martedì 22 dicembre 2015

Luigi Giussani: Dio è misericordia

Santo Natale: Il volantone di CL

Come ogni anno, il Movimento di Comunione e Liberazione propone un'immagine artistica e un testo come aiuto a vivere il mistero del Natale. Quest'anno l'immagine è di V. Kandinsky, Linea curva libera verso il punto: suono simultaneo di linee curve geometriche, 1925. Metropolitan Museum of Art, New York (© The Metropolitan Museum of Art / Art Resource / Scala, Firenze).
Il testo è costituito da due brani. Il primo, di papa Francesco, è tratto dal Discorso al Centro di Rieducazione Santa Cruz - Palmasola. Santa Cruz de la Sierra (Bolivia), 10 luglio 2015. Il secondo brano, di Luigi Giussani, è tratto dal libro L’avvenimento cristiano, BUR, Milano 2003, pp. 14-15.

Ecco i due brani:

«Per te, per te, per te, per me. Un amore attivo, reale. Un amore che guarisce, perdona, rialza, cura. Quando Gesù entra nella vita, uno non resta imprigionato nel suo passato, ma inizia a guardare il presente in un altro modo, con un’altra speranza. Uno inizia a guardare se stesso, la propria realtà con occhi diversi. Non resta ancorato in quello che è successo. E se in qualche momento ci sentiamo tristi, stiamo male, abbattuti, nel suo sguardo tutti possiamo trovare posto». (Papa Francesco)

«Dio, il destino, il mistero, l’origine di tutte le cose, è diventato un volto umano: così è apparso Dio nel mondo. Chi lo incontrava diceva: “Nessuno ha mai parlato come quest’uomo” oppure: “Quest’uomo sì che parla con autorità”. Dio, il mistero, il destino fatto uomo, si rende presente ora a me e a te, e a tutti gli uomini che sono chiamati a vederlo, ad accorgersene, in un volto: un volto umano nuovo in cui ci si imbatte». (Luigi Giussani) 

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Dio è misericordia

Luigi Giussani
Appunti da una conversazione di Luigi Giussani in occasione del ritiro di Quaresima dei Memores Domini. Pianazze, 16 febbraio 1975

L’orazione di ieri sera1 ci richiamava ai due risultati della conversione: la passione della conoscenza di Cristo (“conoscenza” nel senso pieno e biblico della parola), perciò la passione per Cristo, l’amore a Cristo come desiderio di adesione a Lui, e quindi, in secondo luogo, le buone opere. La Quaresima è lo strumento - strumento sacramentale - per incrementare questa conversione. Vale a dire: operando il segno quaresimale, “gestendo” le indicazioni pedagogiche in cui la Chiesa fa consistere il richiamo quaresimale, avviene, per la potenza dello Spirito, qualcosa in noi di molto più grande di quanto ci diano gli sforzi soliti. È un tempo sacramentale, è un tempo che è destinato da Dio a darci un impeto di trasformazione più grande.
Perciò, le solite cose o le solite pratiche, intraprese, per l’obbedienza alla Chiesa, nel tempo quaresimale, hanno un significato più grande, hanno una potenza trasformatrice più grande. Altrimenti è tutto nominalismo, sono tutti nomi per noi, e non c’è la differenza, cioè non c’è la storia: trattiamo l’agosto e il settembre come trattiamo la Quaresima, vale a dire, con la stessa ignavia e con la stessa distrazione. Tutt’al più la predicazione o la meditazione liturgica quaresimale ha dei temi magari - magari! - diversi da quelli dell’agosto e settembre, ma è tutto nominalismo. È tutto nominalismo, sono puri nomi, manca la storia reale, manca una storia reale, cioè manca il senso del Mistero come Cristo: perché Cristo è il Mistero, cioè Dio rivelato nella storia, Dio che si è reso esperienza nella storia, è una storia, come rivedremo tra poco. Per sé, tutti i suoi atti erano un’infinita riparazione, ogni suo atto era degno di Dio, poteva riconciliare il mondo; ma come nella sua vita fu importante la croce, come fu importante la via Crucis o l’agonia, come fu importante il giorno in cui incominciò la sua missione (perché non è un’omogeneità senza senso quella di tutti gli atti di Cristo, anche se ogni atto era l’atto di Dio, anche quando mangiava e beveva da ragazzo), così nella nostra annata, nella vita della nostra annata, noi dobbiamo ricuperare il valore della storia. Per questo, giustamente, la liturgia diceva che la Quaresima è un «segno sacramentale», ha un valore sacramentale per la conversione che gli altri momenti dell’anno, gli altri periodi dell’anno, non hanno. In questo senso è veramente un’attesa non formale.
Abbiamo già accennato ieri sera che la preghiera sopra il popolo della terza domenica di Quaresima ci indica anche queste pratiche, ci indica cioè quello che abbiamo chiamato il segno materiale di questo “sacramento” che è la Quaresima. Qual è questo segno materiale, come per l’Eucaristia è il pane e il vino, come per il Battesimo è l’acqua? «Dio misericordioso, fonte di ogni bene [bontà], tu ci hai proposto a rimedio del peccato [come conversione] il digiuno [la mortificazione], la preghiera e le opere di carità fraterna: guarda [benevolo] a noi che riconosciamo la nostra miseria e, poiché ci opprime il peso [rimorso] delle nostre colpe, ci sollevi la tua misericordia»2. Noi saremmo infatti nell’uggia di noi o nella irrequietezza di noi, nell’insoddisfazione di noi: «La tua misericordia ci sollevi», vale a dire la tua presenza misericordiosa, il fatto che guardiamo a Te, ci dia conforto e sollievo.
Dobbiamo perciò richiamarci, richiamare la nostra vita, alla verità di quei tre punti, all’uso di quei tre punti. La Quaresima deve essere un’obbedienza a questo invito della Chiesa: preghiera, digiuno e opere di carità fraterna.

