro una popolazione straniera tenendo
levate le mani, sostiene il suono della tromba, entra nella nube
caliginosa, giunge nei penetrali del tabernacolo increato, è iniziato
ai misteri del divino sacerdozio, distrugge l’idolo, placa il Signore,
chiede di nuovo la legge spezzata dalla malvagità dei Giudei, risplende
di gloria.
Dopo aver raggiunto così
alte cime, la sua brama ancora non è sazia e mira a ottenere di più.
Egli avverte di aver ancora sete dopo aver bevuto a sazietà e prega
come se non avesse ottenuto e supplica Dio di rivelarglisi non già in
modo proporzionato alle proprie capacità , ma così come egli è.
Mi pare che questo si
ripeta esattamente anche nell’anima che tende per sua natura alla vera
bellezza. Essa, sorretta dalla speranza di passare da una bellezza
inferiore precedentemente ammirata a una superiore ancora nascosta,
accende di continuo il suo desiderio. Per questa sua struttura l’anima
tende a spingersi irresistibilmente verso la bellezza, nella speranza di
giungere a cogliere pienamente la figura stessa dell’Archetipo. Qui
sta l’oggetto dell’ardita preghiera di Mosè, che supera i confini
stessi del desiderio.
Egli vuole godere della
bellezza, ma non riflessa in uno specchio, bensì faccia a faccia. La
risposta di Dio, nelle brevi parole con cui respinge simile preghiera,
apre davanti a noi un abisso immenso di pensiero.
Dio gli concesse il dono
di soddisfare il suo desiderio, ma non gli diede la cessazione e la
sazietà di esso. Se Mosè, contemplando la visione di Dio, avesse estinto
in sé la brama che ne aveva, Dio non gli si sarebbe mostrato.
Comprendiamo allora che vedere Dio consiste realmente nel non mai
saziarsi del desiderio di lui73.
Dice infatti il Signore:
«Non potrà un uomo vedere il mio volto e poi vivere». La Scrittura ci
mostra invece che il vedere Dio non può causare la morte perché non è
possibile che il volto dell’Essere che è la vita per eccellenza, procuri
morte a chi lo contempla.
Ineffabilità di Dio
Dio è per natura principio
di vita e la sua essenza non può essere racchiusa in concetti umani.
Concepire Dio partendo dalle nostre conoscenze significa non possedere
la vita.
Così facendo distogliamo
gli sguardi dal vero Essere e li volgiamo a ciò che le conoscenze
sensibili ci fanno cogliere erroneamente come essere. Il vero Essere è
inaccessibile alla nostra conoscenza. Se quella Sostanza ch’è principio
di ogni vita eccede le capacità della conoscenza, ne deriva che i
nostri concetti non contengono affatto la vita.
Ma ciò che non è vita
neppure ha il potere di comunicare la vita. La richiesta tanto
ardentemente espressa da Mosè viene ascoltata quando Dio dichiara che è
cosa impossibile soddisfare quel desiderio.
Ci viene così insegnato
che Dio è infinito per natura e non circoscritto da limite alcuno. Se
si potesse racchiudere Dio in un concetto, sarebbe necessario
considerare tutto ciò che non è compreso in quel concetto.
Un’entità circoscritta è
necessariamente delimitata dall’entità che la circoscrive, come avviene
per gli uccelli e per i pesci che hanno l’aria o l’acqua come loro
confine. Se Dio fosse concepito limitato, dovrebbe essere contenuto in
una entità diversa da lui, proprio come il pesce è ovunque circoscritto
dall’acqua e l’uccello dall’aria.
Logicamente bisogna
ammettere che l’elemento destinato a contenere è più grande della cosa
contenuta. Tutti riconoscono che Dio è la Bellezza per essenza ed è
quindi ben diverso dagli esseri che non possiedono la bellezza per
natura.
Ora ciò che non appartiene
al bello, si trova nell’ambito del male. Se il contenente, come si è
detto, è più grande del contenuto, chi pensa a Dio come a una sostanza
circoscritta da limiti, lo mette tra le realtà dominate dal male. Ma
questo è assurdo. Dio, non può quindi essere racchiuso in una nozione
intellettuale.
L’Essere la cui natura è
senza limiti sfugge a ogni presa dell’intelligenza. Ogni desiderio
rivolto verso questa Bellezza infinita ci spinge a salire continuamente
verso la sua ricerca.
Non può esistere un termine al desiderio di conoscere Dio
Vedere Dio realmente
significa non trovare mai nessun appagamento al desiderio che abbiamo di
lui. Il desiderio, prendendo le mosse da ciò che di Dio possiamo
conoscere, viene a crescere sempre più.
Si scoprirà allora che non
esiste un termine alla nostra ascesa verso Dio, perché la Bellezza per
essenza non possiede limiti e il desiderio di essa non giungerà mai a
sazietà .
La stabilità nel bene è una corsa verso Dio
Che cosa intende la
Scrittura quando parla di un luogo che c’è presso Dio? Cos’è quella
roccia e la sua cavità ? che significa la mano di Dio stesa sopra
l’apertura della roccia?
Che vuol dire il passaggio di Dio? Cos’è il dorso di cui Dio parla a Mosè, quando questi chiede di mostrargli il suo volto?
Questa teofania è da Mosè,
grande servitore di Dio, giudicata più importante di quelle che ebbe in
precedenza. Perciò dobbiamo ritenere importanti anche tutte queste
precisazioni, che contengono un dono degno della munificenza divina.
Cos’è allora questa cima
di cui ci parla il testo sacro e sulla quale Mosè, dopo molto cammino,
desidera salire? Colui che tutto fa cooperare al bene di chi lo ama (Rm
8, 28) sarà guida di Mosè verso la vetta. Ecco gli dice un luogo
presso di me. L’interpretazione che daremo di questo passo non sarà in
contrasto con ciò che abbiamo spiegato prima.
Parlando di un luogo, Dio
non intende assegnare limiti a ciò che formerà l’oggetto della visione
(l’Essere privo di quantità è infatti immensurabile), ma vuole soltanto
proporre a colui che l’ascolta un’analogia presa dagli esseri che hanno
una figura, per presentargli l’Essere infinito e illimitato.
Questo appunto sembra dire
a Mosè il testo sacro: «O Mosè, visto che il tuo desiderio cresce
sempre più e tu non conosci soste nella corsa e, pur non giungendo mai a
toccare i confini del bene, miri sempre al meglio, eccoti presso di me
un luogo, correndo nel quale non potrai arrestarti».
Questa corsa, sotto altro
aspetto, equivale a stabilità . Dice infatti il Signore: «Ti stabilirò
sulla roccia». Pare incredibile che l’identica realtà sia insieme
stabilità e movimento, poiché chi sale non rimane fermo, e chi sta fermo
non sale. Qui invece il salire si attua restando fermi, e c’è una
ragione: più uno rimane fermo e immobile nel bene, più corre verso la
virtù. Non potrà mai correre alle cime della virtù colui che scivola
facilmente, è poco stabile di mente, indeciso nel bene, va fluttuando e
vagando, come dice l’Apostolo (Ef 4, 14), si lascia dominare dal
dubbio e passa da un’opinione all’altra riguardo a questo o quel
problema.
Egli assomiglia a chi nel
camminare su un pendio sabbioso, si sforza di moltiplicare i passi, ma
scivola di continuo e pur mettendo ogni impegno, non realizza il benché
minimo progresso.
Ma quando uno, come dice
il salmo (Sal 39, 13) ritrae i piedi dal fondo dell’abisso e li pone
sulla roccia, che è il Cristo, virtù perfettissima (1 Cor 10, 5), allora
quanto più egli sta fermo e immutabile nel bene, conforme al consiglio
di Paolo (1 Cor 15, 58) tanto più accelera la corsa, come se nella
stabilità nel bene, egli sia fornito di ali che sollevano a volo il suo
cuore verso gli spazi celesti74.
