sabato 16 giugno 2012

XI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO Anno B

Domani 17 giugno celebriamo la:

   

XI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO -Anno B 

La preghiera prorompa da un cuore umile
Dal trattato «Sul Padre nostro» di san Cipriano, vescovo e martire
(Nn. 4-6; CSEL 3, 268-270)

Per coloro che pregano, le parole e la preghiera siano fatte in modo da racchiudere in sé silenzio e timore. Pensiamo di trovarci al cospetto di Dio. Occorre essere graditi agli occhi divini sia con la posizione del corpo, sia con il tono della voce. Infatti come è da monelli fare fracasso con schiamazzi, così al contrario è confacente a chi è ben educato pregare con riserbo e raccoglimento. Del resto, il Signore ci ha comandato e insegnato a pregare in segreto, in luoghi appartati e lontani, nelle stesse abitazioni. E` infatti proprio della fede sapere che Dio è presente ovunque, che ascolta e vede tutti, e che con la pienezza della sua maestà penetra anche nei luoghi nascosti e segreti, come sta scritto: Io sono il Dio che sta vicino, e non il Dio che è lontano. Se l'uomo si sarà nascosto in luoghi segreti, forse per questo io non lo vedrò? Forse che io non riempio il cielo e la terra? (cfr. Ger 23, 23-24). E ancora: In ogni luogo gli occhi del Signore osservano attentamente i buoni e i cattivi (cfr. Pro 15, 3).
E allorché ci raduniamo con i fratelli e celebriamo con il sacerdote di Dio i divini misteri dobbiamo rammentarci del rispetto e della buona educazione: non sventolare da ogni parte le nostre preghiere con voci disordinate, né pronunziare con rumorosa loquacità una supplica che deve essere affidata a Dio in umile e devoto contegno. Dio non è uno che ascolta la voce, ma il cuore. Non è necessario gridare per richiamare l'attenzione di Dio, perché egli vede i nostri pensieri. Lo dimostra molto bene quando dice: «Perché mai pensate cose malvage nel vostro cuore?» (Mt 9, 4). E un altro luogo dice: «E tutte le chiese sapranno che io sono colui che scruta gli affetti e i pensieri» (Ap 2, 23).
Per questo nel primo libro dei Re, Anna, che conteneva in sé la figura della Chiesa, custodiva e conservava quelle cose che chiedeva a Dio, non domandandole a gran voce, ma sommessamente e con discrezione, anzi, nel segreto stesso del cuore. Parlava con preghiera nascosta, ma con fede manifesta. Parlava non con la voce ma con il cuore, poiché sapeva che così Dio ascolta. Ottenne efficacemente ciò che chiese, perché domandò con fiducia. Lo afferma chiaramente la divina Scrittura: Pregava in cuor suo e muoveva soltanto le sue labbra, ma la voce non si udiva, e l'ascolto il Signore (cfr. 1 Sam 1, 13). Allo stesso modo leggiamo nei salmi: Parlate nei vostri cuori, e pentitevi sul vostro giaciglio (cfr. Sal 4, 5). Per mezzo dello stesso Geremia lo Spirito Santo consiglia e insegna dicendo: Tu, o Signore, devi essere adorato nella coscienza (cfr. Bar 6, 5).
Pertanto, fratelli dilettissimi, chi prega non ignori in quale modo il pubblicano abbia pregato assieme al fariseo nel tempio. Non teneva gli occhi alzati al cielo con impudenza, non sollevava smodatamente le mani, ma picchiandosi il petto condannando i peccati racchiusi nel suo intimo, implorava l'aiuto della divina misericordia. E mentre il fariseo si compiaceva di se stesso, fu piuttosto il pubblicano che meritò di essere giustificato, perché pregava nel modo giusto, perché non aveva riposto la speranza di salvezza nella fiducia della sua innocenza, dal momento che nessuno è innocente. Pregava dopo aver confessato umilmente i suoi peccati. E così colui che perdona agli umili ascoltò la sua preghiera.
 
MESSALE
Antifona d'Ingresso  Sal 26,7.9
Ascolta, Signore, la mia voce: a te io grido.
Sei tu il mio aiuto,
non respingermi, non abbandonarmi,
Dio della mia salvezza.
 