1. Preghiera
Innanzitutto, occorre che in questo periodo rispondiamo all’invito a ricuperare più profondamente il senso della preghiera. E il senso della preghiera cristiana è uno solo: l’attesa di Cristo. Come dicevamo alla Scuola di comunità3, il profeta rendeva presente il popolo a Dio. Ma che cosa chiedeva il profeta, per il popolo, a Dio? Chiedeva Dio. Così, per quel pezzo di popolo che abbiamo più vicino a noi, che siamo noi stessi, noi non possiamo che domandare Dio, il manifestarsi di Dio, l’attesa della «beata speranza», il ritorno di Cristo o, che è lo stesso, il compiersi della Sua risurrezione, perché la manifestazione finale è già incominciata con la risurrezione di Cristo. E l’essere stati presi dentro la «nuova ed eterna alleanza» col Battesimo, significa che questa fine è già presente in noi. Questo è il pensiero esaltante, questo è il pensiero della liberazione, questa è la liberazione. Allora, l’unico vero desiderio è che questa manifestazione si compia, ovvero che si compia la manifestazione di ciò che abbiamo già addosso: Cristo risorto. E questo, guardando il tempo con l’occhio, con lo sguardo normale dell’uomo, è lo stesso che «attesa del Suo ritorno».
La preghiera cristiana è l’attesa del Suo ritorno, la domanda del Suo ritorno, questo maranathà, «Signore, vieni», con cui conclude l’Apocalisse4. Se qualunque nostra preghiera, se qualunque nostra domanda, se qualunque nostro sguardo a Dio, se qualunque nostra riflessione non è sottesa da questo: «Signore, vieni!», non è preghiera o è preghiera ancora pagana. È questa l’essenza della preghiera cristiana. Badate, per favore, che si potrebbe dire tutto questo in un’altra versione, che abbiamo sempre detto: la preghiera è memoria di Cristo, è la memoria della risurrezione. E la memoria della risurrezione, per la nostra situazione esistenziale, coincide con la domanda che avvenga in noi questa risurrezione, che si compia in noi e nel mondo. È lo stesso. Perciò, non è memoria di Cristo, se non è attesa del Suo ritorno. È identico. Se un uomo fosse innamorato, la memoria della sua donna coinciderebbe col desiderio di rivederla.
Questa essenza della preghiera, lo ricordiamo proprio in vista della conversione quaresimale, dell’approfondimento come conversione quaresimale, vuole sottolineare soprattutto due implicazioni.

a) La prima implicazione è la sicurezza; la sicurezza che, avendoci chiamato a domandarlo, a far memoria di Lui e a domandarlo, Egli compirà il suo disegno in noi. Perciò è la sicurezza della liberazione. Proprio questa attesa è la garanzia della fede, è la garanzia che la fede ci condurrà fino alla fine; è garanzia, sicurezza o pegno. Ma la parola “pegno” aggiunge qualche cosa, perché il pegno è la garanzia, la sicurezza che è data da una già iniziale esperienza della definitività. Non per nulla il pegno è dello Spirito in noi, vale a dire della potenza trasformatrice, della potenza che opera la liberazione, perché è lo Spirito che opera la liberazione. «Egli ha dato il pegno del suo Spirito nei nostri cuori, per cui gridiamo: “Abbà, Padre”»5. Non si può dire a uno: «Padre», se non in assoluta certezza e sicurezza, come ha già detto il Signore nell’undicesimo capitolo di san Luca, versetti 1-11, quando parla del padre che, se il figlio gli domanda un pezzo di pane, non gli dà un sasso: «Se dunque voi, che siete cattivi, non potete negare ai figli vostri le cose buone quando ve le chiedono, a maggior ragione il Padre vostro non potrà negare a voi lo Spirito Santo quando glielo chiedete»6. Che cosa vuol dire chiedere lo Spirito? Vuol dire chiedere il ritorno di Cristo, chiedere che avvenga la risurrezione, chiedere che avvenga la liberazione propria e del mondo, che è Cristo - perché la liberazione è Cristo, non è un’altra cosa -, chiedere che avvenga la risurrezione di Cristo.
Innanzitutto, dunque, l’aspetto di sicurezza, di cuore garantito, di pegno già sperimentato. Sottolineo queste due implicazioni - la seconda la dirò adesso - perché sono le più difficili: per il nostro orgoglio, il nostro amor proprio, per il nostro razionalismo, per il nostro naturalismo, per la nostra carnalità, per la nostra autonomia, per il nostro attaccamento a noi stessi, sono i due aspetti più difficili della preghiera. “Difficili”: sono i due aspetti più dimenticati della preghiera, più lasciati da parte. Si potrebbe pregare eludendo questi due aspetti del «sacrificium fidei vestrae»7, del sacrificio della vostra fede.