La ricompensa celeste
Dio, dopo aver mostrato a
Mosè il luogo, lo incoraggia alla corsa e, comandandogli di fermarsi
sulla roccia, gli rivela in che modo si svolgerà questa corsa divina.
Il grande Apostolo ha
opportunamente spiegato che cosa rappresenta il rifugio nella roccia,
chiamata dal sacro testo apertura, quando dice che una dimora, non
fatta da mano d’uomo, è riservata nei cieli a coloro che, sorretti dalla
speranza, hanno lasciato il tabernacolo terreno (2 Cor 5, 1).
Chi, secondo le
espressioni dell’Apostolo, ha portato a termine la corsa (2 Tm 4, 7)
nello stadio ampio e spazioso che la voce divina chiama luogo, e ha
tenuto saldi i suoi piedi sulla roccia, cioè, secondo il senso
spirituale di questo passo, ha conservato la fede, sarà ricompensato
con la corona di giustizia (2 Tm 4, 7), per mano di chi presiede la
corsa.
Questo premio è dalla
Scrittura chiamato con diversi termini. Il rifugio della pietra, qui
nominato, viene indicato in altri passi con le espressioni: paradiso di
delizie, tabernacolo eterno, dimora presso il Padre, seno dei
patriarchi, dimora dei viventi, acqua di letizia, Gerusalemme celeste,
Regno dei cieli, premio della vocazione e corona di grazia, di letizia,
di bellezza, torre fortificata, luogo glorioso e tabernacolo segreto.
Diciamo dunque che
l’entrata di Mosè nella roccia ha il medesimo significato di queste
espressioni. Poiché Cristo è la roccia, secondo le parole di Paolo, noi
crediamo che in lui è la speranza di ogni bene (1 Cor 10, 5) e in lui
sono tutti i tesori di bontà .
Chi dunque giunge a possedere qualche bene, indubbiamente si trova nel Cristo, il quale possiede ogni bene (1 Cor 3, 3).
SEGUIRE DIO
Mosè, giunto nella cavità della roccia, viene ricoperto dalla mano di Dio, come afferma la Scrittura.
Mano di Dio è la Potenza
che ha creato il mondo, l’Unigenito Figlio di Dio, per mezzo del quale
ogni cosa fu fatta (Gv 1, 2). Egli è il luogo per coloro che corrono,
la pista ove si svolge la corsa, come lui stesso ebbe a dire (Gv 14,
16).
Ma è diventato anche la roccia per quelli che si mantengono costanti nel bene e la casa per coloro che abbisognano di riposo.
Mosè sente la voce di chi
lo chiama e si mette al suo seguito; si muove dietro al Signore, come
comanda la legge. Anche il grande Davide udì e comprese queste cose.
Parlando a colui che gode
l’aiuto dell’Altissimo dice: «Egli ti coprirà con l’ombra delle sue ali»
(Sal 90, 4). Lo stesso Davide in un altro passo va gridando a se
stesso: «La mia anima è legata dietro di te e la tua destra mi
sorregge». Queste parole del salmo hanno il medesimo significato di
quelle udite da Mosè. Vedere il dorso del Signore significa appunto
seguirlo.
Nel racconto si afferma
che la mano del Signore viene a posarsi su Mosè, in attesa nella cavitÃ
della pietra che lo si chiami e gli si chieda di seguirlo.
Anche il salmo citato dice
che la destra di Dio sorregge colui che vi si attacca. Né il Signore,
rivelatosi Mosè, osservante della legge, si esprime diversamente coi
suoi discepoli, dando a essi la spiegazione delle cose che erano state
dette in figura: «Se uno vuoi venire dietro di me...» (Lc 9, 23). Egli
non dice: davanti a me.
Egli propose il medesimo
invito a quei tale che lo interrogò intorno ai modo di possedere la vita
eterna. Gli dice infatti: «Vieni, seguimi» (Lc 18, 22). Ora colui che
segue va dietro le spalle.
Mosè dunque, ansioso di
vedere Dio, viene a sapere che ciò gli sarà possibile a condizione di
andare dietro a Dio ovunque voglia condurlo e questo è vedere Dio.
Il passaggio di Dio va
inteso nel senso che Dio fa da guida a chi lo segue. Chi non conosce una
strada, non può percorrerla con sicurezza, senza seguire una guida.
Ogni guida, mettendosi davanti, mostra la strada a chi le vien dietro e
questi, stando al seguito della guida, non sbaglierà direzione.
Ma se uno guarda a
sinistra o a destra o in faccia alla guida, percorrerà un cammino
sbagliato. Perciò Dio dice a Mosè: tu non vedrai la mia faccia. Non
guardare in faccia chi ti guida, perché altrimenti camminerai in
direzione contraria.
Il bene non si mette in
opposizione con sé stesso, ma si fa compagno di un altro bene. È il
vizio che corre in direzione contraria alla virtù, ma la virtù non si
oppone mai a sé stessa. Per questo motivo Mosè non guarda Dio in
faccia, ma sul dorso. La Scrittura attesta infatti: «Nessuno vedrà la
faccia del Signore e vivrà ».
Se consideri che Mosè è
fatto degno della grazia di questo invito verso il termine della vita,
quando era asceso tanto in alto e aveva avuto teofanie gloriose e
terribili, capirai quanto sia importante andare dietro a Dio. Mosè
seguendo il Signore, non incontra più davanti a sé nessun ostacolo di
peccato.
AL DI LÀ DELLE PASSIONI
I danni dell’invidia
Dopo questi fatti, i suoi
fratelli ebbero invidia di lui. L’invidia è una passione violenta, fonte
di morte, prima apparizione del peccato, radice del male, generatrice
di dolore, madre di ogni disgrazia, causa di disobbedienza, inizio di
vergogna.
Fu l’invidia che ci
scacciò dal paradiso, trasformandosi in serpente ai danni di Eva. Essa
ci allontanò dall’albero della vita e, dopo averci spogliati delle
sacre vesti, ci ridusse alla vergogna delle foglie di fico75.
L’invidia, violentando la
natura, armò la mano di Caino. Fu essa a suggerire di uccidere sette
persone per vendicare la morte di una sola. L’invidia fece Giuseppe
schiavo. Essa è pungolo mortale, arma nascosta, malattia della natura,
dardo avvelenato, distruzione volontaria, dolorosa ferita, chiodo
dell’anima76,
fuoco interiore, fiamma che arde nelle viscere. Per essa costituisce
disgrazia non il proprio male, ma il bene altrui, costituisce successo
non il proprio bene, ma il male degli altri.
È invidia rattristarci
delle prosperità altrui e macchinare contro la loro fortuna. Dicono che
gli avvoltoi siano uccisi dal lezzo dei cadaveri di cui si cibano e si
trovino a loro agio nel marciume. Anche chi è posseduto da questa
malattia si sente nauseato del benessere dei suoi vicini come per un
cattivo odore e quando s’accorge che, per qualche disgrazia, essi sono
nella sofferenza, si precipita a volo sopra di essa, per frugare col
becco fin nel suo fondo
Molti, anche prima di
Mosè, furono vittime dell’invidia, ma quando essa volle gettarsi contro
questo grande, si infranse come vaso di terracotta scagliato contro
una pietra.
In lui soprattutto si
riconobbe quanto è grande il vantaggio di chi sta dietro al Signore,
conduce la corsa nel luogo divino eppure sta fermo sulla roccia,
trovandosi così difeso e protetto dalla mano di Dio.
Mosè, venendo dietro ai passi della sua guida, ne vede il dorso non la faccia. Se il dardo dell’invidia non riesce a raggiungerlo77, ciò significa che egli ha raggiunto la felicità , andando dietro al Signore.
Anche se l’invidia lancia contro di lui le sue
frecce, egli si trova troppo in alto perché esse possano colpirlo. La
malignità altrui fu come la corda di un arco, ma troppo sottile e
debole per giungere a contaminare anche lui della medesima malattia.
