mercoledì 13 giugno 2012

Portando a compimento la Torah

Di seguito il Vangelo di oggi, 13 giugno, mercoledi della X settimana del T.O., con un commento e qualche testo di approfondimento.

Compiere il bene significa pure compiere 
ciò che rende feconda e ricca l’esistenza.
Così, il bene è ciò che preserva la vita 
e la conduce alla sua pienezza,
ma soltanto quando è compiuto per se stesso.

Romano Guardini, Liberté, grâce et destinée



Mt 5,17-19 

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: “Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non son venuto per abolire, ma per dare compimento. In verità vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà dalla legge neppure un iota o un segno senza che tutto sia compiuto.
Chi dunque trasgredirà uno solo di questi precetti, anche minimi, e insegnerà agli uomini a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà agli uomini, sarà considerato grande nel regno dei cieli”.


IL COMMENTO




Nulla di noi è marginale. Tutto è santo. Tutto ci è donato per essere compiuto, colmato, secondo la traduzione letterale dal greco della parola di Gesù (“compiuto”: “riempito trabocchevolmente”). Ogni istante è come uno yod (iota in ebraico), la più piccola lettera dell’alfabeto ebraico, eppure importantissima. Decisivo per definire il significato di molte parole spesso simili, lo Yod è fondamentale per illuminare il senso delle frasi. “Ci sono due possibilità per esprimere il passato: o il verbo senza il prefisso Yod, al compiuto; o il verbo con lo Yod, all’incompiuto, preceduto da un altro prefisso che cambia l’incompiuto in compiuto. Perché allora non dire semplicemente il compiuto? Affinché il passato contenga anche la lettera dell’avvenire, per indicare che la storia non è definitivamente terminata, e che il passato contiene germi di speranza” (Marie Vidal, Un ebreo chiamato Gesù).

Un passato che si fa presente come un grembo fecondo e gravido nell'attesa del compimento. Così è la nostra vita, una raccolta di yod disseminati sul cammino di salvezza pensato e donato da Dio. Il Signore ha sete di dare compimento alle nostre esistenze, desidera ogni momento delle nostre vite, ogni aspetto, anche i peccati, sì, anche quelli, e le amarezze, e le sofferenze, le disperazioni, le angosce e i fallimenti. Gesù ha sete del nostro aceto, dell’asprezza delle nostre vita“Gesù, sapendo che ormai tutto era compiuto, disse per compiere la Scrittura: Ho sete”. E sulla croce lo riceve come l'ultimo yod necessario perchè "tutto sia compiuto". Ha reclinato il capo e spirando ci ha inondato del suo Spirito, compimento donato alla nostra vita. Da quel momento, in essa non vi è più nulla da mettere tra parentesi, rifiutare e buttar via. L'amore infatti "è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato".

Lo Spirito Santo impregna ormai la nostra vita facendone una nuova creazione: "alla fine di ogni giorno di creazione il testo biblico dice: Dio vide che era “cosa buona”. In ebraico dice: ki tob. Tob vuol dire “buono”, ma anche “bello”. Ed è questa l’idea: “E vide che (era) buono e bello, ciò che aveva fatto”. C’è proprio il godimento, il compiacersi di Dio per ciò che ha fatto" (Bruna Costacurta, Meditazioni su Genesi 1-4: creazione, peccato e redenzione). Lo Spirito Santo effuso dallo spirare di Cristo fa di ogni giorno della nostra vita come un giorno della nuova creazione, dove tutto della nostra natura e della nostra storia è ki tobkalos in greco, buono e bello perchè "tutto è compiuto"La bellezza e la bontà della vita infatti è il suo compimento nell'amore. Ma vi è qualcosa di più profondo. Con la croce Dio apre le porte alla resurrezione, all'ottavo giorno, al giorno del riposo e del compimento di ogni promessa. "Alla fine di tutto il testo biblico cambia la formula e invece di dire solo che era buono e bello, dice che era molto buono e bello. E questo è il senso del sabato. L’esplosione della bellezza e della bontà della creazione di Dio, di cui Dio stesso gode, e di cui Dio fa dono all’uomo perché anche l’uomo ne goda entrando anche lui nel sabato. Allora l’uomo è l’ultima opera di creazione, fatto nel sesto giorno, ma per poter entrare nel settimo, per poter entrare in quella dimensione di godimento del creato che è molto buono. A questo serve l’osservanza del sabato, per poter celebrare questo Dio della creazione come Dio buono che fa le cose buone, delle quali si può godere senza paura perché: “Tutto è vostro! Ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio” (1Cor 3,22-23)" (Bruna Costacurta, Meditazioni su Genesi 1-4: creazione, peccato e redenzione). Nel compiere la Scrittura Cristo compie la nostra ri-creazione, rende bello e buono ogni giorno della "settimana" che è immagine della nostra storia, e fa di ciascuno di noi, del nostro essere più intimo, del nostro carattere, dei nostri pensieri, del nostro cuore, l'opera più buona e bella tra quelle da Lui compiute. Nel compimento dell'ultimo yod della Scrittura Gesù ci ha santificato perchè potessimo godere del suo riposo e della sua gioia. 


Ci ha amati sino alla fine, sino al compimento secondo l'originale greco, sino all'ultimo yod, per farci felici e perchè potessimo accogliere e amare noi stessi e guardare e vivere la nostra vita come la soglia che ci introduce nel sabato eterno dell'intimità con Lui. Per vivere tutto senza paura, come figli amati, in una storia buona e bella tutta da gustare. Pulire la casa, studiare quella materia insopportabile, cambiare l’ennesimo pannolino, l’odore acre dell’autobus pullulante di zombi mattutini, il capoufficio, il traffico alienante, la precarietà economica, il dolore di denti, la cellulite, l’altezza, i nostri occhi, i difetti, il carattere, tutto. Ogni Yod della nostra vita può essere decisivo, e cambiare il corso dell’esistenza. La misericordia di Dio trasforma il momento più routinario in una sorgente di salvezza e di letizia. Vivere pienamente la vita è allora accogliere il senso profondo che Lui consegna ad ogni nostra ora. Anche la più dolorosa, l’ultima che ci viene donata. “Che Cristo abiti per la fede nei vostri cuori e così, radicati e fondati nella carità, siate in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, e conoscere l’amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio” (Ef 3,17-19).