b) In secondo luogo - e questa è proprio un’altra cosa totalmente dimenticata nella nostra preghiera -, se la preghiera è l’attesa del Suo manifestarsi, è essa che ci dà il “come” vero del tempo, il “come” del tempo che passa. La preghiera è il cuore del tempo che passa - il cuore! -, cioè ci dà l’atteggiamento, il “come” del tempo che passa. Il tempo che passa: alzarsi al mattino, bere il caffelatte, prendere il tranvai, andare al lavoro o mettersi in cucina a riordinare tutte le cose, rassettare i letti, scopare, tirar giù le ragnatele, mangiare, riprendere il tranvai, andare a casa, parlare con la gente. Questo è il tempo che passa. Il “come” del tempo che passa, il cuore del tempo che passa, perciò il valore, il significato del tempo che passa, è dato dalla preghiera. Perché se la preghiera è l’attesa del Suo ritorno e il Suo ritorno è la consistenza di tutto, è proprio nella preghiera che il “come” del tempo che passa avviene.
Non mi pare indiscreto leggere questo brano di lettera, che mi è arrivata. «Tutte le volte che nella messa dico: “Nell’attesa che si compia la beata speranza”, mi chiedo il perché di questa attesa [leggo questa lettera per farvi capire come questi due aspetti, queste due implicazioni della preghiera qui sottolineate, sono realmente la fatica più acuta per l’uomo misura delle cose, per la nostra autonomia]. Tutte le volte che dico: “Lascia che il tuo servo parta verso la pace, ormai i miei occhi hanno visto la salvezza”, desidererei che questa preghiera si compisse subito letteralmente. Che cosa può aggiungere, infatti, il tempo a questo “ormai”? [Se abbiamo già la salvezza, la domanda è: perché c’è il tempo?] Questo aprirebbe anche interrogativi più ampi, per esempio quello del significato di una storia della Chiesa [è vero, è la stessa cosa: perché, se è già venuto, c’è tutta la storia della Chiesa?]. Perché attendere, se sappiamo che “il nostro cuore è inquieto fino a quando non si riposerà in Lui”? Perché attendere, se sappiamo che il tempo, la storia, non ha in sé la possibilità della propria salvezza, ma l’aspetta solo dal manifestarsi del giudizio di Dio? Perché attendere, se sappiamo che non potremo mai compiere un gesto perfetto su questa terra, che la nostra perfezione non può generarsi attraverso lo strumento del tempo? Cioè, è un dato - il tempo, la storia - che non riesco a percepire come positivo, ma solo nella sua caratteristica di frammentarietà e incompiutezza».
Capite, per favore, che è soltanto a questo livello che uno realmente fa come Abramo e sacrifica il figlio Isacco? Veramente il nostro modo solito di concepire è distrutto. Infatti, l’unico senso della storia - l’unico -, l’unico senso del tempo, è il mistero della volontà di Dio, l’assoluta libertà di Dio. Ed è lo stesso, anche se in questa lettera non vi si accenna, se domandiamo: perché Cristo è venuto duemila anni fa e non trentamila, ventimila, oggi? Perché? Non hanno risposta nella nostra testa queste domande, l’unica risposta è la volontà di Dio, il disegno di Dio, il disegno misterioso del Padre. Ma una volta accettato e riconosciuto questo, dobbiamo abbandonarci a questo, perché questa è la verità (non è una nostra immagine la verità, mai) e questa è la bontà (non è una nostra immagine di umanità la bontà) e questa è la giustizia, perché la giustizia è Dio e basta, ed è come un abisso senza sponde, non c’è misura, non possiamo misurare, opporre un criterio e una misura. E uno capisce che è qui il perdersi, l’abbandonarsi totale, capisce che lui è niente e tutto è il disegno e la volontà dell’Altro, l’Assoluto: senza legame, senza misure e l’ineffabile: che non si può descrivere, dire, definire. E la preghiera, se non è questo - capite -, è niente, è una pretesa di adolescente capriccioso, di ragazzo capriccioso, presuntuoso e capriccioso. Ma questo abbandono evita l’intellettualismo o l’estetismo («il naufragar m’è dolce in questo mare»8) e veramente diventa reale, diventa esistenziale, soltanto nell’esperienza cristiana. Una volta accettato e riconosciuto questo, allora si comprende, letteralmente si comprende, come è attraverso queste vie «che non sono le nostre vie»9, «questa sapienza che non è la nostra sapienza, Dio ne sia ringraziato»10, diceva Miguel Mañara alla fine di quel pezzetto che abbiamo letto a Scuola di comunità, che Dio compie il suo disegno. Una volta capito e accettato questo, si comprende cioè come quel disegno è per amore della nostra libertà, è per misericordia verso la nostra fragilità. Il tempo ci è dato come amore alla nostra libertà e misericordia verso la nostra fragilità.
Dice la seconda Lettera di Pietro, capitolo terzo, versetti dall’ottavo in poi: «Vi è una cosa, o miei cari, che voi non dovete ignorare, e cioè che davanti al Signore un giorno è come mille anni, e mille anni come un giorno [di ventiquattro ore]. Il Signore non tarda nel compiere la sua promessa, come qualcuno pensa; ma è paziente verso di voi, perché non vuole che alcuno perisca, ma che tutti giungano alla conversione [libertà e pazienza, libertà e misericordia]. Il giorno del Signore verrà come un ladro: in quel giorno i cieli spariranno con grande fragore, gli elementi infuocati si dissolveranno e la terra sarà consumata insieme con tutte le opere che contiene. Poiché, dunque, tutte queste cose dovranno essere disciolte [vale a dire, la vostra misura dovrà essere trasfigurata, dovrà essere contrita e sorpassata da tutte le parti], quali non dovete essere voi nella santità della vostra condotta [cos’è la santità della condotta? Il “come” del tempo, che viene dalla preghiera] e nella vostra pietà, nell’attendere e nell’affrettare la venuta del giorno del Signore. [Per questo] noi attendiamo, secondo la sua promessa, “i cieli nuovi e la nuova terra”, in cui abiterà la giustizia»11. Ma la pietà è «l’attendere e l’affrettare la venuta del giorno di Dio». Che espressione fantastica! Dovrebbe essere questa la descrizione fenomenica, la descrizione psicologica perfetta, del nostro stato d’animo quotidiano: «Affrettare la venuta del giorno del Signore». È questa la preghiera: domandare il Suo ritorno.
Ma la lettera citata prima proseguiva (è essa che mi ha suggerito queste due sottolineature: la prima è quella della certezza, che riprenderò tra poco, perché è la più acuta di tutte; ma è alla seconda implicazione che sto rispondendo: il valore del tempo): «E se non conosco il perché dell’attesa, ne deriva che non conosco neanche il come viverla. Mi sorprendo a desiderare di vivere, se fosse possibile, solo nel silenzio, nella preghiera, nella contemplazione, perché mi sembra che in tutto questo si anticipi più evidentemente l’esperienza della definitività. Anche se la preghiera, quelle volte che si libera dalla pesantezza e dall’ottusità del cuore, fa comunque percepire, più che la vicinanza, la lontananza abissale da Dio e ne aumenta quindi il senso di sproporzione e la nostalgia. Mi sorprendo al contrario a cercare il lavoro, i rapporti, per sperimentare con meno acutezza questa lontananza. Mi sorprendo ad essere meno desiderosa di una vera moralità della mia vita, perché mi sembra che ogni mio impegno non mi avvicini comunque alla meta [è la logica: il tempo non ha senso, la storia non ha senso]. Così finisco per rimproverarmi, a seconda dei casi, o perché sono impaziente o perché fuggo per comodo la fatica di un’ascesi e della missione che mi è richiesta. Ma non mi rappacifico in questo rimprovero che non diventa mai vera contrizione». Quindi, da una parte, uno tende a fuggire dall’impegno (perché: «Che senso ha?», è meglio la preghiera, la contemplazione; però anche quella fa vedere ancora più lontano); o, dall’altra parte, c’è il buttarsi nelle cose per non sentire quel disagio.
Ora, se il perché dell’attesa, se il valore dell’attesa sta nel fatto che essa è il modo con cui Dio libera la nostra vita e usa misericordia verso la nostra fragilità, tutto ciò che è nel tempo - tutto! - è questo volere di Dio: tutto, tutto! «Ogni cosa coopera al bene di coloro che sono santi»12, di coloro che riconoscono l’alleanza. L’alleanza è proprio Dio che si è coinvolto col tempo e con la storia, che è diventato tempo con noi. Perciò, dall’alzarsi del mattino, al mettersi i vestiti, all’andare a bere il caffelatte, a prendere il tranvai o a mettere a posto le cose, al tornare indietro e al dormire, il “come” di tutte queste cose, perciò il “come” del vivere l’attesa, cioè il “come” vivere il tempo, è la preghiera che lo chiarisce, perché deve diventare preghiera tutto quello che si fa. Se la preghiera è attesa del ritorno di Cristo, questa attesa è lo stesso tempo che viviamo, lo stesso tempo con i suoi contenuti: perché l’alzarsi o il mangiare o l’andare a lavorare è preghiera, deve diventare preghiera, deve diventare domanda. Questo è il significato della parola più compiuta e vera, definitiva, che è la parola “offerta”, come tante volte abbiamo detto e come non è tedioso a me ripetervi e a voi è necessario sentire.