Colletta
Dio, fortezza di chi spera in te, ascolta benigno le nostre invocazioni, e poiché nella nostra debolezza nulla possiamo senza il tuo aiuto, soccorrici con la tua grazia, perché fedeli ai tuoi comandamenti possiamo piacerti nelle intenzioni e nelle opere. Per il nostro Signore...
 
Oppure:
O Padre, che a piene mani semini nel nostro cuore il germe della verità e della grazia, f
a' che lo accogliamo con umile fiducia e lo coltiviamo con pazienza evangelica, ben sapendo che c'è più amore e più giustizia ogni volta che la tua parola fruttifica nella nostra vita. Per il nostro Signore Gesù Cristo.
LITURGIA DELLA PAROLA
Prima Lettura  Ez 17, 22-24
Io innalzo l'albero basso.

Dal libro del profeta Ezechiele
Così dice il Signore Dio: «Un ramoscello io prenderò dalla cima del cedro, dalle punte dei suoi rami lo coglierò e lo pianterò sopra un monte alto, imponente; lo pianterò sul monte alto d’Israele.
Metterà rami e farà frutti e diventerà un cedro magnifico. Sotto di lui tutti gli uccelli dimoreranno, ogni volatile all’ombra dei suoi rami riposerà.Sapranno tutti gli alberi della foresta che io sono il Signore, che umilio l’albero alto e innalzo l’albero basso, faccio seccare l’albero verde e germogliare l’albero secco. Io, il Signore, ho parlato e lo farò»
Salmo Responsoriale   Dal Salmo 91/92
È bello rendere grazie al Signore.
 
È bello rendere grazie al Signore
e cantare al tuo nome, o Altissimo,
annunciare al mattino il tuo amore,
la tua fedeltà lungo la notte.
I1 giusto fiorirà come palma,
crescerà come cedro del Libano;
piantati nella casa del Signore,
fioriranno negli atri del nostro Dio. 

Nella vecchiaia daranno ancora frutti,
saranno verdi e rigogliosi, 
per annunciare quanto 
è retto il Signore,
mia roccia: in lui non c’è malvagità
.
 
Seconda Lettura   2 Cor 5, 6-10
Sia abitando nel corpo sia andando in esilio, ci sforziamo di essere graditi al Signore.

Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi

Fratelli, sempre pieni di fiducia e sapendo che siamo in esilio lontano dal Signore finché abitiamo nel corpo - camminiamo infatti nella fede e non nella visione - siamo pieni di fiducia e preferiamo andare in esilio dal corpo e abitare presso il Signore.
Perciò, sia abitando nel corpo sia andando in esilio, ci sforziamo di essere a lui graditi. Tutti infatti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, per ricevere ciascuno la ricompensa delle opere compiute quando era nel corpo, sia in bene che in male.

Canto al Vangelo   
Alleluia, alleluia.

Il seme è la parola di Dio, il seminatore è Cristo:
chiunque trova lui, ha la vita eterna

Alleluia.

   
   
Vangelo
  Mc 4, 26-34

È il più piccolo di tutti i semi, ma diventa più grande di tutte le piante dell'orto.
Dal vangelo secondo Marco.

In quel tempo, Gesù diceva [alla folla]: «Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme ger­moglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa. Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga; e quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura».
Diceva: «A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? È come un granello di senape che, quando viene semi­nato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno; ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra».
Con molte parabole dello stesso genere annunciava loro la Parola, come potevano intendere. Senza parabole non parlava loro ma, in privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa.   Parola del Signore.

