mercoledì 1 maggio 2013

«Il lavoro ci riempe di dignità»



Nuovo tweet del Papa:
Cari giovani, imparate da San Giuseppe, che ha avuto momenti difficili, ma non ha mai perso la fiducia, e ha saputo superarli.
(1°maggio 2013)

*

Interrompendo il ciclo di catechesi sul Credo e l’Anno della fede, Papa Francesco ha dedicato la catechesi dell’udienza generale del Primo Maggio alla festa liturgica di san Giuseppe lavoratore e all’inizio del mese mariano. 

La prima meditazione è stata dunque dedicata al lavoro. Quando Gesù è ormai noto per la sua predicazione e torna a Nazaret, i suoi compaesani si pongono con stupore la domanda: «Non è costui il figlio del falegname?» (13,55). Questa domanda, osserva il Papa, sottolinea fortemente il carattere storico, concreto della vita di Gesù. «Gesù entra nella nostra storia, viene in mezzo a noi, nascendo da Maria per opera di Dio, ma con la presenza di san Giuseppe, il padre legale che lo custodisce e gli insegna anche il suo lavoro. Gesù nasce e vive in una famiglia, nella santa Famiglia, imparando da san Giuseppe il mestiere del falegname, nella bottega di Nazaret, condividendo con lui l’impegno, la fatica, la soddisfazione e anche le difficoltà di ogni giorno». Ogni tanto, ha suggerito il Pontefice, tendiamo a dimenticarci di questo particolare. 

Viene in mente – non lo ha citato Papa Francesco, ma l’episodio mi sembra pertinente – lo scandalo di uno scrittore come Charles Dickens (1812-1870) quando fu esposto a Londra nel 1850 il quadro «Gesù nella casa dei suoi genitori» di John Everett Millais (1829-1896), la prima significativa manifestazione pubblica della corrente artistica dei Pre-Raffaelliti. Per il borghese Dickens, abituato a raffigurazioni oleografiche del ragazzo Gesù, era scandaloso che Millais lo mostrasse sudato e sporco di segatura mentre Giuseppe si affaticava nel lavoro. Oggi «Gesù nella casa dei genitori» è considerato un capolavoro profondamente religioso. Dickens aveva torto: il Papa ci ricorda che il lavoro di Gesù nel laboratorio di Giuseppe non era simbolico, ma vero, faticoso, difficile.

Il richiamo del Pontefice, più in generale è «alla dignità e all’importanza del lavoro» che per il cristiano ha una dimensione teologica. «Il libro della Genesi narra che Dio creò l’uomo e la donna affidando loro il compito di riempire la terra e soggiogarla, che non significa sfruttarla, ma coltivarla e custodirla, averne cura con la propria opera (cfr Gen 1,28; 2,15). Il lavoro fa parte del piano di amore di Dio; noi siamo chiamati a coltivare e custodire tutti i beni della creazione e in questo modo partecipiamo all’opera della creazione!». 

Questa valenza teologica del lavoro – una grande novità del cristianesimo, come Benedetto XVI aveva ricordato nel celebre discorso del 12 settembre 2008 a Parigi al Collège des Bernardins – fonda anche il suo valore nella vita degli uomini. «Il lavoro, per usare un’immagine, ci “unge” di dignità, ci riempie di dignità; ci rende simili a Dio, che ha lavorato e lavora, agisce sempre (cfr Gv 5,17)». Sta qui, e non in semplici analisi economiche o sociologiche, la radice dell’insegnamento della dottrina sociale della Chiesa, la quale condanna chi non rispetta il valore e la dignità intrinseca del lavoro e «a causa di una concezione economicista della società, cerca il profitto egoista, al di fuori dei parametri della giustizia sociale». 

A chi nell’attuale crisi economica internazionale soffre per avere perso il lavoro, il Pontefice vorrebbe «dire di non perdere la speranza; anche san Giuseppe ha avuto momenti difficili, ma non ha mai perso la fiducia e ha saputo superarli, nella certezza che Dio non ci abbandona». E ai giovani che si preoccupano perché forse un lavoro non lo troveranno Papa Francesco suggerisce di non perdere tempo in lamentele sterili, ma d’impegnarsi intanto a compiere il loro dovere, con fiducia nella Provvidenza: «impegnatevi nel vostro dovere quotidiano, nello studio, […] nei rapporti di amicizia, nell’aiuto verso gli altri; il vostro avvenire dipende anche da come sapete vivere questi preziosi anni della vita. Non abbiate paura dell’impegno, del sacrificio e non guardate con paura al futuro; mantenete viva la speranza: c’è sempre una luce all’orizzonte».