Aronne e Maria subirono
invece le ferite dell’invidia e si misero a scagliare contro di lui
parole ostili, ma egli rimase tanto immune da quella malattia che poté
curarne le vittime. Poiché non si lasciò impressionare dall’animositÃ
dei suoi avversari, ma supplicò il Signore in loro favore, egli ci
mostra che l’uomo difeso dallo scudo della virtù, non può più essere
ferito da colpi di lance.
La punta della lancia
finisce per piegarsi quando viene a incontrare questo scudo resistente,
che è Dio stesso. Di esso si riveste il combattente della virtù e da
esso è difeso contro i colpi delle lance.
Dice la Scrittura:
«Rivestitevi del Signore Gesù Cristo» (Rm 13, 14), ossia di quella
forte armatura di cui si cinse Mosè per rendere impotente l’arciere
malvagio. Quelli che volevano farlo soffrire con gli assalti
dell’invidia neppure riuscirono a sfiorano.
Ma egli non fu dimentico
dei doveri di giustizia impostigli dai legami di natura e supplicò Dio
in favore dei suoi fratelli, che già erano stati giustamente
condannati.
Ciò non avrebbe potuto
fare, se non si fosse messo dietro a Dio, che gli mostrava il suo dorso
per guidano con sicurezza nella via della virtù.
IL SERPENTE DI BRONZO
La penitenza
Nella marcia attraverso il
deserto, il popolo si trova nuovamente angustiato dalla sete e dispera
di poter raggiungere i beni promessi. Ma ancora una volta Mosè procura
l’acqua, facendola scaturire da una roccia del deserto.
Questo passo, interpretato in senso spirituale, può darci utili insegnamenti intorno al sacramento della penitenza78.
Coloro che hanno gustato
la roccia una prima volta, ma si sono poi rivolti al ventre, alla carne e
ai piaceri d’Egitto, castigano se stessi, privandosi di questi beni.
Pentendosi, essi possono ancora ritrovare la Roccia da cui si sono
allontanati e accorrere alla vena d’acqua scaturita a sollievo di coloro
che hanno creduto più corrispondente al vero la relazione di Giosuè e
non quella degli altri. Essi, fissando gli sguardi sul grappolo appeso
al legno da cui gronda il sangue della nostra salvezza, hanno ottenuto
che l’acqua ritornasse a zampillare dalla roccia, colpita dal legno79.
La croce rimedio contro le passioni
Il popolo, ancora non
avendo appreso a stare al passo con la grandezza di Mosè, si lascia di
nuovo trascinare dai desideri del tempo della schiavitù e attirare dalla
nostalgia dei piaceri d’Egitto.
Pare che qui il racconto
voglia insegnarci la forte propensione dell’umana natura verso la
passione. Essa è una malattia che può colpirci in moltissime forme.
Mosè riesce a impedire che essa, prendendo piede sempre più, diventi
malattia mortale. Egli fa come il medico quando s’accorge che il male
si è aggravato.
Allorché i serpenti
incominciarono a mordere molti del popolo, iniettando mortali veleni a
castigo dei loro desideri smoderati, il grande Legislatore riuscì a
neutralizzare i funesti effetti causati dai rettili, servendosi della
figura del serpente.
È bene spiegare con
chiarezza il simbolismo di questa figura. L’unica forza capace di,
distaccarci da passioni simili a quelle che agitarono gli Ebrei, è il
mistero della religione da cui proviene la purificazione delle nostre
anime.
È di fondamentale
importanza, nel mistero della fede, guardare alla Passione di Colui che
per noi ha accettato di soffrire. La Passione è la Croce nella quale
chi fissa gli sguardi, non prova su di sé gli effetti dannosi del
veleno, simbolo dei desideri passionali: così appunto ci ammaestra la
Scrittura.
Guardare alla Croce
significa condurre una vita morta al mondo, non prona al peccato così
che la nostra carne, come dice il Profeta, sia immobilizzata dai chiodi
del timore di Dio (Gal 6, 14; Sal 118, 120).
È la penitenza il chiodo
che tiene ferma la carne. La legge, consapevole che i desideri
smoderati fanno uscire dalla terra serpenti mortiferi (ogni effetto
derivante da un desiderio cattivo è come un serpente), ci comanda di
volgere gli sguardi a Colui che si mostra sul legno. È lui la figura del
serpente, secondo le parole del grande Paolo: «A somiglianza della
carne di peccato» (Rm 8, 3).
Il vero serpente è il
peccato e chiunque si dà al peccato assume la natura di serpente. Ma
l’uomo viene liberato dal peccato per merito di Colui che ne ha assunto
l’immagine. Egli si è fatto simile a noi, che ci siamo rivolti
all’immagine del serpente.
È lui che arresta la morte
prodotta dai morsi velenosi ma lascia in vita i rettili che l’hanno
causata. Essi rappresentano i desideri delle passioni.
Chi guarda alla Croce non è
più soggetto alla morte e tuttavia i desideri della carne contrari a
quelli dello spirito non vengono totalmente eliminati in lui (Gal 5,
17). Tali desideri continuano a mordere i fedeli. Ognuno però, se guarda
a colui che è stato innalzato sopra il legno, può tener lontana la
passione e rendere innocuo il veleno, attraverso il timore del precetto
che opera al pari di un farmaco. Le parole dei Signore insegnano
chiaramente che il serpente innalzato nel deserto è simbolo del
mistero della Croce: «Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così
occorre che sia innalzato il Figlio dell’uomo» (Gv 3, 14).
L’ORGOGLIO
Il peccato, seguendo la
logica del male, si moltiplica in un concatenamento ininterrotto di
cause ed effetti e obbliga il legislatore a fare come il medico che
adatta la cura alla violenza della malattia.
Il nemico, ricco di
inventiva quando si tratta di procurare la nostra rovina, visti
neutralizzati i morsi dei serpenti in coloro che innalzavano gli
sguardi verso l’immagine del serpente (già ne abbiamo spiegato il
simbolismo), viene escogitando un altro metodo per trascinare al
peccato.
Il fatto si ripete
oggigiorno nei riguardi di molti. Ci sono persone che, per il fatto di
condurre una vita morigerata e mortificata riguardo ai desideri delle
passioni, prendono l’iniziativa di entrare nel sacerdozio, usando
intrighi e maneggi che dimostrano un orgoglio contrario ai piani
salvifici di Dio.
Colui che la Scrittura
definisce autore delle disgrazie degli uomini, è anche autore di questo
genere di peccati. Quegli uomini prima ribelli, quando videro che la
terra aveva cessato di produrre serpenti per merito della fede in colui
che fu innalzato sopra il legno, credettero di essere diventati
invulnerabili ai morsi velenosi.
Invece, scomparsa la passione della concupiscenza, comparve in loro il malanno della superbia80.
Quelli che non furono
inghiottiti dalla terra, vennero inceneriti dai fulmini. Qui la
Scrittura ci insegna che, se sappiamo scendere sotto terra, la superbia
non crescerà dentro di noi.
Basandoci su questi fatti
potremmo, non senza ragione, definire la superbia una salita verso il
basso. Non meravigliarti se ti senti portato ad averne l’idea che ne
hanno molti, i quali ritengono che il termine superbia indichi
superiorità sugli altri. I fatti della vita di Mosè sembrano invece
confermare la definizione data da noi.
Quelli che si erano
innalzati al di sopra degli altri, finirono sotto terra, dentro la
spaccatura che si era aperta per inghiottirli. Non va dunque rigettata
la definizione della superbia come di una caduta in profondità .
Attraverso questi fatti, Mosè ci insegna a essere umili, a non vantarci
di ciò che facciamo ma vivere in buone disposizioni di spirito l’attimo
presente.
