sabato 11 giugno 2016

Da leggere, con due calzini infilati nel naso...



Ricchezza giusta solo se migliora il mondo
Sole 24 Ore
(Nunzio Galantino) Di economia si vive. Ma di economia si può anche morire, anzi l' economia "può uccidere", come recita il titolo di un libro pubblicato lo scorso anno (A. Tornielli - G. Galeazzi, Papa Francesco. Questa economia uccide, Piemme, Milano 2015). Soprattutto quando l' economia smette di svilupparsi al servizio delle persone e specie quando i macro-progetti perdono di vista le storie e i volti delle persone al servizio dei quali l' economia deve porsi. Si muore soprattutto quando, in nome della salvezza dell' economia, si giustificano scelte che calpestano la dignità delle persone e si negano a queste i diritti fondamentali. Prima di mettere per iscritto le mie considerazioni per questa rubrica, ho sentito forte il bisogno di ricordare prima di tutto a me i motivi che, qualche mese fa, mi hanno spinto ad accettare l' invito a collaborare con il Sole 24 Ore. Alla richiesta fattami dal direttore Roberto Napoletano dissi che, accettando, avrei voluto condividere con i lettori esperienze, incontri e provocazioni che mi vien dato di vivere nel mio movimentato percorrere la Penisola. "Testimonianze dai confini"- come rubrica settimanale - cerca di dare senso, ragione e unità a tutto questo. Finora i confini da me frequentati si sono rivelati carichi di provocazioni. Qualche volta mi hanno spinto a prendere posizione chiara rispetto ad atteggiamenti che continuo a considerare poco produttivi per far crescere la diffusa consapevolezza e la responsabilità comune su temi di pubblico interesse. Questa volta voglio condividere con i lettori l' esperienza di un incontro che mi ha sorpreso sia per la provenienza dei protagonisti sia per i contenuti che l' incontro ha fatto emergere. Ho potuto dialogare con circa duecento imprenditori accomunati dal desiderio - questo, almeno, ho percepito - di raccontare la loro esperienza di uomini e donne per niente disposti a trasformarsi in terminali inconcludenti di "provviste" provenienti dall' alto o da anonimi e iper-tecnologizzati prodotti finanziari. Ho incontrato uomini e donne che stanno rispondendo alla crisi, trasformandola in occasione per liberare energie e per avviare processi davvero virtuosi. Mi hanno particolarmente colpito le considerazioni che accompagnavano e motivavano esperienze imprenditoriali di grande spessore e di efficace produttività. Ma mi ha colpito anche la qualità del racconto di chi, dando valore alla vocazione imprenditoriale, continua a mettersi in gioco, sfidando regole obsolete e inventandosene di nuove, che hanno un comune denominatore: il rispetto della persona, intesa come autore, centro e fine di tutta la vita economico-sociale (cf. Gaudium et spes, n. 63). A cominciare dalla propria. Se dovessi dire a quale gruppo o associazione appartenessero questi imprenditori, non saprei farlo. Non per ignoranza da parte mia, ma solo perché si tratta di gente convocata da un' associazione senza tessere: l' Unione cristiana imprenditori dirigenti. Mi sono fidato di chi mi ha invitato e ho portato il mio contributo al convegno su un tema che mi è parso dinamico e aperto sin dal suo titolo: "Dall' Impresa all' imprenditore". Cioè, dalla struttura a chi è chiamato a dare un' anima alla struttura imprenditoriale; con il sottintes che se non si dà il giusto peso alla persona, le regole rischiano di schiacciare e fare vittime. La nostra è una stagione in cui si sono moltiplicati i "cercatori di risposte" perché è cresciuto il numero di quanti, pur essendo carichi di interrogativi, non sopportano più gli imbonitori di turno e hanno imparato a distinguere i venditori di fumo dalle persone che, senza avere la pretesa di possedere ricette decisive, sono in grado di indicare percorsi e di provocare risposte condivise. È quello che ho riscontrato sul volto dei convenuti all' incontro romano e nelle parole degli intervenuti. Certo, le occasioni di confronto sui temi di economia e su quelli dell' impresa, in Italia, non stanno mancando. Si è svolto solo nei giorni scorsi il Festival dell' Economia a Trento, promosso ogni anno dal professor Tito Boeri, attuale presidente dell' Inps. Dal suo osservatorio non manca di far sentire la sua voce preoccupata su fronti che, secondo alcuni, non dovrebbero competergli: la casta e i suoi costi, il futuro incerto delle pensioni dei giovani, l' orizzonte oscuro del loro lavoro, provando anche a dare qualche sferzante rimprovero a quanti mancano clamorosamente i loro compiti di vigilanza. Se da un lato, Trento è stata un' occasione di confronto, dall' altro l' incontro "Dall' Impresa all' imprenditore" ha avuto