Naturalmente, quello che la Chiesa valorizza è il lavoro dignitoso e onesto. Diverso è «quello che potremmo definire come il “lavoro schiavo”, il lavoro che schiavizza», spesso gestito da criminali con veri e propri fenomeni di «tratta delle persone». «Quante persone, in tutto il mondo, sono vittime di questo tipo di schiavitù, in cui è la persona che serve il lavoro, mentre deve essere il lavoro ad offrire un servizio alle persone perché abbiano dignità». 

La seconda meditazione del Papa è stata dedicata a maggio, il mese di Maria. Così, ha rilevato, non stiamo cambiando discorso perché Giuseppe e Maria si presentano a noi insieme. «Giuseppe, insieme a Maria, hanno un solo centro comune di attenzione: Gesù. Essi accompagnano e custodiscono, con impegno e tenerezza, la crescita del Figlio di Dio fatto uomo per noi, riflettendo su tutto ciò che accadeva». 

L’atteggiamento che il Vangelo di Luca riferisce a Maria lo possiamo senz’altro attribuire anche a Giuseppe: «Custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore». Per meditare le cose del Signore nel cuore occorre fare spazio con il silenzio alla preghiera. «Per ascoltare il Signore, bisogna imparare a contemplarlo, a percepire la sua presenza costante nella nostra vita; bisogna fermarsi a dialogare con Lui, dargli spazio con la preghiera». 

Dovremmo tutti chiederci in questo mese di maggio: «quale spazio do al Signore? Mi fermo a dialogare con Lui? Fin da quando eravamo piccoli, i nostri genitori ci hanno abituati ad iniziare e a terminare la giornata con una preghiera, per educarci a sentire che l’amicizia e l’amore di Dio ci accompagnano. Ricordiamoci di più del Signore nelle nostre giornate!». 

Fra tante preghiere, maggio c’invita a privilegiarne una. Papa Francesco richiama «all’importanza e alla bellezza della preghiera del Santo Rosario. Recitando l'Ave Maria, noi siamo condotti a contemplare i misteri di Gesù, a riflettere cioè sui momenti centrali della sua vita, perché, come per Maria e per san Giuseppe, Egli sia il centro dei nostri pensieri, delle nostre attenzioni e delle nostre azioni». Per questo mese di maggio, ci chiede uno sforzo per recitare ogni giorno «assieme in famiglia, con gli amici, in Parrocchia, il santo Rosario» o almeno qualche preghiera «a Gesù e alla Vergine Maria». Ne risulterà «più salda la vita familiare, l’amicizia! Impariamo a pregare di più in famiglia e come famiglia!». E nel Rosario a maggio mettiamo, chiede il Papa, questa intenzione: «chiediamo a san Giuseppe e alla Vergine Maria che ci insegnino ad essere fedeli ai nostri impegni quotidiani, a vivere la nostra fede nelle azioni di ogni giorno e a dare più spazio al Signore nella nostra vita, a fermarci per contemplare il suo volto».

*

L’oratoria di papa Francesco


Sandro Magister, giornalista de L’Espresso, è senza dubbio il vaticanista italiano più acuto e brillante; il meno scontato e per certi versi il meno curiale (accade che spesso i vaticanisti scelgano di essere insipidi ed incolore, per ottenere le loro informazioni da una parte e dall’altra, senza scontentare; un po’ troppo “dipendenti” dal prelato o dai prelati da cui ottengono le “confidenze” e verso cui devono essere, in qualche modo, ossequiosi. A discapito di una informazione un po’ critica e originale .
Oggi Magister ha scritto questo pezzo illuminante  sull’oratoria di papa Francesco:

La sua popolarità è in buona misura legata all’arte con cui parla. Tutto gli viene perdonato, anche quando dice cose che dette da altri verrebbero investite dalle critiche. Ma le prime proteste cominciano ad affiorare
ROMA, 29 aprile 2013 – Ha fatto rumore, sui media, il cenno critico che papa Francesco ha riservato allo IOR, Istituto per le Opere di Religione, la discussa “banca” vaticana, nell’omelia della sua messa mattutina nella Domus Sanctae Marthae, mercoledì 24 aprile:
“Quando la Chiesa vuol vantarsi della sua quantità e fa delle organizzazioni, e fa uffici e diventa un po’ burocratica, la Chiesa perde la sua principale sostanza e corre il pericolo di trasformarsi in una ONG. E la Chiesa non è una ONG. È una storia d’amore… Ma ci sono quelli dello IOR… Scusatemi, eh!… Tutto è necessario, gli uffici sono necessari… eh, va bè! Ma sono necessari fino ad un certo punto: come aiuto a questa storia d’amore. Ma quando l’organizzazione prende il primo posto, l’amore viene giù e la Chiesa, poveretta, diventa una ONG. E questa non è la strada”.
Queste sue omelie mattutine papa Jorge Mario Bergoglio le pronuncia interamente a braccio. E la frase riportata sopra è la trascrizione letterale fornita poche ore dopo dalla Radio Vaticana.
Ma lo stesso giorno, nel riferire in altro modo la stessa omelia, “L’Osservatore Romano” ha tralasciato l’inciso: “Ma ci sono quelli dello IOR… Scusatemi, eh!”.
Questa disparità tra la radio e il giornale della Santa Sede è un indizio dell’incertezza che ancora regna in Vaticano su come trattare mediaticamente le omelie feriali del papa, quelle che egli pronuncia nella messa delle 7, nella cappella della residenza in cui abita.
A queste messe accede un pubblico selezionato, ogni mattina diverso. E il 24 aprile c’erano tra i presenti un buon numero di dipendenti dello IOR.
Queste omelie del papa vengono interamente registrate. Ma non seguono l’iter dei suoi discorsi ufficiali, per le parti improvvisate a braccio.
Non vengono cioè trascritte dalla registrazione audio, poi messe in bella copia nella lingua e nei concetti, poi sottoposte al papa e infine rese pubbliche nel testo approvato.
Il testo integrale delle omelie feriali di papa Bergoglio resta segreto. Ne vengono solo forniti due parziali resoconti, dalla Radio Vaticana e da “L’Osservatore Romano”, redatti indipendentemente tra loro e quindi con una maggiore o minore ampiezza delle citazioni testuali.
Non si sa se questa prassi – mirata sia a tutelare la libertà di parola del papa, sia a difenderla dai rischi dell’improvvisazione – verrà mantenuta o modificata.
Sta di fatto che quanto si sa di queste omelie semipubbliche è ormai una parte importante dell’oratoria tipica di papa Francesco.
È un’oratoria stringata, semplice, colloquiale, imperniata su parole od immagini di immediata presa comunicativa. Ad esempio:
  • l’immagine “Dio spray”, usata da papa Francesco il 18 aprile per mettere in guardia dall’idea di un Dio impersonale “che è un po’ dappertutto ma non si sa cosa sia”;
  • oppure l’immagine “Chiesa babysitter”, usata il 17 aprile per stigmatizzare una Chiesa che solo “cura il bambino per farlo addormentare”, invece che agire come una madre con i suoi figli;
  • oppure la formula “cristiani satelliti”, usata il 20 aprile per bollare quei cristiani che si fanno dettare la condotta dal “senso comune” e dalla “prudenza mondana”, invece che da Gesù.
Stefania Falasca, amica da tempo di Bergoglio – che le telefonò la sera stessa della sua elezione a papa –, gli ha chiesto dopo una messa mattutina alla Domus Sanctae Marthae: “Padre, ma come le vengono queste espressioni?”.
“Un semplice sorriso è stata la sua risposta”. A giudizio di Falasca, l’uso di tali formule da parte del papa “in termini letterari si chiama ‘pastiche’, che è appunto l’accostamento di parole di diverso livello o di diverso registro con effetti espressionistici. Lo stile ‘pastiche’ è oggi un tratto tipico della comunicazione del web e del linguaggio postmoderno. Si tratta dunque di associazioni linguistiche inedite nella storia del magistero petrino”.
In un editoriale del 23 aprile sul quotidiano della conferenza episcopale italiana “Avvenire”, Falasca ha avvicinato l’oratoria di papa Francesco al “sermo humilis” teorizzato da sant’Agostino.