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COMMENTI



Congregazione per il Clero
Tre parabole che dominano la liturgia della parola di questa domenica. Una è contenuta nella Prima Lettura, le altre due nel testo del Vangelo. Esse sono portatrici di alcuni messaggi comuni, che ci aiutano a riflettere sulla realtà del regno di Dio e sul modo che Dio ha di agire.
Dalle tre parabole, emerge la logica delle antitesi tra il “prima” e il “dopo”.
Nella parabola del cedro, troviamo la cima, che viene prelevata e ripiantata, e diventerà un albero rigoglioso; in quella del seme l’attenzione è posta al seme, gettato nel terreno, e alla pianta, che da esso germoglia, in modo quasi misterioso; nella parabola del granellino di senapa si trova, invece, il passaggio dal piccolissimo seme alla pianta rigogliosa, sottolineando la “non-proporzione” tra il “prima” e il “dopo”.
In questo gioco, quasi paradossale, di contrapposizioni emergono alcune caratteristiche del Regno di Dio.
In primo luogo il Regno di Dio è una realtà che inizia in modo quasi impercettibile, silenzioso e, apparentemente, fragile; cresce in un modo progressivo, che, tuttavia, non dipende dalla volontà dell’uomo.
In secondo luogo, poi, il Regno, pur partendo in tal modo, è destinato a produrre un grande esito finale, carico di frutti.
Infine appare anche una logica della crescita: il Regno di Dio non s’impone con forza o all’improvviso, ma entra nella storia, quasi si mescola con la storia dell’uomo e cresce al suo interno. Tutto ciò ricorda che il Regno è prima di tutto dono di Dio e una sua opera. Il Regno è innanzitutto una persona, la Persona di Gesù Cristo, ed il mistero dell’Incarnazione del Verbo obbedisce esattamente alla citate caratteristiche del Regno.
Il Regno, dunque, inizia per opera del Padre in modo apparentemente oscuro e nascosto, come la vita del Signore nella casa di Nazareth, ma è destinato ad una rigogliosa fioritura: la promessa, mantenuta, è che da un avvio nella piccolezza, si giungerà ad una conclusione gloriosa.
Ancora oggi, nel tempo della seconda missione trinitaria dello Spirito Santo, nel tempo, cioè, della Chiesa, la logica rimane immutata: il Regno vive e cresce in modo umanamente impercettibile, quasi insensibilmente; esso è trascurato e spesso ostacolato dalle forze del mondo, ma inesorabilmente si attesta, saldamente, nei cuori e nelle menti di coloro che sono di Cristo e là trionfa.
Attraverso il trionfo del Regno nei cuori, avviene anche quel trionfo del Regno nella storia, la cui evidenza e forza non si manifesterà pienamente, se non nell’ultimo giorno.
Questa profonda consapevolezza dell’operare di Dio nei cuori e nella storia, genera in ciascuno la consolazione che la propria piccolezza, l’insufficienza della propria forza, posta nella “piccolezza” di Dio, può produrre frutti inimmaginabili.
Il Regno è prima di tutto opera del Padre, ma per compiersi chiede il contributo di ciascuno. Siamo chiamati ad essere umili operai nella vigna del Signore, operai del Regno, con la consapevolezza che, a partire dai nostri piccoli, ma indispensabili, semi, Dio può generare frutti sovrabbondanti, prova tangibile della bellezza e della potenza del Suo Regno.
Dio può compiere meraviglie con un solo, autentico, reale, piccolo atto di fede umano! «Quanto un granello di senapa», non ci è chiesto altro! Mettere il proprio cuore e la propria mente al servizio del Regno, al servizio di Cristo Signore, significa pronunciare il sì della fede. Non nella solitudine del seme, che non porta frutto, ma nella comunione della Chiesa. La fede ecclesiale, il credere con la Chiesa, è condizione imprescindibile per portare frutto e perché realmente il Regno cresca, secondo il progetto del Padre, e non soffocato da disegni solo e troppo umani.
La Beata Vergine Maria, che è il seme più fecondo e rigoglioso del Regno di Dio, ci sostenga nell’accogliere l’agire di Dio nella nostra storia, e ci renda partecipi della sua fede, piena e totale, “gloriosa et benedicta”!