Chi si è liberato dalla
sensualità , può correre il rischio di cadere in un altro genere di
passioni. Ogni passione in quanto tale è una caduta e se varie sono le
passioni, identica è la caduta.
C’è chi cade, lasciandosi
andare sulla china del piacere e c’è chi viene buttato a terra dalla
superbia. Non è saggio scegliere tra l’una o l’altra caduta, poiché
tutte in quanto tali vanno fuggite.
Se perciò vedessi qualcuno
che si crede superiore agli altri perché si è liberato dalle cadute
nella sensualità e perciò accede al sacerdozio, riconosci pure in lui
uno che, per la sua superbia, va a finire sotto terra.
IL VERO SACERDOZIO
Nei fatti successivi la
legge ci insegna che il sacerdozio è cosa divina, non umana. Mosè fa
mettere delle verghe davanti all’altare e incide su ciascuna il nome
delle rispettive tribù.
Una delle verghe, per
intervento miracoloso, dimostrò che era stato Dio a scegliere il Sommo
Sacerdote. Le altre infatti rimasero quali erano ma quella del Sommo
Sacerdote miracolosamente mise da sé radici e sbocciò in rami e frutti,
non già per effetto di rugiada scesa dall’alto ma per una forza divina,
che portò il frutto a maturazione. Messi davanti a questo portento, i
sudditi appresero a vivere in buon ordine.
Il frutto prodotto dalla
verga di Aronne ci fa pensare ai caratteri che deve avere la vita del
sacerdote. Essa deve apparire austera, dura e scabra all’esterno ma
possedere internamente, nel segreto e nell’oscurità , un cibo saporoso.
Questo cibo viene portato alla luce quando ha raggiunto, col tempo, la
maturazione e allora si rompe l’involucro legnoso che lo racchiude.
Se tu venissi a sapere di
qualche sacerdote che conduce una vita agiata, usa profumi, ha una
carnagione rosea, come quella delle persone che vestono di lino e di
porpora, ingrassa in continui banchetti, beve vino di qualità , si unge
con unguenti finissimi e si circonda di tutte le comodità care ai
gaudenti, a buon diritto potrai ripetere nei suoi riguardi le parole
del Vangelo: «Se guardo il frutto, non riconosco l’albero sacerdotale».
Il frutto del sacerdozio è l’austerità , non la spensieratezza e il
frutto dell’austerità non giunge a maturazione in virtù dell’umiditÃ
naturale del terreno. Le soddisfazioni del sacerdote dalla vita
spensierata scorrono in lui come ruscelli, che un giorno tingeranno di
rosso il raccolto della sua vita.
LA STRADA REGALE
I sudditi di Mosè, liberi
ormai dalla, superbia, passano in mezzo a popolazioni che vivono in
maniera estranea alla loro. La legge li precede sulla via regale81, senza farli deviare né a destra né a sinistra.
Non è infatti infrequente
che il viandante imbocchi strade sbagliate. Come chi, percorrendo un
sentiero che passi in mezzo a due precipizi sabbiosi, si trova nel
pericolo di uscire fuori dal mezzo e precipitare nel baratro se devia
verso destra o verso sinistra, così la legge esige che si vada dietro a
lei e non ci si sposti o a destra o a sinistra per non abbandonare la
strada veramente stretta e angusta, di cui parla il Signore (Mt 4, 25).
Il comando della legge
indica che la virtù deve essere concepita come un bene situato nel
mezzo, perché il male deriva appunto o da un difetto o da un eccesso di
virtù.
Così la timidità è mancanza di coraggio, mentre la tracotanza è un coraggio eccessivo82.
Nel mezzo tra questi due difetti opposti sta la virtù. Lo stesso vale
di tutte quelle altre virtù per mezzo delle quali si attua il bene:
esse stanno in mezzo tra due mali opposti.
La sapienza sta fra la
scaltrezza e la semplicità . Se non è da lodare l’astuzia del serpente,
neppure lo è la semplicità della colomba, quando queste qualità siano
prese separatamente ma se le uniamo insieme, esse formano una forte
virtù.
Chi è intemperante manca
di saggezza ma chi esagera nella temperanza ha una coscienza malata,
come dice l’Apostolo (1 Tm 4, 2). L’uno si abbandona senza ritegno ai
piaceri, l’altro disprezza il matrimonio quasi fosse un adulterio. La
fusione di questi due estremi costituisce la saggezza. Tutto ciò che si
oppone alla virtù è male e non interessa quelli che seguono la legge
poiché, come dice il Signore, questo mondo è tutto posto nel maligno (1
Gv 5, 19).
Chi in questa vita
percorre la strada della virtù, riuscirà sicuramente a portare a termine
il suo viaggio, se saprà mantenersi sulla strada regale che è la
strada pulita della virtù e non devierà verso le strade informi del
male, che s’aprono su ambedue i suoi lati.
LA MAGIA DELLE PASSIONI
La strategia del demonio
Già s’è detto che l’ascesa
alla virtù è molestata dagli attacchi del nemico il quale escogita di
volta in volta i mezzi più adatti a spingere i singoli al male.
Vedendo egli il popolo
d’Israele molto avanti sulla strada che porta a Dio, imita i migliori
strateghi e porta l’attacco su un altro fronte. Gli strateghi infatti,
quando giudicano impossibile travolgere con un attacco frontale lo
schieramento compatto dei nemici, fanno ricorso all’assalto di piccole
pattuglie e alle imboscate.
Il grande stratega del
male si comporta allo stesso modo, non attaccando direttamente coloro
che la virtù e la legge hanno resi forti ma assalendoli dì nascosto con
imboscate.
Le arti magiche
Egli si serve della magia
per combattere i suoi oppositori. Un certo augure e indovino aveva il
potere, secondo il racconto, di procurare la rovina ai nemici mediante
l’aiuto del demonio. Costui fu pagato dal re dei Madianiti per lanciare
maledizioni contro quelli che Dio proteggeva ma cambiò le maledizioni
in benedizioni.
Già sappiamo
dall’esposizione storica fatta all’inizio, che la magia nulla può
contro chi pratica la virtù, poiché l’aiuto divino ci rende sicuri
contro ogni assalto.
Il racconto ci assicura
che il menzionato indovino esercitava la divinazione. Dice infatti che
maneggiava i responsi e prendeva consiglio dal volo degli uccelli. In
precedenza ci aveva informato che la voce del suo asino gli fece sapere
ciò che aveva interesse di sapere.
La Scrittura ci attesta
che in quella circostanza la voce dell’asino si espresse in suoni
articolati, mentre normalmente l’indovino prendeva i suoi oracoli dal
verso degli animali, in forza di un intervento demoniaco.
La Scrittura ci mostra
anche come le persone soggiogate da questo inganno del demonio,
giungano ad accogliere come insegnamento della ragione la voce delle
bestie.
L’indovino, disposto ad
accettare un insegnamento del genere, venne a sapere per mezzo delle
stesse pratiche ingannatrici di cui era vittima, che il popolo d’Israele
non avrebbe potuto essere vinto, nonostante i denari che egli aveva
ricevuto per maledirlo.
Sappiamo dal Vangelo che un’intera massa di demoni si oppone alla potenza di Cristo. Essa infatti è chiamata legione.
Dicono i demoni: «Sappiamo
che tu sei il Santo di Dio, venuto anzitempo a castigarci» (Mt 5, 9).
Ciò avvenne anche quando il demonio, operando per mezzo di Balaam, gli
fece sapere che il popolo ebreo era imbattibile e inattaccabile.
Da parte nostra,
applicando a questi fatti il metodo di interpretazione fin qui seguito,
affermiamo che nessuna maledizione, pronunciata contro le persone
virtuose, può recare a loro danno o sofferenza. L’insulto o l’oltraggio
non hanno la forza di turbare i seguaci della virtù.