Ce lo ha insegnato il Papa Giovanni Paolo II, il Grande nel Regno dei cieli, perchè non ha trascurato nulla della propria vita, nessun momento, nessun dolore. In lui Dio ha mostrato come si vive fino in fondo, insegnando agli uomini, dalla cattedra della Croce, l’amore immenso di Dio. I Suoi comandamenti infatti sono il Suo stesso amore declinato nella vita dell'uomo. Esso è attento ad ogni dettaglio, non lascia nulla al caso; i suoi precetti, parole di vita e di libertà, abbracciano in uno sguardo amorevole ogni millimetro della nostra esistenza, ogni giorno della settimana, ogni opera creata dalle sua Parola. I comandamenti sono le parole che accolgono la Parola creatrice perchè ne dia il compimento nell'amore. Osservarli, nella pura Grazia di una vita abbandonata al soffio dello Spirito Santo, significa non disprezzare nulla della nostra vita, e lasciare che l'amore colmi ogni istante, fedeli nelle piccole cose per esserlo nelle grandi, quando sarà preparato l'altare dove sacrificare la vita.

Chi, al contrario, non è fedele ai particolari sarà incapace di amare davvero, inciamperà quando urterà contro l'eccezionale di una crisi del coniuge, del figlio, dell'amico o del fidanzato. Chi trascura il "precetto minimo" si ritroverà con un "amore minimo" incapace di far fronte al bisogno dell'altro, quando questo esonderà dalla routine. Ciò che agli occhi del mondo sembra irrilevante, nel Cielo è considerato decisivo. Insegnare agli altri ad essere sciatti e superficiali mascherando il tutto con una presunta libertà e maturità, e così a stabilire da sé ciò che nella vita è importante e ciò che non lo è, conduce ad una degradazione dell'esistenza e del destino alla quale essa è chiamata. Chi vive disattento e insegna ad esserlo in una celata superbia che rivela l'origine satanica di colui che pretende di farsi Dio, è condannato ad essere considerato minimo laddove è grande l'insignificante, il povero, il peccatore. E' paradossale, ma un peccatore che si converte è "più grande" - capace di una gioia e una pace e un amore "più grandi" - di chi, subdolamente, sovverte la volontà di bene del Signore smontandone gli ingranaggi più piccoli e nascosti, comunque decisivi. 


E' molto difficile stanare l'inganno che si nasconde dietro ad un'esistenza apparentemente a posto e giusta ma che, nella penombra dei "precetti minimi", tiene ben saldo il timone decidendo autonomamente cosa sia di valore e cosa no. I "novantanove giusti" ironicamente indicati da Gesù nella parabola della pecora smarrita, devono essere proprio di quelli che lasciano scivolare l'osservanza dei precetti minimi: questa giustizia è fragile, considerata "minima" nel Cielo, insufficiente quando si tratta di vivere da figli di Dio. Tralasciare il particolare conduce sempre a non accorgersi dell'insieme, che, alla fine, senza tutti i colori e tutte le sfumature, appare diverso da quello che è. Tralasciare i particolari nel rapporto con la moglie conduce a non accorgersi della complessità che questo suppone e, alla fine, il rapporto esplode perchè la donna accanto si rivela diversa da quella immaginata e creata dalla disattenzione. La superficialità si risolve sempre in un deterioramento della Verità: così anche il Cielo, la vita divina, la gioia e la pienezza promesse all'uomo, si diluiscono risolvendosi in "minime" consolazioni, incapaci di saziare. Il demonio gioca negli spazi stretti e apparentemente irrilevanti per condurre, giorno dopo giorno, a perdere il "grande" amore nel quale e per il quale siamo stati creati.

Questa società, vive in una sorta di analfabetismo esistenziale. Ogni aspetto della vita è un atollo dove ciascuno, come Robinson Crosué, deve imparare a sopravvivere, a darsi delle regole, ma soprattutto deve cercare da mangiare, fruire nel miglior modo possibile quel che vi si trova e saziarsi. L'isola della sessualità, l'isola del lavoro, l'isola del denaro. E poi quella delle famiglia, degli amici, del proprio corpo e così via. Tutto è slegato e dissipato, i giorni si affastellano su vecchi galeoni in cerca di vita, navigando tra un'isola e un'altra, e in ciascuna una faccia diversa, un diverso modo di essere, di intendere. Sono troppe le lingue da apprendere, alla fine non si riesce più a parlare. La Babele dell'orgoglio ha confuso tutto sotto la feroce dittatura del relativismo. Per questo i precetti di Dio, l'attenzione al particolare perchè sia preservata l'unità nel generale, sono l'unica salvezza, l'unica possibilità data all'uomo. "Nella prospettiva dei credenti dell’Antico Testamento la Legge stessa è la forma concreta della grazia. Infatti la grazia è conoscere la volontà di Dio. Conoscere la volontà di Dio significa conoscere se stessi, significa comprendere il mondo, significa sapere dove si va. Significa anche che veniamo liberati dall’oscurità delle nostre domande senza fine, che è giunta la luce, senza la quale non possiamo vedere e procedere. “A nessun altro popolo hai manifestato la tua volontà” (J. Ratzinger, La Chiesa, Israele e le religioni del mondo).

Il compimento di cui oggi ci parla Gesù è proprio la realizzazione di una perfetta unità all'interno della vita dell'uomo attraverso il compimento dello Shemà sulla Croce. "Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente, con tutte le tue forze. E il prossimo tuo come te stesso. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti". Amerai Dio e il prossimo con tutti gli yod, con tutto te stesso. Sulla Croce Gesù compirà la Torah; la corona di spine sulla mente, i chiodi a trapassarne le forze, la lancia a trafiggere il cuore. Così anche il più piccolo frammento della Legge sarà compiuto nella più piccola goccia di sangue versata. La Croce è la Torah compiuta. In essa si svela il compimento dell'uomo; la sua bellezza e bontà appaiono nella ritrovata integrità di una vita che dal frammentario susseguirsi di giorni e ore dissipate, trova in Cristo Crocifisso il suo axis. "Caratteristico del Messia, come nuovo e più grande Mosè, è il fatto che egli porta l’interpretazione definitiva della Torah, in cui la stessa Torah viene rinnovata, perché la sua vera essenza ora si svela completamente e il suo carattere di grazia appare indubitabilmente come realtà. “La Torà del Messia Gesù è una “interpretazione” mediante la croce del Messia Gesù”. La sua autorità “svela la legge nella sua parola essenziale, come appello originario, suscitatore di vita, di colui che l’ha adempiuta”... La Torah del Messia è il Messia stesso, è Gesù. In essa, ciò che delle tavole di pietra del Sinai è davvero essenziale e permanente appare ora iscritto nella carne vivente: il duplice comandamento dell’amore, che trova espressione nei “sentimenti” che furono in Gesù (Fil 2,5). ( J. Ratzinger, ibid.).