dei risvolti molto interessanti, perché ha provato a mettere - o rimettere - al centro dell' impresa la persona. Quanta inutile sorpresa mi capita di cogliere sul volto e nelle parole di chi scopre che mettere al centro la persona è e ha un valore in sé, a prescindere dal Vangelo e da dettami di natura religiosa! Nell' intervista pubblica, Paolo Ruffini, direttore della dinamica emittente televisiva Tv 2000, mi ha chiesto come l' ottica ecclesiale possa entrare in gioco in un' economia sana, senza tuttavia perdere in termini di profitto e senza trasformarsi in un percorso improponibile per chi ha un' attività economica, dove il guadagno è di certo indispensabile. L' intervistatore mi ha detto, forse pungolandomi, che i valori cristiani sono certamente belli e nobili, ma che oggi sono un po' lontani dalle esigenze degli uomini, perché gli imprenditori, pur dovendo uscire da una visione omologata dell' economia, hanno bisogno di un' ottica più rigidamente laica e di profitto per sopravvivere. Ho fatto notare che la Chiesa, nella misura in cui segue e si interessa in maniera corretta ai temi dell' economia e dell' impresa, non condanna né limita il giusto guadagno, tutelando sani modelli di welfare, che non massacrino l' uomo sotto l' egida assoluta del profitto. Caritas italiana, un po' di anni fa, credo nel 2004, pubblicò un documento sul microcredito come sostegno per un possibile modello economico sostenibile, incardinato sul sistema "no profit" che gravita intorno al Terzo settore e proponibile nell' ottica di quell' economia sociale nata in Francia nel XIX secolo, dove vi erano esperienze cooperativistiche e mutualistiche. Questi modelli son continuati in alcuni contesti, anche nei progetti della Conferenza episcopale italiana; in specie, vorrei ricordare quelle diocesi che hanno creato dei fondi specifici di micro-credito. Non voglio di certo dire che questa sia l' unica soluzione convincente in termini primariamente economici. Si tratta di esempi ispirati alla Dottrina sociale della Chiesa che possono dirci come l' economia non sia condannata a sottostare ad approcci meccanicistici e funzionali a logiche di natura marcatamente ideologica. La Chiesa, come ogni persona di buon senso, non combatte la ricchezza… a prescindere. L' auspicio è che la ricchezza, prodotta dall' impegno e dall' ingegno di chi in essa ha creduto investendoci, porti al miglioramento del mondo circostante. Giovanni Paolo II scrisse: «La dottrina sociale della Chiesa non è una "terza via" tra capitalismo liberista e collettivismo marxista, e neppure una possibile alternativa per altre soluzioni meno radicalmente contrapposte: essa costituisce una categoria a sé. Non è neppure un' ideologia, ma l' accurata formulazione dei risultati di un' attenta riflessione sulle complesse realtà dell' esistenza dell' uomo, nella società e nel contesto internazionale, alla luce della fede e della tradizione ecclesiale. […] Ma conviene chiarire che l' annuncio è sempre più importante della denuncia, e questa non può prescindere da quello, che le offre la vera solidità e la forza della motivazione più alta» (Sollicitudo rei socialis, n. 41). L' economia non è stata l' unica protagonista al centro di questi miei ultimi giorni, pur essendo di certo un argomento portante anche per la Cei, in quanto si ricollega ai nostri giovani, alle famiglie e ai molti cantieri all' opera in numerose periferie, finanziati dall' 8x1000, in questo momento, nel nostro Paese. Nella mia vita, in questi giorni, c' è stato spazio anche per un' altra protagonista fragile: la Storia. A Monza, invitato da un club Unesco, sono intervenuto sull' importanza della Storia, ma in particolare - direi - sulla fragilità della memoria. La storia è una fonte ricchissima di spunti e di insegnamenti, che è sempre ingenuo e disastroso ignorare, a causa della superficialità o della fretta, o ancora a causa della presunzione che il nostro tempo sia il culmine e il compimento di quelli precedenti. La storia non va strumentalizzata. Va ascoltata con rispetto, nel tentativo di interpretarla al meglio, per ricavarne suggerimenti e moniti. Accostarsi in questo modo alla storia non è un' operazione da vecchi: non è l' attività di chi non si sente più a suo agio nel mondo che ha attorno e vuole nostalgicamente richiamare i tempi passati. Al contrario, mettersi a scuola della storia è un' operazione giovane e da giovani, di chi non si rassegna ai problemi che lo circondano ma cerca soluzioni, e si dice pronto a impegnarsi in prima persona e a collaborare, a combattere. Sono convinto che la storia renda giustizia ai morti, come abbiamo visto di recente, in Germania, con l' ammissione dell' avvenuto genocidio armeno.