Così l’accusa di cupidità ,
non può essere un insulto per chi non possiede nulla. Non è possibile
rimproverare di dissolutezza chi vive da anacoreta. Il mite non può
essere accusato di irascibilità né l’umile di superbia.
Coloro che sono conosciuti come persone contrarie a ogni azione biasimevole, potranno mai essere accusati di cose biasimevoli?
Essi mirano a non offrire
motivo di biasimo nella loro vita affinché, come dice l’Apostolo,
«siano confusi i nostri avversari, non avendo da dire di noi nessun
male».
Perciò l’indovino che era
stato assoldato per maledire, risponde: «Come maledirò colui che Dio
non maledisse? Come insulterò chi non dà motivo a insulti e, guardando a
Dio, ha reso la sua vita invulnerabile al peccato?».
LE FIGLIE DI MOAB
La malattia della sensualitÃ
L’inventore del male,
visto fallire questo piano, non desistette di molestare quelli che
voleva assalire. Portò allora le sue macchinazioni su un terreno che
gli è proprio e di nuovo trascinò gli uomini al peccato, servendosi del
piacere sensuale.
Il piacere è veramente la
pastura di ogni vizio. Esso, presentandosi sotto un aspetto attraente,
trascina le anime più sensuali all’amo della morte. La natura corre
verso questo male in maniera davvero irrefrenabile, ed è ciò che avvenne
anche al tempo di Mosè.
Il piacere giunse,
servendosi delle donne, a ferire con i suoi strali coloro che si erano
dimostrati tanto validi nelle armi da ridurre all’impotenza nemici
armati di ferro. Essi li volsero in fuga ma, come furono forti con gli
uomini, altrettanto divennero deboli con le donne. Colpiti non dalle
loro armi ma dalla loro avvenenza, le presero con sé e, dimentichi del
valore e della forza che avevano acquistato, tutto dissiparono nel
piacere. Quelle unioni illegittime con donne straniere provocarono il
giusto risentimento degli altri. Mettendosi a contatto con il male
quelle persone avevano perso l’appoggio del bene. Così Dio si adirò
contro di loro ma Finees, acceso di zelo, non attese che il Signore
decidesse come togliere di mezzo quel peccato. Di sua iniziativa divenne
insieme giudice ed esecutore.
Egli, nell’ira contro gli
impudichi travolti dalla fiamma della passione, esegui l’opera
sacerdotale di purificazione del peccato non con il sangue di animali,
cui non si poteva addossare la colpa di incontinenza, ma con il sangue
di coloro che avevano fatto il male, unendosi a donne straniere.
La lancia che trafisse i
loro corpi, trovati avvinti l’uno all’altro, fu lo strumento
d’attuazione della giustizia di Dio; esso procurò loro la morte, nel
momento stesso in cui si abbandonavano al piacere.
Mi pare che il racconto
offra qui un utile insegnamento a tutti, ammonendoci che tra le molte
passioni ostili allo spirito, nessuna ha maggior forza di quella che
provoca in noi la malattia del piacere.
Questo fatto per cui gli
Israeliti sono resi schiavi da donne straniere (essi che pure avevano
avuto il sopravvento sulla cavalleria egiziana, avevano vinto gli
Amaleciti, erano apparsi terribili ai popoli vicini, avevano sbaragliato
l’esercito dei Madianiti), non dimostra forse la difficoltà di
combattere tale passione, che si presenta come il nostro nemico più
difficile da domare?
Il piacere, divenuto
padrone di uomini che le armi non erano riuscite a sottomettere, va
agitando davanti a loro il trofeo del disonore e porta a conoscenza di
tutti la loro infamia.
Insolenza del vizio
Esso riduce gli uomini
come bruti, dominandoli con l’istinto animalesco e irrazionale
dell’incontinenza e facendo loro dimenticare di essere uomini. Senza
preoccuparsi di tener nascoste le loro sacrileghe profanazioni, essi
giungono a vantarsi di azioni disonorevoli, avvoltolandosi come porci
nel fango dell’impurità apertamente, sotto gli occhi gli uni degli
altri.
Tanta è la forza che ha la
malattia del piacere di trascinarci al male, che dobbiamo stare attenti
affinché non entri in noi da nessuna parte.
Il piacere è come un fuoco
che comunica le sue fiamme devastatrici a quanto gli è vicino. Ce lo
insegna Salomone nella Sapienza quando ci avverte di non mettere il
piede nudo vicino a un carbone acceso e di non porre fuoco nel seno.
Se resteremo lontani da
quanto fa divampare il fuoco, potremo godere perfetta quiete (Pro 6,
27). Se invece ci avvicineremo a questo calore avvampante fino a
toccano, allora si accenderà in noi il fuoco del desiderio, che
comunicherà al piede e al seno le sue fiamme scottanti.
Il Signore nel Vangelo,
per tenerci lontani da questo male, volle che stroncassimo alla radice
il desiderio passionale, avvertendoci che la malattia della sensualitÃ
penetra in noi attraverso gli sguardi colpevoli (Mt 5, 19).
Le impressioni cattive
infatti, una volta che abbiano preso possesso dei punti chiave del
nostro essere, sono come una peste che soltanto la morte può far
cessare.
LA PERFEZIONE È NEL PROGRESSO
Credo che non occorra
prolungare il nostro discorso, ora che abbiamo esposto al lettore tutta
la vita di Mosè come esempio di virtù.
Ciò che abbiamo detto
costituirà un aiuto non indifferente per chi aspira alla vera saggezza
in una vita spirituale. Ma chi per pigrizia si arresta davanti alle
fatiche della virtù, non troverà giovamento nelle molte cose di cui
abbiamo discorso e tanto meno in quelle che potremmo aggiungere.
Ma perché non ci si
dimentichi che nessun limite circoscrive la vita perfetta e ne può
arrestare il progresso (questo concetto fu ribadito con forza nella
prefazione), sarà utile, al termine del nostro discorso sulla vita di
Mosè, mostrare che la definizione della virtù da noi data, ha un
fondamento sicuro.
Quando nacque Mosè, il
fatto di avere genitori ebrei era considerato un delitto. Sottratto alle
imposizioni di un decreto tirannico che lo condannava a morte, egli fu
salvato prima dai suoi genitori, poi dagli autori stessi di quel
decreto.
Costoro, che pure avevano
voluto la sua morte, si preoccuparono di allevarlo e dargli
un’educazione raffinata, facendolo istruire in ogni ramo del sapere.
Cresciuto che fu, non tenne in alcun conto gli onori umani e la stessa
dignità regale, perché sapeva che custodire la virtù significa
possedere una forza e una dignità più valida e più degna di qualsiasi
guardia del corpo e di qualsiasi pompa regale. Qualche tempo dopo, egli
salvò un suo compatriota, assalendo l’egiziano con un colpo mortale.
Noi, che facciamo
un’esegesi spirituale, abbiamo visto simboleggiato nell’egiziano il
nemico della nostra anima. Mosè invece, è il simbolo di chi ci è amico.
Prima che la luce
sfavillante dal cespuglio giunga a riempire lo spirito di Mosè, egli
apprenderà altissimi insegnamenti nel silenzio del deserto. Poi si darÃ
pensiero di far conoscere ai suoi compatrioti le cose meravigliose che
Dio aveva operato in suo favore. In quell’epoca della sua vita per due
volte diede prova di poteri straordinari, dapprima combattendo i nemici
attraverso molteplici castighi, poi beneficiando i compatrioti.
Non avendo a disposizione
per la traversata del mare una flotta di navi, fece in modo che il
popolo lo attraversasse a piedi, sostituendo alle navi la fede che
aveva saputo infondere in loro.
Rese allora asciutto il
fondo del mare, perché gli Ebrei potessero attraversarlo. Fu lui che
fece ritornare le acque del mare come erano prima, per annegarvi gli
Egiziani e allora intonò l’inno di vittoria. Poi lo guidò una colonna
di nube e lo illuminò un fuoco celeste. Provvide ai suoi un cibo disceso
dal cielo, fece scaturire dalla pietra acqua abbondante, vinse gli
Amaleciti col semplice gesto di stendere le mani. Salito il monte, si
spinse dentro la nube e udì il suono delle trombe.