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Luciano Manicardi

Ezechiele parla dell’azione di Dio con linguaggio allegorico e Marco parla del Regno di Dio con linguaggio parabolico. L’azione di Dio può essere detta, o meglio, evocata, mediante un linguaggio che parla di inizi modesti, anzi, pressoché invisibili, ma destinati a uno sviluppo futuro rigoglioso e grandioso.
“Come rassomiglieremo il Regno di Dio? O In quale parabola lo metteremo?”. Così, letteralmente, dice Mc 4,30. Ovvero, come parlare del Regno di Dio? Chelinguaggio adottare per annunciare il vangelo? Gesù utilizza un linguaggio parabolico, sapienziale, concreto, non astratto, non dogmatico, né teologico. Un linguaggio narrativo aderente al reale. Gesù parla di Dio narrando storie di re e di pescatori, di seminatori e di contadini. Un linguaggio profondamente umano, semplice, comprensibile, che attua una comunicazione aperta, inglobante e non escludente. Come noi, oggi, parliamo delle “cose del Padre”? Come far diventare buona comunicazione la buona notizia del vangelo, se non lasciando alla parola di Dio la sua forza di evocazione del mistero e di coinvolgimento del destinatario? Il vangelo chiede di essere annunciato non come sapere chiuso che esprime la sapienza di chi lo predica o come dottrina che manifesta un Dio inaccessibile, ma come offerta di vita e di relazione per chi lo ascolta. Come benedizione. Altrimenti si rischia di soffocare la buona notizia con una cattiva comunicazione: annunciare il vangelo “contro”, piegarlo a precomprensioni parziali, edulcorarne le esigenze, dimenticarne la dimensione di perdono e di misericordia.

Alla luce della parabola del seminatore (cf. Mc 4,1-20) in cui si afferma che “il seminatore semina la parola” (Mc 4,14), si comprende che Gesù qui sta parlando dell’efficacia della parola di Dio. Il seme seminato germoglia e completa la sua crescita senza intervento del seminatore (Mc 4,27-28). Ma di quale efficacia si tratta? Ora, l’efficacia della parola, così spesso affermata nelle Scritture (cf. Is 55,10-11; Eb 4,12), non va intesa in senso mondano e pensata come misurabile in termini quantitativi: la parola di Dio è sempre “la parola della croce” (1Cor 1,18) e la sua efficacia è dello stesso ordine dell’efficacia salvifica della croce: potenza di vita celata nell’impotenza di un crocifisso. Esattamente come il Regno di Dio che è simile a un seme gettato e che deve essere sepolto nella terra per germinare. Del resto, il seme, simbolo della parola di Dio e del Regno di Dio, non è anche segno di Cristo stesso e della sua Pasqua, della sua morte e della sua resurrezione? “Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore produce molto frutto” (Gv 12,24). Caduta nel cuore di un uomo, la parola di Dio deve rimanervi, essere interiorizzata, ascoltata sempre di nuovo con perseveranza, deve essere fatta regnare sulle tante altre parole che distraggono dall’essenziale, fino a divenire principio di discernimento e di azione, dunque di carità, di misericordia, di perdono, di giustizia, di verità. E l’uomo che avrà coltivato così nel proprio cuore la parola di Dio sarà da essa rigenerato e ne mostrerà l’efficacia nel suo stesso vivere, senza esibizionismi, “come, egli stesso non lo sa”.
Spesso le parabole che Gesù narra sono seguite dall’incomprensione degli uditori e dalle spiegazioni che Gesù fornisce ai suoi discepoli (cf. Mc 4,34). In effetti, il linguaggio semplice delle parabole rivela mentre cela, e richiede un’intelligenza umile e non arrogante, una sapienza, una capacità di cogliere in unità la terra di cui narrano le parabole e il cielo a cui alludono. L’intelligenza del mistero non va confusa con la conoscenza e ancor meno con l’informazione, ma si situa sul piano della sapienza. E la sapienza, etimologicamente, abbraccia in sé tanto il sapere, quanto il sapore, tanto la mente quanto il palato, tanto lo spirito quanto il corpo. Un’intelligenza capace di gratitudine e aperta al dono perché il mistero del Regno non è conquista degli intellettuali, ma dono accolto dai semplici e dai piccoli (cf. Mt 11,25).
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Enzo Bianchi