Amare Dio con tutto il cuore, con tutte le forze, con tutta la mente, e il prossimo come se stessi: è questa la Legge, in essa sono annotati i più piccoli segni, perchè l'amore tutto copre, tutto crede, tutto spera. Nulla è dimenticato dall'amore. L'amore non è distratto, conosce anche il numero dei capelli del nostro capo. L'amore compie il bene per se stesso, non cerca il proprio interesse, spinge a donarsi perchè è la sua stessa natura. E così in questo amore la nostra vita è finalmente compiuta, la Parola essenziale ne irrora ogni yod, e la fa traboccare di letizia in ogni istante.


  • Sant'Agostino (354-430), vescovo d'Ippona (Africa del Nord) e dottore della Chiesa
    Lo Spirito e la lettera ; PL 44, 217s




    « Non sono venuto per abolire, ma per portare a compimento »

    La grazia, un tempo nascosta e velata nell'Antico Testamento, è stata rivelata nel Vangelo del Cristo secondo un'ordinatissima distribuzione dei tempi fatta da Dio, che sa disporre bene tutti gli eventi... In tale mirabile coincidenza c'è questa grande differenza tra due epoche: nel Sinai, il popolo non osava accostarsi al luogo dove il Signore donava la sua legge; nel Cenacolo, invece, lo Spirito Santo discende su coloro ai quali era stato promesso e che per aspettarlo si erano riuniti insieme in un sol luogo (Es 19,23; At 2,1). Prima il Dito di Dio operò su tavole di pietra; ora scrive nei cuori degli uomini (2 Cor 3,3). Un tempo, la legge fu proposta esteriormente e spaventava gli ingiusti; ora viene data interiormente, perché gli ingiusti siano da essa giustificati.
    Infatti tutto ciò che fu scritto su quelle tavole: «Non commettere adulterio, non uccidere, non desiderare», e qualsiasi altro comandamento, si riassume in queste parole: «Amerai il prossimo tuo come te stesso». L'amore non fa nessun male al prossimo: pieno compimento della legge è l'amore (Rm 13,9-10). L'amore «è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5,5).

    APPROFONDIMENTI


    Non sono venuto ad abolire ma a portare a compimento... JOSEPH RATZINGER, Da "Dio e il mondo"

    C'è un passo nel Vangelo che mi sconcerta, quello in cui Gesù dice: «Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto per abolire, ma per dare compimento. In verità vi dico: finché non siano passati il ciclo e la terra, non passerà dalla legge neppure un iota o un segno, senza che tutto sia compiuto».

    Cristo non viene a infrangere la legge, non viene a dichiararla superata o senza senso. Del resto, questo non lo fa nemmeno Paolo, per quanto alcuni ritengano di trovare nelle posizioni paoline elementi di tensione con le parole di Gesù riportate da Matteo. Cristo dice che la legge antica conserva il suo significato pedagogico essenziale fin nei dettagli. Cristo viene a darle compimento. Il che significa però anche innalzarla ad un piano più alto. Cristo le da compimento nella sua sofferenza, nella sua vita, nel suo messaggio. E fa sì che in lui la legge intera trovi il suo senso. Tutto quello che nella legge si intende e si richiede all'uomo trova davvero realizzazione nella sua persona.
    Questo è il motivo per cui non abbiamo più bisogno di osservare la lettera della legge, tutte le prescrizioni regolate fin nel dettaglio. La comunione con Cristo significa che siamo là dove la legge è portata a compimento; dove ha trovato la sua sede naturale; dove è stata insieme sussunta e trasformata.
    Ci sono intere biblioteche piene di testi giuridici che regolano la convivenza e la correttezza di comportamento nei singoli stati. Cristo, al contrario, è stato evidentemente in grado disintetizzare in poche frasi comprensibili e realizzabili per tutti, al di là di tutte le possibili differenze culturali, la legge fondamentale che regola il mondo.
    Quando gli fu chiesto: «Maestro, qual è il più grande comandamento della legge?», rispose in questo modo: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il più grande e il primo dei comandamenti. E il secondo è simile al primo: Amerai il prossimo tuo come te stesso». E poi aggiunge, a chiarificazione ulteriore: «Da questi due comandamenti dipende tutta la Legge e i Profeti».
    Questa è in effetti la grande frattura, la sintesi che ci offre Cristo. Il suo sguardo si solleva dalle diverse prospettive, dai particolari per abbracciare l'insieme e ci dice: In questo duplice comandamento è racchiuso tutto. Dio e il prossimo sono inseparabili. Gesù ha portato a termine un'enorme semplificazione, che però non è uno sconto o una banalizzazione ma evidenziazione dell'essenziale. Qui viene in primo piano il nucleo portante di tutto, attorno a cui tutto ruota e su cui tutto si gioca, come dice Paolo. Se non teniamo questo come comandamento principale, allora le nostre parole sono solo chiacchiere vuote o bronzo che risuona. Gli esercizi di devozione e le attività di qualsiasi tipo sono vane se non le anima il soffio vivificante dell'amore. Non aiutano l'uomo a entrare in contatto con Dio e non sono di alcuna utilità anche per il prossimo. Da questo punto di vista, questa essenzializzazione, questa semplificazione, che testimonia della semplicità e insieme della grandezza e della bellezza delle sue pretese, rappresenta davvero una sostanziale frattura.
    Dobbiamo ovviamente tenere presente che nell'antico Israele l'ordinamento legislativo, le regole morali, e la regolamentazione del culto si intrecciavano. Con l'avvento di Cristo }ueste tre sfere si separano. La religione acquisisce per così lire sostanza autonoma. Anima lo stato e il diritto e fornisce oro parametri morali, ma il diritto statuale si distingue dai recetti della morale o dagli insegnamenti della Chiesa.
    Da questo punto di vista negli stati dovranno continuare a esistere ordinamenti e norme legislative. Questi però affonderebbero le loro radici nel vuoto se non fossero internamente animati; se gli uomini non riconoscessero innanzitutto interiormente la legittimità delle pretese essenziali esercitate su di loro e non trasformassero in questo modo gli ordinamenti legislativi da meri regolamenti esteriori a fondamenta di una corretta convivenza.
    È questo che intendeva quando diceva che la vera legge naturale è una legge morale?
    Sì. La natura non ha soltanto leggi che regolano il decorso di fenomeni, quali quelle indagate dalla scienza, ma racchiude in sé anche un messaggio più profondo. Ci fornisce indicazioni. E quando la Chiesa parla di legge naturale, non si riferisce a leggi intese nell'accezione comune alle scienze naturali, ma quell'indicazione interiore che si riverbera a noi dalla creazione.

