venerdì 29 settembre 2017

Cosa sappiamo davvero dell’evoluzione?





(Carlo Maria Polvani) Chi non rimane affascinato ammirando le opere d’arte rupestre dipinte da uomini preistorici sulle pareti delle grotte di Altamura o di Lascaux? Chi non rimane esterrefatto esaminando la ricostruzione in scala naturale di Ötzi, l’uomo vissuto nell’età del rame, la cui mummia è conservata in una cella frigorifera del Museo archeologico dell’Alto Adige?La sete di sapere di più sui nostri primi progenitori è periodicamente stuzzicata dalla pubblicazione di nuove scoperte scientifiche che rendono sempre più composito il già fin troppo articolato quadro dell’evoluzione umana, affermatasi, da circa dieci milioni di anni, per mezzo di alcune trasformazioni in un ramo della famiglia dei primati — l’insieme delle quasi quattrocento specie suddivise in lemuri (come quelli del Madagascar), proscimmie (come i macachi o i babbuini) e scimmie antropomorfe (come i gorilla o gli scimpanzé) — quali: il triplicarsi del volume della neocorteccia e del cervelletto; il passaggio all’andatura bipede; l’apparizione del pollice opponibile; la diminuzione della percezione olfattiva rispetto a quella visiva; la perdita di peli corporei e l’aumento di ghiandole sudorifere; e la riduzione del dimorfismo sessuale, con la diminuzione della differenza di alcuni tratti distintivi degli individui di sesso maschile rispetto a quelli di sesso femminile, nella massa corporea, nella sporgenza dell’arcate sopracciliari o nella prominenza dei denti canini.
Ottima, quindi, è stata l’idea della società editrice Il Mulino di affidare a Giorgio Manzi la redazione di un saggio sulle Ultime notizie sull’evoluzione umana (Bologna, 2017, pagine 248, euro 16). In esso, il noto divulgatore scientifico aggiorna il lettore sullo stato attuale delle conoscenze scientifiche riguardo al processo di ominazione e si cimenta con il difficilissimo compito di rintracciare il possibile filo conduttore che collegherebbe alcune delle specie di ominidi (fra le tante apparse e scomparse negli ultimi due milioni di anni) possibilmente annoverabili fra quelle dei nostri progenitori, come quella dell’homo erectus (apparso 1,9 milioni di anni fa e estintosi centocinquantamila anni fa) o quella dell’homo Neanderthalensis (apparso quattrocentomila anni fa e scomparso duecentomila anni dopo). 
Dalla lettura, sempre appassionante, del saggio del professore di antropologia alla Sapienza, si esce con l’idea che il fenomeno che ha portato all’apparizione, trecento milioni di anni fa, della specie homo sapiens, non può essere descritto come una sequenza lineare di specie che, succedendosi l’una all’altra, sarebbero collegate da presunti (anche se finora elusivi) anelli mancanti, ma come un «puzzle complesso e avvincente, le cui tessere sono come pagine strappate da un libro da restaurare: la nostra preistoria».
Per spiegare questa sua interpretazione, Manzi fa ricorso alle tesi del famoso paleontologo e biologo di Harvard, Stephen Jay Gould (1941-2002), che furono al centro delle cosiddette Darwin’s Wars — i feroci dibattiti fra darwinisti riformatori, chiamati appunto gouldists, e darwinisti militanti, conosciuti come dawkinists, poiché capeggiati da due dei cosiddetti «quattro cavalieri dell’ateismo» (Richard Dawkins di Cambridge e Daniel Dennett della Tufts University). Lo scontro fra queste due visioni della teoria dell’evoluzione delle specie verteva, e verte ancora, su tre aspetti che vale la pena esaminare. Il primo riguarda la disciplina denominata “evo-devo”, da evolutionary developmental biology. La evo-devo, partendo da osservazioni sullo sviluppo fetale — allo stadio embrionale, infatti, risulta più facile vedere come l’evoluzione abbia plasmato le divergenti morfologie di specie collegate (come per esempio, il riordinamento osseo-muscolare delle zampe terrestri dei caniformi nelle pinne acquatiche dei cetacei) — deduce le relazioni ancestrali fra specie diverse. Orbene, un principio della evo-devo è che i maggiori fattori di trasformazione del patrimonio genetico siano collegati non tanto ad agenti esterni (come per esempio, l’aggressione di ossidanti o l’esposizione a raggi ultravioletti), quanto agli stessi meccanismi naturali di regolazione dei nostri geni, la cui immensa complessità fu intuita nel 1961 da Jacques Monod (1910-1976) e da François Jacob (1920-2013), con la scoperta del primo “operone” (un insieme di geni, finemente regolati in modo sincronizzato da raffinatissimi equilibri biochimici).