***

«Mi è motivo di inquietitudine [diceva in principio la lettera] il sentire che non sono e non sarò mai garantita nella perseveranza nella mia fede [potrei dire vocazione, è identico]; è motivo di inquietitudine il fatto che la mia libertà è e sarà sempre nella possibilità di rifiutarsi a Dio. A volte me ne rimprovero come di un residuo di razionalismo». Esattamente! Proprio questo è il motivo. “Razionalismo” vuol dire l’uomo che pretende di giudicare la propria vita e le cose dal punto di vista proprio, cioè l’uomo che pretende di essere misura di tutte le cose. È l’avvenimento di Cristo che determina la nostra vita, è l’avvenimento dell’alleanza che dà il significato della nostra vita: è ciò che ci è accaduto che determina la sicurezza, la certezza, nella nostra vita. «Sì, ma io posso sempre rifiutare ciò che è accaduto». Comprendete, per favore, l’equivoco di questa obiezione: perché uno deve veramente rifiutare, e questa è una possibilità solo se uno non ricorda, se uno non fa memoria!
Insomma, che, astrattamente parlando, dal punto di vista nostro, queste frasi, queste paure, queste inquietudini siano vere, dipende solo dal fatto che il tempo, la storia, l’esistenza vocazionale e la storia, come ha detto san Pietro, ci sono dati per favorire la nostra libertà, per affermare la nostra libertà, affinché la nostra adesione al mistero di Cristo, al ritorno di Cristo, sia “nostra”. È il tempo che la fa diventare nostra, è nel tempo che diventa nostra, perché questo è il metodo che Dio ha designato. Non è meccanico, non è immediatistico, non è istintivo, non è magico. È nel tempo. Questo è un dato di fatto contro cui non si può fare nessuna obiezione, non si può dire “ma”, “se”, “però”, perché noi siamo fatti così; ogni “ma”, “se”, “però” è puramente fantasia, come l’asino con l’organetto e due ali che vola nel cielo tra stella e stella. È una pura fantasia, non esiste nessun’altra creatura fatta da Dio, se non questa. È nel tempo, cioè nel tempo vocazionale, nell’esistenza, quindi, e nella storia, che diventa nostra la risurrezione di Cristo. Ed è nel tempo e nella storia che la nostra sproporzione, la nostra lontananza, viene lentamente, nella misericordia, perdonata, cioè totalmente vinta.
Allora, siccome è nel tempo che la libertà nostra e la nostra fragilità vengono, rispettivamente, affermata e salvata - affermata la prima e salvata la seconda -, il nostro concetto, il modo con cui noi sperimentiamo la libertà e il modo con cui noi percepiamo la nostra fragilità è qualcosa in sé perennemente insicuro, rimane insicuro. Ma è perché guardiamo la libertà e la fragilità nostra, è perché mettiamo davanti agli occhi la libertà e la fragilità nostra come se fossero cose nostre, e non guardiamo invece la libertà e la fragilità dal punto di vista di Dio. È Dio, è il mistero di Dio, è Dio che ci si è donato, è la misericordia, è l’alleanza, il primo oggetto. Fuori da questo oggetto, tutto il resto si sfasa, non è più giusto.
La sicurezza, perciò, e la eliminazione dell’inquietitudine, la garanzia, come abbiamo detto in principio, la sicurezza nella fede, il cuore garantito, è la presenza dell’alleanza. Questo è il primo oggetto, è l’oggetto proprio della nostra coscienza, dentro il quale tutto si vede. Allora si capisce benissimo che l’esistenza e la storia, qualunque vicenda abbiano, sono nella certezza e nella pace. Questo è il dono di Cristo, la pace, se guardiamo tutte le cose in Cristo. Il problema perciò non è la nostra libertà o la nostra fragilità - «Chissà se aderirò o no?» -, il problema è che aumenti in noi la memoria di Cristo, e basta.
Comunque, ho detto queste due cose perché veramente la nostra preghiera manca - prima osservazione - di questa sicurezza, proprio perché non è vera domanda, non è domandare Dio, non è affermare che Dio è tutto, ma è un domandare Dio che serva la preoccupazione che abbiamo di noi stessi, e allora è finita. In secondo luogo, la preghiera è staccata dal lavoro che facciamo. E questo è un sintomo brutto e per la preghiera e per il lavoro. La nostra preghiera non è un atteggiamento che tende a investire il lavoro che facciamo. «Signore non sono degno» deve essere la coscienza con cui uno va a lavorare all’ospedale o va a lavorare nella redazione culturale o deve lavorare in casa o deve lavorare all’università, eccetera. Questo manca completamente alla nostra preghiera. Essa è tutt’al più aggiunta dall’esterno. Anche il concetto di offerta rimane come sulla soglia: «Ti offro questa azione», ma poi l’azione non ha niente a che vedere con quell’offerta. Allora, incominciamo a capire bene il valore del tempo: il tempo è quello che fa penetrare, per osmosi, lentamente, questa offerta dentro l’anima, come anima dell’azione, che investe lentamente anche il corpo dell’azione, diventa un atteggiamento e uno stato d’animo dentro l’azione, per cui lentamente e veramente l’azione resta riplasmata.
Anche noi, insomma, paghiamo il pedaggio ai “cristiani per il socialismo”, per i quali da una parte sta la preghiera e dall’altra parte sta quel che facciamo. Se teoricamente noi non siamo così, se come desiderio non siamo così, praticamente però lo siamo; e questo è il delitto, che sottrae a Dio ciò che gli è dovuto. È quello di cui parlava la preghiera che abbiamo letto poco fa: «Guarda [benigno] a noi che riconosciamo la nostra miseria [questa è la nostra miseria] e, poiché ci opprime il peso [rimorso] delle nostre colpe, ci sollevi la tua misericordia». Ma cosa vuol dire che «la misericordia ci sollevi»? Vuol dire che Dio, avendo misericordia di noi (la sua misericordia «vale più della vita»13, abbiamo detto nel salmo questa mattina), lentamente matura la nostra coscienza, matura tutte le nostre azioni come preghiera. Ma questo è il tempo, questa è l’esistenza, questa è la storia. Perché il significato della storia e del tempo è la misericordia, come ha detto san Pietro, è quella misericordia che afferma, nella nostra miseria, la verità.
Del resto, proprio il Salmo 62, che abbiamo letto stamattina e che dobbiamo personalmente rileggere, dice tutto questo, comunica questa esperienza di sicurezza totale, che non ha nulla di presuntuoso e che è perfettamente rispettosa di tutta la libertà di questo mondo, ma di una libertà vista nella realtà dell’alleanza, non vista astrattamente, filosoficamente o naturalisticamente, perché allora non c’è più da stare quieti da un’ora con l’altra. È Dio che è fedele a se stesso, non noi fedeli a Dio. Ma questo deve diventare principio del nostro sentimento e deve diventare principio del nostro agire: questa è la conversione. Ed è questo ciò a cui la Quaresima richiama, come nessun altro tempo, è questo che la Quaresima deve operare in noi («segno sacramentale della conversione»). «Quando nel mio giaciglio di te mi ricordo e penso a te nelle veglie notturne [è il simbolo dell’inquietitudine dell’uomo, perché ha mangiato troppo o perché ha avuto una delusione amorosa o perché ha fatto bancarotta fraudolenta], a te che sei stato il mio aiuto [memoria], esulto di gioia all’ombra delle tue ali»14. Queste cose, quando le leggiamo, ci commuovono, ma non diventano criterio del nostro pregare, perciò non diventano criterio del nostro vivere, e il “come” dell’attesa va a finire in una confusione.