Papa Bergoglio introduce questo stile anche nelle omelie e nei discorsi ufficiali. Ad esempio, nell’omelia della messa crismale del Giovedì Santo, nella basilica di San Pietro, ha molto colpito il suo esortare i pastori della Chiesa, vescovi e preti, a prendere “l’odore delle pecore“.
Un’altro tratto tipico della sua predicazione è l’interloquire con la folla, sollecitandola a rispondere in coro. L’ha fatto per la prima volta e ripetutamente al “Regina Coeli” di domenica 21 aprile, ad esempio quando disse: “Grazie tante per il saluto, ma anche salutate Gesù. Gridate ‘Gesù’ forte!”. E il grido “Gesù” salì effettivamente da piazza San Pietro.
La popolarità di papa Francesco è dovuta in buona misura a questo suo stile di predicazione e alla facile, diffusa fortuna che hanno i concetti su cui egli più insiste – la misericordia, il perdono, i poveri, le “periferie” – visti riflessi nei suoi gesti e nella sua stessa persona.
È una popolarità che fa velo alle altre cose più scomode che egli pure non manca di dire – ad esempio con i suoi frequenti richiami al diavolo – e che dette da altri scatenerebbero critiche, mentre a lui si perdonano.
In effetti, i media hanno sinora coperto di indulgenza e di silenzio non solo i riferimenti dell’attuale papa al diavolo ma anche tutta una serie di altri suoi pronunciamenti su punti di dottrina tanto capitali quanto controversi.
Il 12 aprile, ad esempio, parlando alla pontificia commissione biblica, papa Francesco ha ribadito che
“l’interpretazione delle Sacre Scritture non può essere soltanto uno sforzo scientifico individuale, ma dev’essere sempre confrontata, inserita e autenticata dalla tradizione vivente della Chiesa”. E quindi “ciò comporta l’insufficienza di ogni interpretazione soggettiva o semplicemente limitata ad un’analisi incapace di accogliere in sé quel senso globale che nel corso dei secoli ha costituito la tradizione dell’intero popolo di Dio”.
Di questa frustata del papa contro le forme di esegesi prevalenti anche in campo cattolico praticamente nessuno si è accorto, nel silenzio generale dei media.
Il 19 aprile, nell’omelia mattutina, si è scagliato contro i “grandi ideologi” che vogliono interpretare Gesù in una chiave puramente umana. Li ha definiti
“intellettuali senza talento, eticisti senza bontà. E di bellezza non parliamo, perché non capiscono nulla”.
Anche in questo caso, silenzio.
Il 22 aprile, in un’altra omelia mattutina, ha detto con forza che
Gesù è “l’unica porta” per entrare nel Regno di Dio e “tutti gli altri sentieri sono ingannevoli, non sono veri, sono falsi”.
Con ciò ha quindi ribadito quella verità irrinunciabile della fede cattolica che riconosce in Gesù Cristo l’unico salvatore di tutti. Ma quando nell’agosto del 2000 Giovanni Paolo II e il cardinale Joseph Ratzinger pubblicarono proprio su questo la dichiarazione “Dominus Iesus” furono contestati aspramente da dentro e fuori la Chiesa. Mentre ora che papa Francesco ha detto la stessa cosa, tutti zitti.
Il 23 aprile, festa di san Giorgio, nell’omelia della messa con i cardinali nella Cappella Paolina ha detto che
“l’identità cristiana è un’appartenenza alla Chiesa, perché trovare Gesù fuori della Chiesa non è possibile”.
E anche questa volta, silenzio. Eppure la tesi secondo cui “extra Ecclesiam nulla salus”, da lui riaffermata, è quasi sempre foriera di polemica…
Questa benevolenza dei media nei confronti di papa Francesco è uno dei tratti che caratterizzano questo inizio di pontificato.
La soavità con cui egli sa dire le verità anche più scomode agevola questa benevolenza. Ma è facile prevedere che prima o poi essa si raffredderà e lascerà il passo a un riaffiorare delle critiche.
Una prima avvisaglia si è avuta dopo che papa Bergoglio, il 15 aprile, ha confermato la linea severa della congregazione per la dottrina della fede nel trattare il caso delle suore degli Stati Uniti riunite nella Leadership Conference of Women Religious.
Le proteste che si sono subito levate da queste suore e dalle correnti “liberal” del cattolicesimo non solo americano sono suonate come l’inizio della rottura di un incantesimo.