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    Portando a compimento la legge ebraica (F. Manns. Voi, chi dite che io sia?)

    Più di una volta Gesù aveva avuto l'occasione di interpretare la legge. Ma Gerusalemme aveva i suoi esperti della legge che non sempre condividevano le innovazioni del maestro di Nazareth. Uno scontro con i farisei diventava inevitabile.
    L'ideale dei farisei era quello della santità. Siate dunque santi, perché io sono santo (Lv 11,45), diceva il libro del Levitico. La santità esigeva irrimediabilmente la separazione dal mondo e da tutti coloro che rifiutavano la legge. Essa era garantita dall'osservanza meticolosa delle regole di purità. In effetti il Levitico enumera le categorie fondamentali dell'ebraismo: il puro e l'impuro, il sacro e il profano, il consentito e il proibito. Questo codice proponeva una scala da percorrere per raggiungere la santità. Per essere in grado di osservare quelle leggi complesse era necessario aiutarsi e raggnipparsi in comunità di amici. L'autosegregazione del gruppo fariseo comportava il pericolo di sviluppare nel suo seno un complesso di superiorità in rapporto a tutti coloro che non osservavano la legge, quegli ignoranti che essi trattavano da maledetti. Anche in rapporto ai sacerdoti i farisei non avevano complessi: l'osservanza della legge doveva assicurare loro lo stesso tipo di santità di coloro che si santificavano con il culto del Tempio. Solo l'obbedienza scrupo
    Iosa alla legge definiva l'appartenenza al popolo di Dio. Ma tale obbedienza aveva come condizione essenziale la dipendenza dalla loro interpretazione della legge. «Un ignorante non può essere pio», amavano ripetere. Questa trovata escludeva il povero dall'accesso alla vita futura.
    Per il fatto stesso di accettare che la legge scritta fosse commentata e completata dalla legge orale, essi l'inserivano in un dinamismo che contrastava con il carattere statico che i sacerdoti le avevano attribuito. Essi erano sostenitori dell'adattamento della legge alle circostanze nuove. Senza aggiornamento la legge era difficilmente vivibile. Era preferibile che una lettera sparisse dalla legge ma che fosse salvata la Torah nel suo insieme.
    D'altra parte i farisei erano favorevoli a innalzare una barriera attorno alla legge per impedire che essa fosse per inavvertenza violata. È preferibile peccare per eccesso che per insufficienza. 613 comandamenti avevano la funzione di dettagliare la legge per la vita concreta. Il giogo della legge, lungi dall'essere facile da portare, diventava opprimente. Ma accettato e vissuto con amore — perché c'era il fariseo che agiva per timore come Giobbe e quello che agiva per amore come Abramo —, questo peso diventava leggero. Non solo, la legge costituiva un criterio dell'identità etnica che permetteva di coltivare un sentimento larvato di autonomia nazionale. Ma puro e impuro, sacro e profano, consentito e proibito non potevano essere confusi.
    Uomini di grande sensibilità religiosa, i farisei pregavano parecchie volte al giorno e digiunavano due volte alla settimana. Inoltre si esercitavano a imitare Dio con le opere di misericordia. La santità si misurava secondo l'ordine del merito. La salvezza la si doveva meritare. Per ogni colpa occorreva compensare con un merito supplementare. Una mentalità come questa poteva comportare nel fariseo calcolatore uno spirito commerciale: Do ut des:do perché tu mi dia. La gratuità era presa in nessuna o in scarsissima considerazione.
    Gesù si rifiuta di entrare nel labirinto della tradizione degli uomini che interpretano la legge. Lui che non ha studiato nelle scuole rabbiniche vuole ritrovare la radicalità di questa parola quale fu pronunciata sul Sinai. Non basta pagare la decima degli ortaggi. È più importante osservare la giustizia e l'amore di Dio. Gli alimenti che entrano nell'uomo non possono renderlo impuro. A renderlo puro o impuro è ciò che esce dal cuore dell'uomo. Ciò che è permesso fare il giorno del sabato deve essere valutato in funzione dei bisogni dell'uomo. Davide stesso non è forse entrato il giorno del sabato nel Tempio dove ha mangiato il cibo riservato ai sacerdoti? Puro e impuro, consentito e vietato, sacro e profano sono soggetti a un'interpretazione nuova da parte di Gesù. Se il cuore dell'uomo è puro, allora tutto è purificato. Occorre andare alla radice del problema.
    Il tempo messianico è un periodo di compimento. Ma ciò è possibile solo se l'uomo risponde all'iniziativa divina. La venuta del Messia esige il pentimento e le buone azioni degli uomini. I farisei insistevano sulle opere di misericordia che dovevano garantire all'uomo la buona coscienza.
    Nelle sinagoghe si ripeteva l'insegnamento dei maestri: Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro (Le 6,36). La misericordia, per il semita, ha un equivalente nelle viscere materne che reagiscono di fronte a certe situazioni. Dio non è insensibile, afferma la Bibbia. Egli non è solo il primo motore che mette in movimento l'universo. Egli sente il grido del povero e dei bambini: prende le difese della vedova e dell'orfano.
    Non è piuttosto questo il digiuno che voglio: [...] Non consiste forse nel dividere il pane con l'affamato, nell'introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire chi è nudo, senza distogliere gli occhi dalla tua gente? (Is 58,6-7). E in questi termini che il terzo Isaia (Isaia, capitoli 56-66) si esprime dopo l'esilio di Babilonia. Israele viene dall'esperienza della povertà in terra straniera. Ha capito che deve tutto a Dio. L'azione di grazie a Dio non basta, essa deve essere completata da un'imitazione di Dio. To-bit, l'ebreo pio, cerca di mettere in pratica questo ideale, memoria della duplice dimensione dell'alleanza. Egli riconosce che ha spesso fatto l'elemosina, che ha dato il pane ali' affamato e vestiti a coloro che erano nudi, che ha sotterrato i cadaveri dei suoi compatrioti.