2. Digiuno
Il secondo tema, la seconda indicazione che dava la preghiera della liturgia come fattore del segno della Quaresima, della realtà fisica, visibile, che contiene l’azione sacramentale, è la parola “digiuno”. Non potevano usare la parola “sacrificio”, perché questa parola aveva un senso troppo propriamente religioso e cultuale. Per noi “sacrificio” è più generico, perciò noi possiamo mettere senz’altro la parola “sacrificio” invece che “digiuno”, o “mortificazione”, proprio nel senso ristretto del termine. Stiamo parlando nel senso ristretto del termine: fare dei sacrifici o fare mortificazioni o fare digiuno. Immediatamente questo significa una temperanza nell’impeto, nell’istinto, una temperanza nell’uso dell’istinto. Temperare, in latino, vuol dire governare secondo lo scopo, allo scopo, perciò mantenere nell’ordine. L’ordine è il rapporto della cosa al suo scopo, sia come direzione sia come tempo. Temperare, governare la cosa allo scopo è perciò mantenere la cosa nell’ordine dinamico verso il suo scopo.
Potremmo allora tradurre l’invito al sacrificio, l’invito alla mortificazione e al digiuno, come fedeltà al “più significativo” nella cosa. Nella cosa in cui ci dobbiamo temperare, nella cosa in cui ci dobbiamo mortificare e sacrificare, la norma è la fedeltà a ciò che è significativo, al significato della cosa. Diciamo: il sacrificio è la fedeltà al “più significativo”. C’è, infatti, un significato immediato della cosa: uno ha fame, si avventa; uno prova affezione, “tac”, si “accolla”. Ci sarebbe anche un terzo campo, citiamolo per amor di completezza, che è la vanagloria, l’orgoglio, o meglio, la sete di possesso, ma di possesso economico-politico. Lo indica san Giovanni nella sua prima lettera: «Concupiscentia carnis, concupiscentia oculorum, superbia vitae»15. Una ingordigia nell’istinto, una non-temperanza nell’istinto.
Ma io voglio che ci soffermiamo di più sulla definizione che ho dato di sacrificio come fedeltà a ciò che è più significativo nella cosa. Nel mangiare e bere ciò che è più significativo è che essi sono strumenti per il nostro cammino, non è l’abboffarsi o il sentire tutto il palato reagire dolcemente e vibrantemente al contatto con le molecole del vino. Perciò, io richiamo noi stessi a questa mortificazione come espressione concreta della ricerca del più significativo, anche nel mangiare e nel bere. La parola digiuno immediatamente, infatti, nella storia liturgica, indicava questo (per chi invece normalmente è “pittima” nel mangiare, è l’inverso il più significativo).
Ma soprattutto dobbiamo centrare la nostra attenzione sull’affettività (la terza cosa, quella dell’affermazione ingorda di sé, potrà essere ricuperata nell’altra indicazione liturgica, che parla della carità fraterna): è proprio nell’affettività che questo sacrificio, questa mortificazione, come fedeltà al più significativo, deve agire, e deve agire stando bene all’erta, deve agire senza posa, senza addormentarsi, senza parentesi di dimenticanza. Fedeltà al più significativo: nell’affezione il più significativo non è l’aderire al riverbero immediato che l’affezione (a qualunque livello e qualunque colore, qualunque nome, possa avere) ha. Per cui, c’è un affiatamento che, espresso in un certo modo, divide e c’è una tensione che, se non è temperata, altera, fa uscire dalla strada. Comunque, basta la vostra riflessione sulla formula “fedeltà al più significativo”.
Del resto, la parola mortificazione non ci deve impaurire, perché la morte è già in quella separazione per cui, anche nell’intimità più grande, uno non può immedesimarsi veramente con l’altro. Ciò che fa immedesimare veramente con l’altro è proprio la ricerca del più significativo, è la fedeltà al più significativo, perché l’immedesimazione totale è «in Cristo»16, come diceva san Paolo. La formula di san Paolo - «in Cristo», «fate tutto in Cristo», «il mondo in Cristo» - indica l’unità profonda e finale fra tutto, come ciò cui siamo destinati. E se noi diciamo sempre che la liberazione è l’unità e che la schiavitù è la divisione, dobbiamo sentire questo richiamo, non come nemico, ma come amico.
C’è un riverbero di questa “fedeltà al più significativo” - che deve operare atteggiamenti di reale mortificazione, deve instaurare componenti di reale mortificazione -, c’è un test, un risultato: la libertà, la libertà nella cosa. Questo è proprio un test. È da questo che si percepisce fisicamente la fedeltà al più significativo, ed è questo che la mortificazione opera, è questo che la mortificazione esalta, edifica: la libertà. Libertà dal risultato, per cui uno finalmente è capace di voler bene all’altro, libero dalla risposta dell’altro, dal modo di corrispondenza dell’altro: è veramente la libertà, è veramente l’amare e basta, l’amore finalmente senza la menzogna. E, in secondo luogo, la libertà da se stessi, cioè dal gusto. La libertà dal risultato, dall’altro, e la libertà dal gusto (anche dalla montagna, per esempio, dalla neve, dalla roccia e dal ghiacciaio; altrimenti, se non è la ricerca del più significativo, l’andarci diventa fare il Club Alpino).