Il secondo aspetto riguarda il fenomeno conosciuto come “preadattamento” o “esattamento”. Nella natura, molte mutazioni sono chiamate non-adattative perché, al momento in cui emergono, non forniscono né un vantaggio né uno svantaggio in termini di sopravvivenza. Tuttavia, queste mutazioni non-adattative, una volta tramandate alle generazioni successive, possono diventare utili, sia nella specie che le ha viste nascere sia in altre specie discendenti che le hanno ereditate. Un possibile esempio di esattamento è la mutazione del gene che portò alla comparsa nei pesci — prima della comparsa degli anfibi che uscirono dagli oceani per conquistare la terraferma — di un’estroflessione dell’esofago. I vertebrati terrestri, che ereditarono questo ripiegamento verso l’esterno dell’organo proposto al passaggio del cibo dalla bocca allo stomaco, lo modificarono per ottenerne dei polmoni. Ma i pesci rimasti nei mari, avendo già le branchie per sovvenire all’ossigenazione del sangue, trasformarono tale cavità in vescica natatoria, quella cassa di zavorra naturale che, sfruttando il principio di Archimede, permette, gonfiandosi e sgonfiandosi, di salire e di scendere agevolmente a diversi livelli di profondità.
Il terzo aspetto riguarda la cosiddetta «teoria degli equilibri punteggiati», che vede i suoi sostenitori credere che i processi evolutivi si verificano per lo più quando una specie, mutando, si scinde in due, creando due “specie figlie”, diverse e separate. Questo processo, chiamato “cladogenesi” (da kladòs, ramo) — che è stato brillantemente utilizzato dal biologo tedesco Willi Hennig (1913-1976) per classificare tassonomicamente gli esseri viventi sulla base del loro ultimo progenitore comune — si oppone alla “anagenesi”, che propone invece che una specie diventi nuova accumulando un numero di mutazioni tali da sostituire quella precedente, condannata all’estinzione.
Starà quindi al lettore decidere, sulla base dei dati esposti da Manzi, se concordare con lui che sostiene come le osservazioni attuali sull’antropogenesi risultino più facilmente spiegabili ammettendo i tre principi cari a Gould, sommariamente illustrati sopra. 
Resta tuttavia un elemento che difficilmente le discussioni fra gouldisti e dawkinisti sembrano, almeno per ora, in grado di spiegare. Un essere umano condivide il novantasette per cento circa del suo Dna con uno scimpanzé. Parallelamente, un cane condivide il novantotto per cento circa del suo Dna con un lupo. Ma a nessuno sfugge che le differenze fra un cane e un lupo non sono dello stesso ordine di grandezza di quelle fra un uomo e uno scimpanzé. Quanto quindi il processo di ominazione è dipendente da fattori biochimici e non da altri, siano essi: culturali, sociali... o persino, spirituali?
Da un punto di vista genetico sembrerebbe quindi giusto definire l’uomo una “scimmia nuda” — seguendo la brillante espressione coniata dall’eziologo britannico Desmond Morris (1928) — ma forse, da molti altri punti di osservazione, tale terminologia appare imprecisa. È interessante notare che lo stesso Gould, in opposizione ai succitati scienziati dall’ateismo militante, fu l’ideatore della cosiddetta Noma (o teoria dei non-overlapping magisteria), secondo la quale la religione e la scienza non possono entrare in contraddizione, visto che hanno aree di indagine e di interesse non sovrapponibili. Alcuni ritengono che la Noma sia troppo semplicista. Il suo inventore dichiarò di averla ideata leggendo, nella Humani generis di Pio XII, il passaggio in cui veniva considerato legittimo studiare l’evoluzionismo che «sostiene l’origine del corpo umano (...) da materia organica preesistente», purché non si neghi «che le anime sono state create immediatamente» da Dio. 
È d’uopo ricordare che nel 1996, san Giovanni Paolo II, davanti alla Pontificia Accademia delle scienze, proprio in riferimento al tema dell’evoluzione, affermò che non si dovevano avere timori quando non risultasse a prima vista facile scegliere fra una proposizione di fede e una teoria scientifica poiché, come lo aveva enunziato Leone XIII nella Providentissimus Deus, «la verità non può in alcun modo contraddire la verità».

L'Osservatore Romano