    Le omelie sinagogali orchestravano spesso questo messaggio. Occorre essere misericordiosi come Dio è misericordioso. La partecipazione al popolo dell'alleanza esige questo atteggiamento. Quando leggeva il racconto della morte di Mosè l'omerista aggiungeva un commento conosciuto dal Targum: «Dio ci ha insegnato a vestire coloro che erano nudi per aver egli stesso rivestito Adamo ed Èva; egli ci ha insegnato a unire fidanzati e fidanzate per aver unito Èva ad Adamo; ci ha insegnato a visitare i malati dopo che è apparso nella pianura di Mamre ad Abramo che soffriva del taglio della circoncisione; ci ha insegnato a consolare coloro che sono in lutto dopo che è apparso a Giacobbe, al suo ritorno a Paddan nel luogo dove era morta sua madre; ci ha insegnato a nutrire i poveri per aver fatto scendere il pane dal ciclo sui figli d'Israele; ci ha insegnato a seppellire i morti dopo la morte di Mosè».
    Questa elencazione è importante in quanto ci offre la motivazione delle opere di misericordia. Dio stesso ne è la fonte e l'origine. L'uomo non fa che imitare il comportamento di Dio. Paolo riassume in modo magistrale questa morale quando scrive: Rallegratevi con quelli che sono nella gioia, piangete con quelli che sono nel pianto (Rm 12,15). È da notare che la lista ingiunge anche di partecipare al matrimonio, in quanto Dio ha unito Adamo ed Èva. Gli esegeti hanno notato che il primo miracolo compiuto da Gesù è il segno di Cana realizzato nel corso di un matrimonio. Gesù approfitta della sua presenza in mezzo agli uomini per proporre un insegnamento superiore. Moltiplica il pane e da un insegnamento sul pane di vita. Consola le sorelle di Lazzaro e parla loro della risurrezione. Assiste al matrimonio e mostra che egli è lo sposo che realizza l'alleanza definitiva. In occasione del giudizio ultimo Gesù ricorderà che aveva fame, sete, che era nudo, prigioniero.
    Il fariseo ricercava la santità. Ma come vivere la santità in un paese in cui comandano i pagani? Un gruppo di farisei proporrà una soluzione radicale: se si crede nel regno di Dio occorre opporsi fortemente al «regno dell'impertinenza». La resistenza si organizzerà proprio in Galilea.
    Terra essenzialmente agricola, la Galilea era anche l'itinerario obbligatorio tra il porto di Cesarea e Damasco. La Via Maris passava vicino al lago di Galilea. I pescatori del lago di Tiberiade costituivano una realtà economica importante della provincia. La città di Magdala era celebre per la sua industria di salatura del pesce. Erode Antipa costruì la città di Tiberiade nell'anno 18 d.C. sul posto in cui c'era un cimitero. Per tale motivo gli ebrei si rifiutarono a lungo di abitarvi. Questo fatto isolato prova da solo il grado di religiosità che animava i galilei. Questi costituivano in gran parte una popolazione ebraica proveniente da Babilonia e recentemente insediata in quella regione da Erode. Non stupisce che il moto di ribellione contro i romani si sia originato in Galilea. Non si tratta più della Galilea delle nazioni, ma della Galilea degli zelanti della legge. Atti 5,37 evoca la rivolta di Giuda il Galileo. La situazione doveva peggiorare fino alla guerra ebraica dell'anno 66.
    L'insurrezione in Galilea, organizzata dagli zeloti dopo l'anno 50, si radica in una profonda tradizione religiosa: Dio è il re d'Israele e il padrone della storia. Il dono della terra è il segno dell'alleanza. Arrogarsi la proprietà della terra come fanno i romani significa dar prova di un orgoglio smisurato, dell'appartenenza al regno dell'impertinenza. Essendosi i romani imposti con la forza, occorre fare tutto il possibile per liberare la terra. Alla violenza bisogna rispondere con la violenza. La sete di libertà che animava i rivoltosi scaturiva dal più stretto monoteismo. Era lo zelo della legge a spingerli ad agire.
    Il progetto di Gesù supera di gran lunga quello degli zeloti. Se Gesù annuncia il Regno di Dio, non rientra però assolutamente nella linea zelota. Il suo messaggio di non violenza è esplicitamente proclamato nel Discorso della montagna. Se purifica il Tempio è perché è animato dallo zelo di Dio per la dimora di Dio. È da profeta che Gesù protesta contro le pratiche commerciali che si erano infiltrate nel Tempio. Nel gruppo dei discepoli che Gesù sceglie uno porta il nome di zelota: Simone lo Zelota. Il carattere focoso dei discepoli galilei Giacomo e Giovanni richiama sicuramente un atteggiamento spirituale di tipo zelota. Essi chiedono che il fuoco celeste cada su un villaggio samaritano che non ha voluto accoglierli. Ma ciò non significa affatto che appartenessero al movimento di resistenza armata dei sicari.
    Gesù supera il particolarismo degli zeloti limitato all'orizzonte di Israele. Non è prigioniero del particolarismo della legge, né del nazionalismo del Tempio. L'adesione di Gesù è al Padre. Il Regno viene incontro all'uomo senza che l'uomo abbia bisogno di prendere le armi per instaurare questo regno. L'impazienza degli zeloti contraddice la parabola del lievito che fa crescere la pasta lentamente. Gesù fu condannato e rifiutato dal suo popolo perché voleva far uscire Israele dal suo particolarismo ed aprirlo alla sua dimensione universalistica.
    «La terra è comune a tutti gli uomini e, di conseguenza, gli alimenti che essa fornisce li fornisce per tutti comunemente. A torto si giudicano dunque innocenti coloro che reclamano per il loro uso privato il dono che Dio fece per tutti... In realtà quando noi doniamo ai miseri le cose indispensabili, non facciamo loro elargizioni personali: non facciamo che rendere loro ciò che è loro. Ben più che compiere un atto di carità, assolviamo un dovere di giustizia» (S. GREGORIO MAGNO, Pastorale 3,21).
    «Tra tutte le piante che coprono il campo delle Scritture, distinguo un fiore meraviglioso. Esso ha cominciato a fiorire sulle labbra del Salvatore. Ha la sua radice nel cuore di Gesù: Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia (Mt 5,7)» (S. MACARIO, Omelia 18).