Si accostò a Dio, penetrò
nel tabernacolo celeste, corresse con la legge i costumi del popolo,
vinse le più dure battaglie, come si è detto. Quando le sue imprese
volgevano alla fine, fece castigare l’incontinenza per mezzo del
sacerdozio; questo appunto significa la vendetta di Finees contro gli
incontinenti.
Dopo tutto ciò, salì al
monte del suo ultimo riposo. Egli non metterà piede nella terra
promessa, che si stendeva davanti ai suoi sguardi e a quelli di tutto il
popolo. Avendo avuto come alimento il cibo del cielo, non toccò più
cibo terreno e, giunto in cima al monte, non volle mettere una corona
alla statua della propria vita83,
intorno alla quale si era affaticato come abile scultore. Di lui dice
la Scrittura: «Mosè, servo di Dio, morì per volere di Dio». Nessuno
conobbe il suo sepolcro, i suoi occhi non si offuscarono né il suo
volto si deturpò.
IL SERVO DI DIO
Così sappiamo che egli fu
ritenuto degno, per le sue azioni, di essere chiamato servo di Dio,
titolo di grandissimo onore che dimostra come si sia innalzato al di
sopra di tutto ciò che è nel mondo.
Nessuno infatti potrebbe
servire Dio, se non si innalza al di sopra di tutto ciò che è nel mondo.
Il termine della sua vita, fissato da Dio, è chiamato dalla Scrittura
col nome di morte, ma si trattò di una morte vivente perché a essa non
seguì sepoltura, per essa non si innalzò un monumento funebre, essa
non assomigliò a quella che fa chiudere gli occhi per sempre e deturpa
il volto. Da ciò dobbiamo apprendere a considerare come unico fine
della vita quello di meritare, attraverso le nostre opere, il titolo di
servi di Dio.
Quando tu, sgominati tutti
i nemici: l’egiziano, l’amalecita, l’idumeo, il madianita, avrai
attraversato il mare e sarai stato illuminato dalla nube e addolcito
dal legno; quando, bevuta l’acqua sgorgante dalla pietra, avrai gustato
il cibo che scende dall’alto e con purità e innocenza ti sarai
apprestato a salire il monte e là giunto avrai sentito suonare le trombe
del divino mistero e, dopo esserti avvicinato a Dio nella densa
caligine della fede, ti saranno stati rivelati i misteri del
tabernacolo e la dignità del sacerdozio, quando avrai preparato il tuo
cuore come fa il tagliapietre così che Dio vi possa incidere le sue
parole, quando avrai distrutto l’idolo d’oro, eliminando dalla tua vita
la passione dell’avarizia84
e ti sarai portato tanto in alto che la magia di Balaam non potrÃ
raggiungerti (sentendo parlare di magia devi intendere i diversi inganni
di questa vita per effetto dei quali gli uomini, come ammaliati dal
filtro di Circe, perdono i caratteri della loro natura e assumono la
figura di animali); quando avrai provato tutto ciò e in te sarà fiorita
la verga del sacerdozio (quella che non assorbe nessun umore dalla
terra onde giungere a fioritura ma produce da sé stessa il frutto di
nocciolo, amaro e aspro all’esterno, dolce e buono di dentro); quando,
eliminato tutto ciò che si oppone alla tua dignità , lo seppellirai come
fu di Datan o lo distruggerai con il fuoco come avvenne di Kore, allora
sarai vicino al termine.
Parlando di termine, io
intendo quella realtà in vista della quale uno agisce. Termine del
lavoro dei campi è in tal senso la raccolta dei frutti, termine della
costruzione della casa è l’abitarvi, termine del commercio è la
ricchezza, termine degli sforzi atletici è la corona. Parimenti il
termine della vita spirituale è giungere a essere chiamati servi1ori di
Dio.
La Scrittura non dice che
Mosè fu messo in una tomba e questo indica la rimozione dalla nostra
vita di ogni impedimento del male. La Scrittura accenna anche a
un’altra caratteristica propria di chi ha servito Dio, cioè che
l’occhio di Mosè non diminuì la propria forza visiva e il suo volto non
subì deturpazioni. Come è possibile infatti che le tenebre avvolgano un
occhio sempre immerso nella luce e perciò ignaro di tenebre?
Colui che in tutta la sua
vita ha cercato le cose che non periscono, non può subire nessuna
deturpazione. Chi è realmente divenuto simile a Dio e mai si è scordato
di lui, non solo porta sopra di sé i tratti della fisionomia di Dio, ma
raggiunge una perfetta somiglianza col suo modello, ottenendo che la
sua anima resti immune da corruzione, da mutamenti e dal dominio del
male.
CONCLUSIONE
O Cesareo, a te, uomo di
Dio, abbiamo sottoposto in un breve discorso ciò che riguarda la
perfezione della virtù, presentandoti Mosè come modello di una vita
così bella affinché, imitandone le azioni, ciascuno riproduca in sé
stesso le linee caratteristiche di questa bellezza, che abbiamo
contemplato.
Che Mosè abbia raggiunto
il più alto grado possibile di perfezione, stanno a dimostrano
inequivocabilmente le parole da Dio a lui rivolte: «Io ti conobbi
prima di tutti gli altri».
Dio stesso lo ha chiamato
amico. Anch’egli avrebbe dovuto morire insieme con gli altri peccatori,
se Dio nella sua benevolenza non si fosse placato; ma fu lui a placare
l’ira del Signore contro gli Israeliti. Dio cambiò proposito, per non
causare dolore a Mosè che gli era amico.
Tutte queste cose e altre
consimili testimoniano chiaramente che Mosè ha raggiunto nella sua
vita la vetta dell’altissimo monte della perfezione.
Con ciò crediamo di aver
attuato il nostro proposito, che mirava a cercare in che cosa consiste
la perfezione della vita secondo virtù.
Procura, o uomo generoso,
di meditare questi insegnamenti, ricavati dai fatti attraverso
un’interpretazione eminentemente spirituale e applicali alla tua vita
personale, perché anche tu possa essere conosciuto da Dio e diventare
suo amico.
Questa appunto è la vera
perfezione: staccarsi dal male non per la servile paura del castigo e
compiere il bene non per la speranza del premio, quasi usando nel
campo della virtù di una mentalità commerciale e affaristica.
Ogni attesa di ricompensa
promessa o sperata deve passare in secondo ordine, così che soltanto la
perdita dell’amicizia di Dio, resti l’unico vero motivo di paura e il
divenire amici suoi sia giudicata la cosa più onorevole e desiderabile.
Se si troveranno in te
queste disposizioni di spirito ora che ti sei innalzato a pensieri più
spirituali e divini, (ben so che esse ci saranno in misura
sovrabbondante), comune sarà il vantaggio che ne verrà , in Cristo
Gesù, al quale gloria e potere nei secoli. Amen!
1 L’interpretazione del soggiorno di Mosè a Madian data qui da Gregorio, deriva dalla Vita di Mosè di Filone (Vita Moysis 1, 9, 46 50), che lo presenta come un periodo di purificazione ascetica.
2 Si tratta di Jetro, sacerdote di Madian. Cf Es 2, 16; 18, 1.
3
Questi elementi della scienza fisica antica relativi alla composizione
delle nubi, sono trattati da Gregorio anche in altre sue opere come
l’Explicatio in Exaemeron (PG 44, 97 D), e i Libri contra Eunomium (PG 45, 344 B 577 A).
4
Il testo biblico (Es 14,22) parla di «muraglia», prodotta dalle acque.
La precisazione che si trattasse di pareti di ghiaccio è un’ovvia
deduzione, già contenuta in Filone, Vita Moysis 1, 32, 177 180.