Ascoltiamo oggi due parabole tratte dal discorso di Gesù nel capitolo quarto del vangelo secondo Marco: possiamo così gustare la sapienza di Gesù, quale si manifesta in quei gioielli letterari che sono le parabole da lui create, frutto della sua attenta osservazione della realtà.
Gesù si trova lungo il mare di Galilea ed è attorniato da molta gente. Si siede dunque su una barca e da lì ammaestra la folla radunata sulla riva (cf. Mc 4,1-2). Egli illustra la realtà dinamica del «regno di Dio» – da intendersi come esercizio del regnare, come equivalente dell’espressione biblica: «Il Signore regna! Dio regna!» (cf. Es 15,18; Sal 47,9, ecc.) – attraverso tre immagini relative all’attività della semina: la celebre parabola del seme caduto su diversi tipi di terreno (cf. Mc 4,3-20) e poi le due che ci interessano più da vicino, quella del seme che cresce spontaneamente e quella del piccolo granellino di senapa.
«Il regno di Dio è come un uomo che getta il seme nella terra: dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce; come, egli stesso non lo sa». Ecco la grande fede di Gesù in Dio, che deve essere anche la nostra fede: ciò che conta è seminare il buon seme del Regno, ossia predisporre tutto nella propria vita affinché il regnare di Dio possa iniziare a manifestarsi nella storia. Fatto questo, occorre dimorare nella pace, «poiché la terra produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco nella spiga». Il contadino che ha gettato il seme non deve preoccuparsi, non deve intervenire per misurarne la crescita, perché minaccerebbe i germogli: il tempo della mietitura – ovvero l’ora del giudizio finale (cf. Gl 4,13) – verrà certamente, ma non per il suo operare, bensì per dono di Dio, che fa crescere il Regno e prepara l’ora della sua piena manifestazione. Anche in questo Gesù è il nostro modello: la sete del regno di Dio era la ragione profonda della sua esistenza ma, una volta annunciato il Regno con franchezza, egli non si è preoccupato dei risultati immediati; anzi, ha accettato persino di essere rifiutato e messo a morte, identificandosi con il chicco di grano caduto a terra, che deve morire per portare molto frutto (cf. Gv 12,24).

Nell’altra parabola Gesù paragona il Regno a ungranellino di senapa: è il seme più piccolo che esista eppure, una volta seminato, diventa un arbusto con «rami tanto grandi che gli uccelli del cielo possono ripararsi alla sua ombra» (cf. Ez 17,22-24). Qui l’attenzione è posta sullo sviluppo straordinario del seme, sulla contrapposizione tra la sua piccolezza iniziale e la sua grandezza finale. Il regno di Dio ha una sua forza invisibile ai nostri occhi, è vivo ed efficace come la sua Parola (cf. Eb 4,12), ma questa potenza si manifesterà solo alla fine della storia. Con questa immagine Gesù non mira a consolare i credenti che vivono un oggi scoraggiante, assicurando loro un avvenire grandioso, ma vuole spiegare il senso positivo già presente nell’oggi: non è l’albero che dà la forza al seme, ma è il seme che con la sua potenza vitale si sviluppa in albero! Così accade per il Regno: nell’oggi dei credenti appare come una realtà piccola, ma alla fine dei tempi sarà manifestata la sua grandezza. La parabola rivela dunque che i criteri della grandezza e dell’apparire non devono essere applicati alla storia del regno di Dio, e ammonisce chi sa ascoltarla: la piccolezza non contrasta con la vera potenza. Basta avere fede pari a un granellino di senapa per spostare un monte (cf. Mt 17,20) e lo straordinario della nostra vita è nascosto, come «la nostra vita è nascosta con Cristo in Dio» (cf. Col 3,3).
Dunque i cristiani non si lascino sedurre dalla grandiosità né si abbattano per la piccolezza: la forza del Regno, la forza del Vangelo non è misurabile con i criteri mondani! Sì, come si legge in uno splendido testo cristiano delle origini, l’A Diogneto, «i cristiani vivono nel mondo come gli altri uomini, amano tutti e da tutti sono perseguitati … eppure sono l’anima del mondo»: la loro «differenza», non misurabile con criteri mondani, è già ora fonte di benedizione per tutti gli uomini.