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    NON PASSERÀ NEPPURE UNO YOD DELLA TORAH (Marie Vidal. Un ebreo chiamato Gesù)

    Non pensate che io sia venuto ad abolire la Torah o i Profeti; non sono venuto per abolire, ma per dare compimento. In verità vi dico: finché non siano passati il ciclo e la terra, non passerà neppure uno yod o un segno dalla Torah, senza che tutto sia compiuto. Chi dunque trasgredirà uno solo di questi mitswot, anche minimi, e insegnerà agli uomini a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel Regno del Cicli. Chi invece li osserverà e li insegnerà agli uomini, sarà considerato grande nel Regno dei Cicli.
    Mt 5, 17-19.
    Una stessa Parola, vitale ed essenziale per due gruppi differenti: ciò accade spesso, osservavamo nel primo dei cinque attuali capitoli. Gli Ebrei e i cristiani non interpretano allo stesso modo la Parola, il che è, tutto sommato, molto farisaico. Tuttavia, il secondo gruppo ha speso dimenticato l'accordo tra Gesù e Mosè, tra Gesù e Giosuè, tra Gesù e Salomone. I cristiani pensano di conoscere la lezione dello yod, la più piccola lettera dell'alfabeto, iota greco, e "punto sulle i" francese. Gesù la da una volta sola all'inizio del Discorso della montagna, nel Vangelo di Matteo (Mt 5, 17-19). I cristiani debbono anzitutto collegarla alla fine dello stesso Discorso con cui fa inclusione. Lì, Gesù dice: «Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la Torah e i Profeti!» (Mt 7, 12). Lì, Gesù è molto vicino alla sentenza di Hillel: "Non fare al tuo prossimo ciò che non vuoi faccia a te. Ecco tutta la Torah!" (Shab 31a). Quando i discepoli, i talmidim, o le folle che seguono Gesù, ascoltano queste parole, l'insegnamento di Gesù non li sorprende. Esso suona familiare alle loro orecchie e conferma l'attaccamento e l'incarnazione di Gesù nel suo popolo.
    In secondo luogo, i cristiani debbono esercitare le loro orecchie alle vibrazioni date allo yod da Gesù e dal suo popolo.
    Uno yod, in rapporto alla riga di scrittura, con le sei lettere che lo circondano nell'alfabeto, per confrontare (l'ebraico si legge da destra a sinistra).
    Lo yod ha, in qualche modo, foggiato la mano (mano si dice yad) e la mentalità degli Ebrei e dei Giudei. Infatti, essendo lo yod la più piccola delle lettere dell'alfabeto, non è incluso tra le due righe di scrittura. Se si scrive, in rapporto alla riga virtuale o effettiva, dal basso, lo yod non ha supporto di scrittura. Per esso e grazie ad esso, l'Ebreo allineerà le lettere dall'alto. Ciò facendo, l'Orientale non avrà affatto la stessa mano, né la stessa comprensione, né la stessa interpretazione della vita. Scrivere da destra a sinistra implica già tutta una strutturazione del pensiero. Scrivere in rapporto all'alto potrebbe allora essere paragonato ad una coordinazione spirituale dei movimenti e dei gesti in rapporto a colui che è differente, in rapporto all'altro.
    Lo yod, la più piccola delle lettere, ha molteplici possibilità. È la decima lettera dell'alfabeto, ha dunque un valore numerico di dieci, una delle cifre perfette. Ha, tra le altre, la funzione di trasformare il tempo, ed è una grande originalità della lingua e della grammatica ebraiche. Tuttavia, l'ebreo è "colui che passa". La sua vocazione è di abitare e percorrere il tempo come se il tempo fosse per lui una grande sukkah, una grande capanna dove dimorerebbe e che visiterebbe1. Non è il tempo a passare, è lui che passa nel tempo. Per tradurre ciò nella sua vita, egli dispone di due coniugazioni grammaticali: compiuto e incompiuto. La differenza tra le due? È lo yod, la più piccola lettera dell'alfabeto. Quando non c'è yod, il verbo è al compiuto, il cui senso rag-gruppa tutti i tempi del passato. Quando c'è lo yod come prefisso, il verbo è all'incompiuto, ossia futuro, condizionale congiuntivo. Semplicemente, per dire l'avvenire, basta mettere e dire lo yod davanti al verbo, come una mano, come un dito puntato, un impegno, una decisione. Allora, il futuro è aperto. A causa di questa apertura, lo yod è la prima lettera del Nome del Signore. Ogni volta che uno yod sarà scritto o letto, la sua presenza evocherà il Nome del Signore e la Sua apertura dell'avvenire. Precisamente, in certi momenti di intensità, i Semiti e gli Ebrei manifesteranno una discrezione e una sottile intensità. Essi si esprimono con raffinatezza nelle diverse vibrazioni del loro essere: espressione orale ed espressione scritta. Ed ecco che pronunciano uno yod che non scrivono mai. L'esempio tipico è il nome di Gerusalemme. L'ebreo pronuncia Yerushalayim, ma non scrive mai lo yod della desinenza -ayim, cosicché le trascrizioni in greco (e nelle altre lingue) hanno rispecchiato lo scritto senza yod e hanno detto -em invece di -ayim, e dunque Gerusalemme. Quando i non israeliti scrivono Gerusalemme, non si comportano come gli Ebrei e i Giudei. Essi leggono logicamente ciò che scrivono, ma per conseguenza non dicono né intendono più lo yod, prima lettera del Nome del Signore, dire "Gerusalemme" significa fare del nome di questa città un Nome senza la Presenza del Signore. Dire Yerushalayim, significa togliere ogni equivoco ateo alla città della Pace.
    La lingua ebraica offre altre sorprese. Perché se lo yod è indispensabile per esprimere l'avvenire, è spesso necessario per dire il passato. Ci sono due possibilità per esprimere il passato: o il verbo senza il prefisso yod, al compiuto; o il verbo con lo yod, all'incompiuto, preceduto da un altro prefisso che cambia l'incompiuto in compiuto. Perché allora non dire semplicemente il compiuto? Affinchè il passato contenga anche la lettera dell'avvenire, per indicare che la storia non è definitivamente terminata, e che il passato contiene germi di speranza.