5
L’espressione significa: una vittoria incruenta, senza spargimento di
sangue. Essa deriva dalla terminologia relativa al martirio nei primi
secoli della Chiesa. Il martirio infatti era un segno di vittoria, ma
intriso del sangue dei martiri.
6
La teofania del Sinai, è qui presentata come un «mistero» nella linea
della interpretazione allegorica alessandrina, che prese le mosse da
Filone (Vita Moysis 3, 3).
7
Questa descrizione dell’esperienza concreta della trascendenza si
trova in altri passi dell’opera di Gregorio, come ad esempio nelle
omelie del commento al libro dell’Ecclesiaste (PG 44, 732 B).
8 Il tema di Mosè mediatore è ripreso dallo stesso Gregorio nel trattato Sulle Iscrizioni dei Salmi (PG 44,457 B C).
Nel
racconto biblico l’allontanamento del popolo e il suo ritorno ai piedi
del monte sono in un primo tempo attribuiti all’iniziativa di Mosè
(Es 19,23), mentre l’attribuzione al popolo dell’iniziativa è
documentata in Es 20,18 21.
9 Per quanto la Bibbia non parli di questo aiuto del demonio, è un tema caro a tutta l’antica esegesi cristiana.
10
È importante notare il ruolo principale che Gregorio assegna alla
libertà nella vita spirituale. Non siamo ormai troppo distanti nel
tempo dall’Epistula ad Demetriadem di Pelagio, che fa dipendere l’adempimento integrale della legge divina dalle sole disposizioni personali dell’uomo.
11 Tutta la pericope della nascita di Mosè e della sua salvezza segue l’interpretazione allegorica filoniana.
12
Gregorio delinea qui, nella figura di Mosè, il ritratto spirituale
del fratello Basilio, come appare dalle pagine dell’elogio di Basilio
(PG 46, 809 A), che usano il medesimo simbolismo.
13
Abbiamo forse un riferimento alle numerose defezioni della fede
avvenute durante la persecuzione di Giuliano l’Apostata (361 363).
14
Tutto il passo allude a situazioni concrete della cristianitÃ
dell’Oriente in quegli anni di turbamenti dottrinali e di violenze
fisiche. L’ideale dell’asceta che vive nella contemplazione, lontano
dal mondo, corrisponde al ritratto di san Basilio dopo gli anni di
Atene, contenuto in una delle lettere di Gregorio (PG 46, 809 C).
15
Abbiamo qui l’eco di temi platonici e stoici intrecciati con le
interpretazioni esegetiche della scuola alessandrina da Filone (De sacrificiis Abelis et Caini, 10, 45) ad Origene (Omelie su Geremia V, 6).
16
Le pelli di animali morti o tuniche di pelle, come vengono chiamate
da Gregorio in altri scritti, rappresentano la natura animale
dell’uomo, venuta in primo piano dopo il peccato originale. Esse hanno
sostituito quel rivestimento di doni soprannaturali che costituiscono
la vera «natura» dell’uomo, quale Dio lo concepì e quale sarà nella
finale resurrezione.
18
Questi accenni derivano probabilmente dal testo biblico, dove il
Signore dice a Mosè: «Vedi io ti ho fatto qual Dio rispetto a Faraone»
(Es 7, 1).
19
L’immagine dell’atleta è la prima espressione letteraria dell’ideale
ascetico cristiano. Essa compare per la prima volta in Clemente
Alessandrino (Pedagogo
1, 8). È ripresa da Gregorio nel commento all’Ecclesiaste (PG 46, 617
c), nel secondo panegirico di santo Stefano protomartire e nella vita
di santa Macrina (PG 46, 913 C).
20 Critica della metempsicosi platonica, già sviluppata lungamente da Gregorio nel De anima et resurrectione (PG 46, 113 B 116 A) e nel trattato De opificio hominis (PG 44, 232 A 233 B).
21
Critica della concezione stoica di Dio, che non è puro spirito ma
materia nella forma più sottile dell’etere igneo. Così appare ad
esempio nel famoso inno a Zeus di Cleante.
22
Critica della dottrina platonica dell’eternità della materia,
affermata nel Filebo e nel Timeo, dialoghi dell’ultimo periodo
dell’attività di Platone.
23 Critica della dottrina stoica dell’eimarmene, catena infrangibile delle cause e degli effetti, che determina il corso delle cose.
24 La dottrina dell’Angelo custode si trova già nel Pastore di Hermas (Visione V, 1 4) e in Origene (De Principiis
II, 10, 7). Quest’ultimo però dubitava che l’Angelo fosse assegnato
subito al momento della nascita, come invece afferma qui Gregorio.
25 La concezione dei «due spiriti» e dei «due Angeli» risale alla speculazione degli Esseni (Manuale di Disciplina
III, 17 26). La si ritrova nel Pastore di Erma e in Origene che le dÃ
ampio sviluppo. Essa tuttavia non ha alcun serio fondamento
scritturistico e tradizionale. Cf S. Weber, De singulorum hominum daemone impugnatore, Roma 1935.
26
Il tema dello specchio, appena accennato in Platone, Plotino,
Origene, prende importanza in Atanasio e diviene centrale in Gregorio,
per il quale esso designa la libertà dell’anima e la sua partecipazione
al mondo divino.
27
Il passo ci ragguaglia circa il metodo esegetico di Gregorio per il
quale l’interpretazione dei particolari di un libro scritturistico
dipende dallo scopo che l’autore si è proposto.
28
Da pochi anni l’Oriente cristiano conosceva la vita di sant’Antonio
scritta da Atanasio, che dava risalto alle tentazioni demoniache nella
vita spirituale.
29
È interessante questa concezione del miracolo offerto come segno ai
credenti e non solo destinato agli increduli come argomento
apologetico.
30 È una tesi plotiniana: ignoranza e peccato sono frutto della mancanza di libertà (Cf Enneadi III, 8, 6; VI, 9, 7).
31 Nell’opera De opificio hominis (PG 44, 192 C D) Gregorio aveva già descritto il contrasto tra l’anima ragionevole e le passioni bestiali presenti nell’uomo.
32 È il grande tema della libertà così caro a Gregorio e trattato da lui tanto spesso (Cf Oratio Cathechetica magna: PG 45, 77 C).
33
È questo uno dei passi in cui Gregorio insegna la salvezza
universale. L’autenticità del testo è certa, anche se un’intera
famiglia di codici sostituisce questo testo con un altro. La dottrina
sostenuta da Origene, fu condannata dal Concilio Costantinopolitano II
del 553.
34 Abbiamo qui un’allusione al mito del cocchiere e dei cavalli descritto da Platone nel Fedro.
L’allegorismo dello stipite e dei due battenti, simbolo delle tre
parti dell’anima, proviene da Filone ed è ripreso da Origene.
35
Anche qui le spine simboleggiano il peccato come in Gn 3,18. Nelle
opere di Gregorio hanno però un vario simbolismo: significano i
peccati (In Psalmorum Inscriptiones: PG 44, 596 C; De beatitudinibus, PG 44, 1257 A), le tentazioni (Commentarium in Canticum, PG 44, 821 C), i demoni (In Psalmorum Inscriptiones, PG 44, 481 B), l’umanità peccatrice (De Instituto christiano, PG 46, 280 B D).
36 Abbiamo qui forse un riferimento a 1 Pt 1, 13.
37
Questa interpretazione è già nella esposizione storica. Si sarebbe
trattato di un recupero per i salari insufficienti dati dagli Egiziani
agli Israeliti. La spiegazione viene da Filone (Vita Moysis 1, 25, 141); è ripresa da Clemente Alessandrino (Stromata
I, 23, 157) e da altri padri anteniceni, come Ireneo e Tertulliano.
Qui Gregorio la sottopone a critica e la sostituisce con
l’interpretazione spirituale.