3. Carità fraterna
La terza cosa che la preghiera liturgica ci indicava è la carità fraterna. Anche qui, indico ciò in cui la conversione deve avvenire, gli aspetti più crudi in cui la conversione deve avvenire, riservandomi di dettagliare sulla vita della casa in un’altra occasione. Prima di tutto accenno alcune indicazioni generali, da rendere concrete nella riflessione.
Noi trattiamo gli altri mutilando normalmente la loro storia, come giustamente hanno fatto osservare in un raduno. Cosa vuol dire mutilare la storia dell’altro o mutilare la persona, ridurre l’altro e ridurre la storia dell’altro? Tendiamo a ridurre la storia dell’altro ai nostri criteri e alle nostre misure, al nostro stato d’animo quindi, alla nostra convenienza, alla nostra valutazione delle cose. Tendiamo a ridurre la storia dell’altro a questo e tendiamo a mutilare la personalità dell’altro, perché sottolineiamo quello che ci interessa, quello che corrisponde, e quello che non corrisponde e non ci interessa non lo guardiamo, oppure abbiamo una rabbia contro. Vale a dire, è la strumentalizzazione dell’altro. Questo è il primo colossale e permanente peccato nei nostri rapporti: la strumentalizzazione dell’altro.
Il secondo aspetto che sottolineo, fra tutti quelli che si possono richiamare, è una modulazione di questa mutilazione dell’altro e di questa riduzione della storia dell’altro, di questa strumentalizzazione, che si chiama indifferenza all’altro. Badate, per favore, di sottolinearlo questo, perché venendo nelle vostre case o guardando il Gruppo Adulto, lo si nota a vista d’occhio, colpisce l’occhio: l’indifferenza all’altro. Certo, a periodi. Poi c’è il momento in cui ti interessa, ma fuori del momento in cui ti interessa, sei indifferente.
Il terzo aspetto è quello che la liturgia ieri sera chiamava «puntare il dito»17, cioè l’ira, o come risentimento interiore o come risentimento esploso o come risentimento serpeggiante (lamento e mormorazione).
Quello che origina questi gravi errori nella carità fraterna, che la Quaresima ci invita a tener d’occhio - tener d’occhio vuol dire che ogni giorno dovete fare l’esame di coscienza su questi punti; fare l’esame di coscienza significa chiedere a Cristo che queste cose vengano perdonate dalla Sua misericordia, perciò nella nostra storia riassorbite, eliminate; senza questa pazienza non è chiedere -, quello che origina questi errori nella carità fraterna è la mancanza della “semplicità del cuore”, che è l’aspetto psicologico della “povertà dello spirito”.
Insistiamo sulla parola “semplicità”, la semplicità del cuore. La semplicità del cuore vive la memoria nel rapporto. È la semplicità che non giudica l’altro, perché, come diceva san Paolo nella Lettera ai Romani, «l’uomo sta di fronte al suo Signore o cade di fronte al suo Signore»18 («Domino suo stat aut cadit», di fronte al suo Signore sta in piedi o cade). Non giudica l’altro, ma, di fronte all’altro, la semplicità del cuore cerca di rispondere solo al richiamo di Dio per la propria maturità che è nell’atteggiamento dell’altro: l’atteggiamento dell’altro è il modo con cui Dio mi richiama alla mia maturità, sia esso di esempio, si esso di cattivo esempio. Perciò, nel rapporto manca la carità fraterna perché manca la semplicità del cuore nel giudizio, la semplicità della fede, perché la presenza dell’altro è il modo esistenziale, storico, con cui Dio mi chiama - chiama me! - alla mia maturità, mi richiama alla mia maturità.
Questi sono i punti di quella pratica ascetica che è il segno sacramentale della Quaresima, che è il segno dentro il mistero trasformatore della Quaresima. L’aspetto della Quaresima deve essere questa pratica, non presumendo dalla pratica, ma perché questa pratica ascetica costituisce lo strumento espressivo (come la parola nell’affetto), la nostra parola balbuziente, infantile, caotica, impotente, di risposta all’amore di Cristo. È esattamente questa pratica ascetica che tenta di esprimere, durante la Quaresima, quella fede per cui Cristo è tutto per noi e per il mondo.
Una pratica ascetica, badate, è fatta sempre di due radici; per vivere queste cose occorrono due radici. La prima è il giudizio di valore, che si chiama fede, poiché la fede è un giudizio di valore. Cosa sei tu, per me, adesso? Cosa sei tu che mi stai davanti? Questo è il punto. È un giudizio di valore che risponde a questa domanda, ed è questo giudizio di valore che, rispondendo a questa domanda, imposta il mio rapporto, anche se poi non saprò mantenerlo.
La seconda radice è la fatica personale. Per questo dovremmo realmente eliminarla, come formula: «Faccio fatica, che fatica!». «Che fatica!» ancora si può dire come esclamazione. Ma «faccio fatica!», come inizio di un dialogo, come questione che si pone in un confronto autorevole oppure in un confronto fraterno, «faccio fatica» come problema che si sottopone, dovremmo proprio tirarlo via, sarebbe meglio. Perché è ovvio. Invece, quando uno dice: «Che buono questo cibo!», allora, sì, può dire: «Che fatica, che mal di pancia». Ma «faccio fatica» come problema che si sottopone è perfettamente inutile, è realmente perdere tempo, fare gli evasivi.
Il vangelo di oggi19, che è quello della tentazione di Cristo, è una pagina di estrema lucidità come insegnamento per noi. Tutta la tentazione su quale punto fa perno? Su un giudizio di valore. Prima l’istinto: hai fame, dunque mangia. Poi il tentatore diventa scaltro, perché vede che Gesù risponde: «Non di solo pane vive l’uomo» (c’è una misura). Allora è proprio sui valori che costruisce la tentazione. Sono valori quelli che dopo dice, e infatti sono detti con la parola di Dio; sono valori quelli che dice, ma valori strappati al contesto dell’alleanza, vale a dire alla storia di Dio, strappati alla loro verità, come il concetto di libertà o come il concetto di fragilità e di peccato, così come li usiamo di solito: sono strappati alla loro verità, che è il contesto dell’alleanza, della storia.
A noi, invece, è stato detto: «Beati, beati, beati voi, perché a voi è stato dato conoscere il Mistero»20.

Note1 «Dio, nostro Padre, con la celebrazione di questa Quaresima, segno sacramentale della nostra conversione, concedi a noi tuoi fedeli di crescere nella conoscenza del mistero di Cristo e di testimoniarlo con una degna condotta di vita».
2 Colletta della terza domenica di Quaresima, rito romano.
3 «[Il profeta] rende presente a Dio tutto il popolo, nella preghiera e nell’implorazione (Es 33,12-13): in essa egli chiede non una cosa o un’altra, ma Dio stesso, la sua presenza, la sua compagnia manifesta, il suo aiuto, il continuo rendersi attuale dell’alleanza (Es 33,14-17)» (Scuola di comunità 1974-75: La riconciliazione cristiana - 2. Liberazione dal peccato, pro manuscripto, p. 28).
4 Cfr. Ap 22,20.
5 Cfr. Gal 4,6.
6 Cfr. Lc 11,13.
7 Fil 2,17.
8 G. Leopardi, L’infinito, v. 15, in Cara beltà…, Bur, Milano 1996, p. 45.
9 Cfr. Is 55,8.
10 Cfr. O. Milosz, Miguel Mañara, Jaca Book, Milano 2001, p. 68.
11 Cfr. 2Pt 3,8-13.
12 Cfr. Rm 8,28.
13 Sal 63 (62),4.
14 Sal 63 (62),7-8.
15 1Gv 2,16.
16 Gal 3,28.
17 Liturgia del sabato dopo le ceneri, rito romano: Is 58,9.
18 Cfr. Rm 14,4.
19 Prima domenica di Quaresima in rito romano, anno A: Mt 4,1-11.
20 Cfr. Lc 8,10.
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Don Luigi Giussani nelle parole di don Massimo Camisasca