    Queste forme di linguaggio sono assolutamente intraducibili in un'altra lingua perché appartengono alla coerenza dell'essere ebreo e dell'essere giudeo. Il cristiano deve sapere che i contemporanei di Gesù lo comprendono molto chiaramente e lo vivono profondamente.
    La Torah orale riporta numerosi episodi di discussioni, o tra lo yod e il Signore, o tra Mosè e il Signore riguardo allo yod. Per comprendere meglio, l'Occidentale deve sapere che non ci sono maiuscole nella Torah scritta, e dunque che tutte le lettere hanno la stessa grandezza. Eccezionalmente, l'una o l'altra lettera è scritta in modo più grande o più piccolo del normale. Questo è segnalato nel testo affinchè, trasmettendo o copiando la Torah, si riproduca fedelmente la grandezza di questa lettera, il suo valore, e le sue risorse, e si apra la ricerca dei suoi motivi. Nella Torah, uno yod è scritto più grande degli altri, in Nm 14, 17, quando Mosè interviene davanti al Signore in favore del popolo. Il popolo infatti vuole tornare in Egitto e rifiuta di entrare nella Terra promessa. Il Signore ha deciso di colpirlo con la peste e di abbandonarlo in quanto popolo.
    Allora Mosè ragiona davanti a Lui, in loro favore, e anche in favore dell'educazione delle nazioni perché non profanino il Nome del Signore, egli termina così il suo ragionamento: "Ora, si mostri Grande, Ygdal, la potenza del mio Signore, perché tu hai detto..."2. Lo yod di "Grande" è scritto in grassetto. E il Signore risponde a Mosè, come un bambino obbediente: «Io perdono come tu hai chiesto» (Nm 14, 20).
    A proposito di questo grande yod, è bene non dimenticare questa nozione essenziale per Israele e capitale per l'intimo radicamento di Gesù nel suo popolo. È bene anche ascoltare discussioni della Torah orale, che appaiono alquanto ingenue, ma possiamo ritrovarle, in altro modo, nel Vangelo. "Quando Mosè salì nei deli, vi trovò il Santo, Benedetto sia, che ornava le lettere con segni. Il Signore gli disse: Ebbene, Mosè, la parola 'Pace' non è usata nella tua città? Egli rispose: È opportuno che un servo offra la pace al suo Signore? Il Signore gli disse: Avresti dovuto augurarmi forza. Subito Mosè gli disse (Nm 14, 17): La potenza del Signore si mostri grande, yigdal, come Tu hai dichiarato!" (Shab 89a).
    "Quando Mosè è salito al cielo, ha trovato il Santo, Benedetto
    sia, mentre scrìveva le parole 'Lento all'ira'. Egli chiese: Signore del mondo, bisogna intendere lento all'ira verso i giusti? Il Signore rispose: Anche verso i cattivi! Mosè disse: Periscano i cattivi! Il Signore rispose: Non tarderai a capire ciò che è meglio per te! Quando Israele peccò, il Signore disse a Mosè: Non mi hai forse detto che preferivi vedermi lento all'ira unicamente verso i giusti? Ma Mosè rispose: Sovrano del mondo, non mi hai detto che intendevi esserlo ugualmente verso i cattivi? Ecco il senso del testo: Ora dunque, di grazia, la potenza del Signore si mostri grande, yigdal, come Tu hai dichiarato, l'Eterno è lento all'ira!".
    "La parola 'grande' è scritta con un grande Yod (Yod rappresenta il Dieci quanto al valore numerico): se dieci uomini di questa epoca Ti hanno provato per dieci volte, ricordati dei Dieci Comandamenti che hanno accettato, e delle Dieci prove in cui i Patriarchi hanno trionfato!"0.
    Grazie alle visite di Mosè al Santo, Benedetto sia, il lettore del Vangelo ora comprende i segni di cui parla Gesù e che i traduttori hanno reso con "iota" o con il "punto sulle i". Gesù dice infatti: «Non pensate che io sia venuto ad abolire la Torah o i Profeti; non son venuto per abolire, ma per dare compimento. In verità vi dico: finché non siano passati il ciclo e la terra, non passerà neppure un iota o un segno dalla Torah, senza che tutto sia compiuto» (Mt 5, 17-18). Gesù si meraviglia dell'attenzione e dell'amore che il Padre ha per la Torah, le sue finlture, i suoi segni. Essi saranno infatti, secondo la Tradizione del suo popolo, come altrettante possibilità di adattamento a tutte le situazioni. Coloro che non conoscono il dinamismo della Torah li giudicano come imposizioni, ma essi svolgono esattamente la funzione contraria: sono altrettanti rinnovamenti e liberazioni.
    Un altro importante momento della Torah orale da accogliere per meglio comprendere la Parola di Gesù e il suo amore per la Torah, è un midrash del libro dell'Esodo. La logica di questo midrash rischia di stupire e l'Occidentale e ogni persona che vorrebbe basarsi solo sulla Torah scritta. Essa parte dalla manifestazione del Signore a Mosè, sulla quale si basano i farisei e Gesù per dire la loro fede nella risurrezione dei morti. Risale dunque alla manifestazione ad Abramo, Isacco e Giacobbe. Poi, mediante un versetto del Libro di Qoèlet, ritorna a Mosè e Salomone. Quali sono i loro legami? Mosè ha dato la Torah e, in particolare, regole precise per la responsabilità del re; e Salomone fu re.