38
L’allegorismo delle «spoglie degli Egiziani» viene da una lettera di
Origene a S. Gregorio Taumaturgo, un santo ben conosciuto e venerato
nella famiglia di Basilio e di Gregorio, poiché la loro madre Macrina
l’aveva avuto come maestro spirituale (la lettera di Origene si trova
in PG 11, 88 90).
39 È un accenno al catecumenato, tempo di prova, simboleggiato negli Egiziani che inseguono gli ebrei.
41 La traversata del Mar Rosso è eminente figura del Battesimo, sul fondamento di 1 Cor 10,2.
42 Nel simbolismo della prima catechesi l’armata degli Egiziani rappresenta i demoni (cf Cirillo di Gerusalemme, Catechesi mistagogiche,
PG 33, 1068 A). Anche nelle orazioni «De Christi resurrectione»
Gregorio le interpreta in questo senso. Qui invece adotta
l’interpretazione di Filone.
43
Abbiamo qui la completa definizione del battesimo i cui elementi sono:
l’acqua, il legno (la fede), la nube (lo Spirito Santo) e che è in
pari tempo morte e resurrezione.
44 Il simbolismo è anche nel Commentarium in Canticum (PG 46, 831 B). Qui vien posto l’accento sulla conversione che deve accompagnare il battesimo.
45 Questo simbolismo deriva da san Paolo 1 Cor 5,7 8.
46
Nelle acque di Mara la tradizione catechetica vede simboleggiate le
acque del battesimo, come attesta Gregorio un’altra volta nell’omelia Contra usurarios (PG 46, 420 D).
47 È uno dei simbolismi cari alla catechesi primitiva, mentre in Filone (Vita Moysis I, 34) le settanta palme alluderebbero ai settanta popoli del libro del Genesi.
48
È questa una nozione centrale dell’antropologia di Gregorio: la
comunicazione di Dio viene proporzionata alle capacità interiori della
creatura ragionevole.
49 Già anticamente il sabato era interpretato come simbolo della vita eterna. Così Ireneo (Adversus haereses, IV, 6, 1) e Origene nelle Omelie sull’Esodo (VII, 6).
50
In questo passo abbiamo la contrapposizione tra Mosè, figura del
vecchio Testamento e Giosuè, figura di Gesù. Questa opposizione
simbolica è già presente nel Dialogo contro Trifone di Giustino (secolo II) ed è ripresa da Ireneo e da Origene.
51 L’espressione rappresenta l’ontologia mistica di Gregorio e si ritrova spesso in Origene.
52
Anche nel commento esegetico dell’Ecclesiaste (PG 44, 773 B) si ripete
questa critica contro l’ambizione delle cariche ecclesiastiche.
53 Essa, infatti, era avvenuta nella luce del roveto ardente.
54 Dio è invisibile agli Angeli stessi.
56 Il primo comandamento della legge viene interpretato come interdizione di farsi una rappresentazione intellettuale di Dio.
57
Per Gregorio come per Origene la vita attiva non è soltanto
preparazione alla vita contemplativa ma deve unirsi alla seconda per
formare un’armonica perfezione.
58 Con un simbolismo che gli è proprio Gregorio vede nel Tabernacolo le due nature di Cristo.
59
Il tema dell’Incarnazione come abitazione del Verbo nel tabernacolo
della carne, ha origine da Gv 1, 14. Anche nel Commentario sul Cantico
(PG 44, 1045 D) l’Incarnazione è una scenopegia, costruzione di una
tenda, che prelude alla definitiva scenopegia della risurrezione
universale, raffigurata nella festa dei Tabernacoli.
60
Tema catechistico antico quello dei vari nomi di Cristo, presente in
Giustino, Origene, Cirillo di Gerusalemme, Gregorio Nazianzeno. Il
Nisseno gli ha consacrato il trattato della perfezione (PG 46,
252 285).
61 La concezione del Logos come principio di unità dell’universo è di origine stoica.
62
L’interpretazione allegorica è appoggiata a san Paolo per difenderla
dagli attacchi contro l’origenismo che erano iniziati con le
controversie cristologiche.
63
Il tabernacolo celeste è qui il simbolo del mondo celeste dopo essere
stato simbolo della natura divina di Cristo. Questo mondo celeste è
però il mondo degli angeli personali, a differenza del mondo delle
idee archetipe della concezione platonica.
64 È l’elogio della vita monastica, che ritroviamo nel commento sul Cantico dei Cantici (PG 44, 924 D).
66
Le melograne sono un’immagine cara a Gregorio per dire che la virtù
sulle prime contraddice la natura, ma ci offre poi il suo nutrimento
interiore. Lo stesso concetto è più volte espresso nel commento sul
Cantico dei Cantici (PG 44, 929 B; 970 C; 1108 B).
67
Vediamo qui un accenno alle conversioni dal paganesimo e al fallimento
del tentativo di restaurazione del culto idolatrico voluto da
Giuliano l’Apostata.
68
Il principio dell’utilità è il grande principio dell’esegesi di
Origene. Ogni passo della Bibbia deve avere un contenuto utile. Bisogna
cercano dapprima nel senso letterale ma se questo è impossibile, nel
senso spirituale.
69
Qui la legge «naturale» va intesa secondo la concezione che Gregorio
ha della «natura», che è l’uomo vero creato nella vita soprannaturale.
70 La stessa immagine si trova nelle omelie di Gregorio sulle Beatitudini (PG 46, 1213 C).
71 Il tema del volo dell’anima è già in Platone (Fedro 246 B). Gregorio lo utilizza spesso come avviene nel commento sul Cantico (PG 44, 1300 B C).
72 L’attrattiva del bene è uno dei temi della filosofia ellenistica, influenzata da Platone e dallo stoicismo.
73 La sazietà del bene posseduto era stata, secondo Origene (De Principiis
II, 9, 3), la causa della caduta dell’uomo e restava un principio di
ricaduta. Questa difficoltà è sormontata da Gregorio con l’idea del
progresso perpetuo.
74
In questo notevole passo Gregorio oppone il movimento biologico che è
ciclico e quindi senza progresso al movimento spirituale che è
progresso e stabilità .
75
A queste vesti sacre di cui erano rivestiti Adamo ed Eva si fa cenno
anche nel commento sul Cantico (PG 35,1005 B) e nelle omelie De Oratione dominica (PG 35,1143 B). Ad esse si contrappongono non le tuniche di pelle di Gn 4, 21, ma le foglie di fico di Gn 3, 7.
77 Mosè ha raggiunto la perfetta impassibilità , che rappresentava l’ideale più perfetto del sapiente secondo la filosofia stoica.
78
Pare un’allusione alla riconciliazione ecclesiastica. Gregorio ne
tratta nella Lettera a Letoio (PG 45, 221 B 236 D) e nel Sermone
contro quelli che non sopportano la correzione (PG 46, 308 A 316 D).
Nel Contra Eunomium ci attesta che la confessione dei peccati era uno degli usi della Chiesa (PG 45, 880 B).
79 L’acqua che zampilla dalla roccia è paragonata, accostata al sangue e all’acqua che zampillarono dal costato di Cristo.
80 L’ambizione è la tentazione di chi è più avanzato nella vita spirituale.
81 L’espressione «via regale» viene da Nm 20, 17. Filone ne aveva fatto il simbolo della strada che conduce a Dio.
82 È la dottrina aristotelica della virtù come «giusto mezzo» (Etica Nicomachea II, 5 6). Gregorio la sviluppa anche in altre opere esegetiche come nel commento al libro dell’Ecclesiaste (PG 44, 729 B).
83 Immagine plotiniana (Enneadi I, 6, 9) a lungo sviluppata da Gregorio nel commento sulle iscrizioni dei Salmi (PG 44, 544 A D).
84 In precedenza l’idolo d’oro era stato preso come simbolo dell’idolatria.