(ZENIT.org).- Riportiamo di seguito l’intervista a don Massimo Camisasca, fondatore della Fraternità Sacerdotale dei Missionari di San Carlo Borromeo, pubblicata sul decimo numero della rivista “Paulus” (aprile 2009), dedicato al tema “Paolo educatore alla libertà”.
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«L’educazione è l’introduzione alla realtà totale». Basterebbe questa sola citazione di don Luigi Giussani per intuire che il suo nome dovrà figurare tra i grandi della pedagogia. Anche se il termine “pedagogo” appare molto riduttivo: Benedetto XVI ha definito l’educatore come «testimone della verità e del bene» (Lettera sul compito urgente dell’educazione). Una distinzione, questa, molto cara anche a san Paolo. Abbiamo chiesto a don Massimo Camisasca – amico di don Giussani, autore di una sua importante biografia e della trilogia dedicata alla storia di Comunione e Liberazione – di raccontarci il rapporto tra l’Apostolo e l’educatore.
«Comunione» e «libertà» sono due termini chiave nell’epistolario paolino. San Paolo occupa un posto particolare nella riflessione e nell’esperienza di don Giussani?
«Penso che, assieme a san Giovanni, san Paolo sia l’autore di tutto il Nuovo Testamento più citato da don Giussani. Non è un caso. Da san Giovanni Giussani traeva la penetrazione del mistero dell’incarnazione; da san Paolo l’identità del cristiano come persona resa nuova dall’immersione nell’evento di grazia della morte e resurrezione di Gesù. Quando si avranno a disposizione le ricorrenze bibliche dell’intera opera di Giussani certamente un posto particolare occuperà la Lettera ai Galati: “Tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3,28)… “Ciò che conta è l’essere nuova creatura” (Gal 6,15)… “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato sé stesso per me” (Gal 2,20). Giussani ha commentato tutto san Paolo, ma questi temi che ho citato sono stati quelli centrali della sua predicazione, soprattutto durante gli anni ’70 e ’80, quando l’ontologia cristiana sembrava dissolversi in un’azione per gli altri che aveva perso le proprie radici. Per questo, giustamente, il nome che il movimento prenderà, dal 1969 in poi, è un’endiadi di due parole paoline. La comunione, affermata come la vera strada per la salvezza dell’uomo, dono di Dio agli uomini, è proprio quell’essere uno in Gesù Cristo di cui parla Paolo. E la liberazione, termine nuovo con cui esprimere la parola salvezza, rivela l’attualità dell’umanesimo cristiano. Come ai tempi di Paolo, anche oggi la libertà è l’esperienza più attesa e interessante per l’uomo».
San Paolo dimostra la ragionevolezza della fede e la necessità di aprirsi all’Altro. Nei tre volumi del PerCorso trovo citati per ben 3 volte questi testi paolini: il discorso all’Areopago e Romani 7,24 («Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?»).
«L’insegnamento e l’opera educativa di Giussani sono tesi a mostrare che la fede è il vertice della conoscenza. Certo, un vertice che è dono di Dio all’uomo, ma che non smentisce in nulla le esigenze della ragione. Le compie soltanto. Anzi, la fede è un rapporto fiduciale con un testimone che mi comunica qualcosa o qualcuno che conosco attraverso di lui. Un testimone a cui debbo fiducia, perché so che non sbaglia e non vuole mentirmi. è l’itinerario della nostra stessa vita quotidiana a essere permeato da questa dinamica. Ecco il cuore dell’insegnamento di Giussani sul senso religioso, sulla moralità nei rapporti umani, sull’educazione che Dio ha operato nel suo popolo d’Israele, e infine su quella che Gesù ha vissuto presso gli apostoli e i discepoli, e più in generale verso coloro che incontrava. È ancora oggi l’educazione di cui la Chiesa si sente responsabile verso gli uomini del nostro tempo. Ripercorrendo e commentando l’episodio del discorso di Paolo all’Areopago, Giussani aveva modo, già durante le lezioni ai liceali del Berchet che ho potuto ascoltare nella mia giovinezza, di mostrare in Paolo i fili di questa pedagogia: “Ciò che voi attendete, anche senza saperlo, io l’ho visto, l’ho incontrato. E voglio testimoniarlo”».
Paolo aggiunge che la ragione – senza la fede – può smarrire se stessa. Ne Il senso religioso, Giussani riprende Rm 1,22-31 dove si afferma che la ragione o giunge naturalmente alla conoscenza di Dio, o si chiude nei «vani ragionamenti» delle idolatrie… ovvero delle ideologie.
«Nel primo capitolo della Lettera ai Romani san Paolo denuncia il pervertimento della ragione andando ben al di là di un’accusa al mondo pagano di allora. Non è un caso che Giussani si appoggiasse proprio a quel testo per mostrare i possibili rischi della ragione che perde il senso del proprio limite e così anche della propria grandezza. La ragione che vaneggia nei suoi ragionamenti, che rifiuta di riconoscere Dio, che non sa più stupirsi di fronte alle sue perfezioni, di fronte alla perfezione delle opere da lui compiute. È ciò di cui parla san Paolo ai cristiani di allora, ma è anche la lettura che Giussani fa della crisi della ragione nell’epoca moderna. C’è una straordinaria continuità tra il discorso giussaniano sulla ragione e quello condotto da Benedetto XVI in questi primi anni del suo pontificato».
San Paolo, uomo sempre aperto al Mistero di una realtà inesauribile, ci sorprende con un’affermazione attualissima: «Se qualcuno crede di conoscere qualche cosa, non ha ancora imparato come bisogna conoscere» (1Cor 8,2).
«Ciò che Paolo vuole colpire è la superbia degli intellettuali. Di coloro cioè che ritengono la conoscenza superiore a ogni carità. Mentre, all’opposto, è soltanto l’amore che conosce. C’è un filone molto importante, anzi decisivo, per comprendere l’animo e il pensiero di don Giussani.
Ed è quello della conoscenza affettiva. Per lui veramente solo l’amore conosce. Da ragazzi ci ricordava questa espressione di sant’Agostino: nemo cognoscitur nisi per amicitiam, nessuno è conosciuto se non attraverso l’amicizia. È l’ipotesi positiva con cui guardare alla vita che abbiamo visto in lui, con cui guardare agli uomini, soprattutto a quelli nuovi, sconosciuti, attraverso cui la novità entra nella nostra esistenza, quel nuovo orizzonte che sa parlarci di Dio. Non dobbiamo dimenticare la definizione di cultura che ha dato don Giussani, tratta proprio da san Paolo: “Vagliate ogni cosa, trattenete il valore” (cfr. 1Ts 5,21)… così lui amava tradurre».
In Filippesi 4,8 Paolo invita a considerare ciò che è «vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato…». Qual è stata la novità pedagogica di don Giussani nel parlare all’uomo contemporaneo?