    "Quando il Santo, Benedetto sia, diede la Torah a Israele, diede comandamenti positivi e negativi, ed alcuni comandamenti per il re, come sta scrìtto: Egli non moltiplicherà i suoi cavalli, non moltipllcherà le sue mogli, e il suo cuore non si allontanerà, non moltiplicherà l'argento e l'oro (Dt 17, 16). Il re Salomone ragionò con saggezza su questo decreto del Santo, Benedetto sia. E disse: Perché il Santo, Benedetto sia, ha detto: 'Non moltiplicherà le sue mogli? Non è forse perché il suo cuore non si allontani? Ebbene,
    10 le moltiplicherò e il mio cuore non si allontanerà! I nostri Maestri dicono: In quel momento, lo yod che è in 'moltiplicherà ' salì e si prosternò davanti al Santo, Benedetto sia. E lo yod disse: Signore del mondo, non hai tu forse detto: Nessun segno della Torah sarà mai abolito ? Tuttavia, Salomone mi abolisce. E oggi abolisce una lettera, domani un'altra, finché l'intera Torah sarà abolita!
    11 Santo, Benedetto sia, gli disse: Salomone e i mille che usciranno da lui saranno aboliti, e Io non abolirò nessuna tua estremità ornata! E da dove ciò che egli aveva abolito dalla Torah ritorna alla Torah? Perché è detto (Gen 17, 15): Saray tua moglie, non la chiamerai più Saray, ma Sara! Ed egli ritornò (Nm 13, 16): E Mosè diede ad Hosea, figlio di Nun, il nome di Giosuè!... E Salomone aveva detto: Dio è con me, e io potrò: moltiplicherò le mogli e il mio cuore non si allontanerà! "(EsR 6, 3-9).
    Quanto allo yod tolto a Sara, un altro midrash4 invece racconta: "Da Abramo non fu tolta alcuna lettera, ma la lettera yod del Nome di Sara è caduta. La lettera yod vide che era uscita dal Nome di Sara la Giusta. Allora si presentò davanti al Signore, pianse e disse: Signore mio Dio, io sono piccola, e non ho un posto adeguato per stare con i grandi!- Tuttavia, poiché ho abitato un tempo nel Nome della Giusta, abbi, per il Tuo grande Amore, questa volta della Tenerezza per me, e ponimi nel Nome di un uomo benedetto! Il Signore ascoltò la voce e la supplica della lettera yod e le disse: Poiché hai parlato bene, il mio Amore per te crescerà. E invece di essere l'ultima delle lettere di Saray, fin d'ora tu sarai la prima nel Nome di un Uomo Giusto e Potente in valore! È Giosuè, che inizialmente fu chiamato Hosea, e quando uscì per esplorare la terra con gli altri esploratori, Mosè pregò per lui: II Signore lo salverà (yod del futuro) dal consìglio degli altri esploratori (Nm13, 16)! Da allora, la lettera yod fu aggiunta in testa al suo Nome, Yehoshuah, Giosuè".
    Così, parlando dello yod fin dall'inizio del Discorso della montagna, Gesù si richiama alla Torah, scritta e orale. Si collega a Giosuè, Yehoshuah, il successore di Mosè. Porta il suo nome, con la prima lettera, lo yod. Accoglie Sara, "Sara nostra madre", come dicono gli ebrei. Dichiara e garantisce il gusto della Torah, e dunque la sua relazione con Mosè, l'uomo che scrisse la Torah nero su bianco e il cui volto divenne così luminoso e raggiante5. Egli chiama i suoi ascoltatori e i suoi discepoli, i suoi talmidim, ad essere vigilanti e a non trascurare qualcosa di essenziale qualificandolo come futile o passatempo da scribi.
    Gesù, di fronte al mondo, dice che lo yod non se ne andrà. Lo yod dell'intercessione riuscita di Mosè per il suo popolo (Nm14, 17). Lo yod del canto di Mosè e dei figli di Israele (Es 15). Quest'ultimo è lo yod della fede nella risurrezione dei morti e dunque lo yod di un'etica della vita effettiva, concreta, relazionale, fruttuosa, di gente che non poteva fare come se non credesse nella risurrezione dei morti! Questo yod è molto noto nel popolo di Dio, cosicché tutti sanno cantare l'"Az yashir Mosheh... Allora canterà Mosè". È tuttavia un canto difficile da accettare, dove gli uomini sembrano gioire della caduta e della morte dei cattivi. Bisogna dunque interrogarsi su questo canto e cercare la sua motivazione. Ecco la "lezione di alta moralità" che i sapienti traggono dai midrashim: "L'attenta lettura del testo biblico ci insegna che gli ebrei non intonarono affatto un cantico al momento della mone dei primogeniti egiziani, né della morte degli egiziani, né dello spiegamento della Mano possente contro l'Egitto. Ma quando il Popolo 'temette il Signore e credette in Lui e nel Suo servo Mosè' (Es 14, 31), allora Mosè cantò l'inno all'Eterno, accompagnato dai Figli d'Israele. La gioia del Signore consiste non nella caduta degli empi, ma nell'ascesa dei Giusti verso le vette della spiritualità!"6.
    Gli Ebrei amano spiegare il loro nome. Le lettere di Israele, YSRhL, formano due parole: SYR hL, Shir El, canto di Dio. Esse dicono dunque che Israele canterà sempre. "Az yashir Mosheh ovnei Yisrael... Allora Mosè canterà, e i Figli di Israele..." (Es 15, 1). "// futuro ci insegna che i Figli di Israele avevano deciso di cantare fino all'aldilà quando il loro corpo sarà risuscitato!" (Sanh 91b).
    Tuttavia, se gli Ebrei conoscono la musica dell"'Az yashir Mosheh", le traduzioni hanno molta difficoltà a tradurre lo yod del futuro. Il più delle volte, esse propongono: "Allora, Mosè e i Figli di Israele cantarono". Questa interpretazione immobilizza i lettori e impedisce loro l'acceso allo yod. Ecco la preoccupazione e l'appello incessanti di Gesù per lo yod!