«L’atmosfera giussaniana è molto vicina a questo versetto della Lettera ai Filippesi, come anche di quelli che lo precedono. Si parla di “gioia nel Signore”, determinata dalla certezza della sua presenza. E non è un caso che Giussani abbia commentato più volte questi testi, proprio nell’imminenza del Natale. In particolare il versetto 8 indica l’apertura dell’animo di Paolo, dell’animo cristiano. Il cristianesimo non è una rinuncia, è un’affermazione. San Paolo – che pure dirà “considero tutto spazzatura di fronte a Cristo” – sa benissimo che quella frase è l’espressione di una positività di tutto, e non di un’esclusione. Proprio perché in Cristo c’è tutto e tutto trova il suo valore, si può rinunciare a ciò che non c’entra con lui. Giussani ha saputo parlare all’uomo contemporaneo innanzitutto perché gli ha mostrato che seguire Cristo è un atto vitale, in cui tutto ciò che è interessante per l’uomo trova la sua pienezza e la sua fioritura. La letteratura – soprattutto la poesia, la pittura, la musica, il cinema, il teatro… tutto l’umano insomma – era oggetto dell’attenzione e dell’interesse di don Giussani. Nulla sentiva estraneo al dialogo fra l’uomo e Cristo.  E tutto era espressione dell’uomo che cerca o dell’uomo che infine ha trovato».
Proprio come Paolo, Giussani non è stato solo un “pedagogo” eccezionale, ma un vero “padre in Cristo”. Può darci una sua testimonianza personale?
«L’insegnamento e l’opera educativa sono stati inscindibilmente l’anima di tutta la vita di don Giussani. La sua scuola di religione, come amava dire, prima al Berchet e poi all’Università Cattolica, è stata certamente il fuoco di tutta la sua vita, il luogo da cui tutto è partito. Ma quel fuoco, quelle parole, dovevano poi scendere nell’animo e nella mente dei ragazzi, dovevano diventare giudizio, passione, costruzione. Da qui la sua tensione di educatore, che si sviluppava sia nel dialogo personale, sia – e soprattutto – nella creazione di luoghi umani in cui le persone potessero trovare quella compagnia quotidiana che fa sperimentare le parole nell’impatto con la vita di tutti i giorni. È nella comunità, infatti, che lo Spirito plasma la nostra persona, soprattutto attraverso la docilità a Dio, cioè la preghiera, attraverso la grazia dei sacramenti, attraverso la carità dei fratelli, attraverso la testimonianza di Cristo negli ambienti della vita dell’uomo. Sono rimasto talmente affascinato dall’opera di don Giussani come insegnante ed educatore che ho cercato di mettermi sulle sue tracce. Con lui ho deciso di iscrivermi alla facoltà di Filosofia, dopo la terza liceo. Volevo allora diventare domenicano. Poi ho incominciato a insegnare nei licei e all’università. L’insegnamento nelle scuole è stata una delle passioni della mia vita, purtroppo vissuta solo in modo frammentario. Altre occupazioni, infatti, mi hanno allontanato dalla scuola. Ma, per fortuna, sono sempre state occupazioni legate all’educazione dei ragazzi. Così, anche quando non insegnavo a scuola, ero pur sempre un insegnante per coloro che sceglievano di partecipare alla mia stessa vita. In un libro recentemente pubblicato su don Giussani [Don Giussani. La sua esperienza dell’uomo e di Dio, San Paolo 2009], che è una prima sintesi di tutto il suo pensiero, mi sono permesso di scrivere che l’educazione è la cifra riassuntiva dell’intera esistenza del sacerdote di Desio. E ho invitato a rileggere Il rischio educativo, un libro nato addirittura nel 1960, ma sempre attuale».
…e proprio nell’omonima conferenza del 1985, Giussani affermava che – per lui – la più bella frase della Bibbia è il motto paolino In spe contra spem, riferito alla sempre incerta risposta alla proposta educativa.
«Non è un caso che Giussani abbia intitolato quella raccolta di suoi scritti sull’educazione con un’espressione che coinvolge la parola “rischio”. L’animo battagliero di Giussani si è riconosciuto bene in questa frase di san Paolo: sperare contro ogni speranza, sperare cioè oltre l’apparente fallimento di ogni speranza umana. I francesi hanno due belle parole: espoir e esperance. Noi, in italiano, non abbiamo questa sfumatura. Don Giussani sapeva che il cammino dell’uomo è pieno di cadute, di ribellioni, di drammi, di rivolte, di sangue. Ma sapeva anche molto bene che Dio non viene meno nelle sue promesse. Per questo, allontanato dal suo movimento nel 1965, ha atteso pazientemente il momento e la possibilità di ritornarvi. Criticato da molti, ha visto infine l’abbraccio della Chiesa nel riconoscimento pontificio del 1982. Nel maggio 1998, ormai quasi impossibilitato a muoversi, in Piazza San Pietro a Roma si è inginocchiato davanti al Papa, nel momento conclusivo della sua vita pubblica, quando veniva riconosciuto non soltanto attraverso un decreto della Santa Sede, come 16 anni prima, ma sotto gli occhi di tutto il mondo. Don Giussani ha visto la crisi del proprio movimento, nel 1965-68, ma non ha dubitato che potesse continuare. “La nostra comunione – disse allora – inizia con un inizio che rimane per l’eternità. Dio, infatti, non fa le cose per togliere. L’unico vero delitto, dal punto di vista del comportamento storico, può essere l’impazienza”».
La Fraternità missionaria San Carlo da lei fondata a partire dal carisma di CL è oggi presente in 20 Paesi di quattro continenti. Si parla del problema delle vocazioni… ma lei, quando guarda negli occhi un giovane che dice il suo “Sì!”, cosa vede? cosa fa lasciare tutto per andare in capo al mondo?
«Il problema delle vocazioni è per me unicamente un problema dei responsabili delle comunità. Dio, infatti, chiama ed attrae sempre. Ma chiama attraverso gli uomini e quando gli uomini non sono più credibili il suo richiamo, la sua voce, giunge stentorea, e non affascinante. Per questo, di fronte al bene delle nostre comunità, siamo in campo soprattutto noi, i responsabili, la nostra fede e la nostra carità. Quando arriva un nuovo seminarista nel mio seminario, quando uno di loro conclude il suo itinerario e viene ordinato, quando mi dice “Sì” rispetto a una nuova destinazione missionaria, ciò che vedo è esattamente il mondo nel giorno della Creazione. Ogni sì è il primo sì, quando dal nulla assoluto tutto è uscito, quando nel dialogo misteriosissimo fra il Padre e il Figlio a un certo punto è scaturito l’universo, e in esso l’uomo, la natura, le cose. Penso poi al sì di Maria, che è lo spazio eterno e temporale di ogni sì. Ogni vocazione scaturisce e viene accompagnata permanentemente da quella obbedienza. Anch’io mi chiedo ogni volta, e mi sono chiesto soprattutto quando ho visto partire i primi missionari per la Siberia, e poi quelli per Taiwan: “Che cosa può permettere a un ragazzo di andare così lontano, e per sempre?”. Soltanto la scoperta che egli, in realtà, ha ottenuto una tale pienezza di vita e di doni da non perdere nulla. Da questo punto di vista la vita comune è un grande dono. Nella carità affettiva di una comunità come la nostra non sono eliminate le differenze, né le difficoltà, le tensioni o le liti, ma è assicurato un luogo in cui il cuore può trovare la propria pace. Chi va lontano scopre che questa è la modalità per essere vicino, perché ogni vicinanza è assicurata nel tempo soltanto dal sacrificio».
Paolo Pegoraro