mercoledì 5 settembre 2012

Il dovere semplice della santità.


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Oggi 5 settembre ricordiamo la Beata Teresa di Calcutta. Per l'occasione propongo la lettura delle prediche di Avvento tenute nel 2003 dal padre Raniero Cantalamessa ofmcapp., dedicate appunto alla sua figura.

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ESCI DALLA TUA TERRA E VA' - 30 Novembre 2003

I Predica di Avvento 2003 alla Casa Pontificia
“Oggi la Chiesa ha bisogno di santi. Ciò esige di combattere il nostro attaccamento alle comodità che ci portano a scegliere una mediocrità comoda e insignificante. Ognuno di noi ha la possibilità di diventare santo e la via per la santità è la preghiera. La santità non è qualcosa di straordinario, non è per pochi eletti. La santità è per ciascuno di noi un dovere semplice.” Madre Tesesa di Calcutta
Beatissimo Padre, Venerabili Padri, fratelli e sorelle, la beatificazione di Madre Teresa di Calcutta, il 19 Ottobre scorso, ha messo davanti agli occhi di tutti che c’è una sola vera grandezza al mondo ed è la santità. Guardando la folla che riempiva ogni angolo di Piazza S. Pietro e di via della Conciliazione al momento in cui veniva scoperta l’immagine della beata e la scola cantava l’Alleluia, questa verità balzava agli occhi. Quale altra persona al mondo viene onorata così? Da una folla tanto numerosa e soprattutto convenuta qui non per comando di qualcuno, come spesso nelle adunate oceaniche dei regimi totalitari, ma spontaneamente, per pura ammirazione e amore alla persona?
Era una conferma della verità del celebre pensiero di Pascal. Esistono al mondo tre ordini o livelli possibili di grandezza: l’ordine dei corpi in cui eccellono le persone ricche, di straordinaria bellezza o prestanza fisica, l’ordine dell’intelligenza e del genio in cui eccellono artisti, scrittori, scienziati, e l’ordine della santità in cui, dietro Cristo, eccellono la Vergine e i santi (Pensieri 793 Br). Una distanza quasi infinita, scrive Pascal, separa il secondo ordine dal primo, ma una distanza infinitamente più infinita separa il terzo dal secondo ordine, l’ordine della santità da quello del genio. “Una goccia di santità, diceva il musicista Gounod, vale più di un oceano di genio”. La gloria della santità non finisce con il tempo, ma dura eternamente. La teoria di santi che abbiamo davanti nel mosaico frontale di questa cappella ci ricorda proprio questo e ci accompagna in questa meditazione incoraggiandoci a seguirli.
Nella lettera apostolica Novo millennio ineunte il Santo Padre dice che la santità “è la prospettiva in cui deve porsi tutto il cammino pastorale della Chiesa”. Questa santità, spiega, è anzitutto dono oggettivo procuratoci da Cristo con la sua morte redentiva e ricevuto da noi nel battesimo; ma, aggiunge, “il dono si traduce a sua volta in un compito che deve governare l’intera esistenza cristiana” [1] .
In più occasioni mi sono soffermato sulla santità di Cristo come dono gratuito di cui appropriarsi mediante la fede, facendo quello che amo chiamare il “colpo di audacia”, o il “colpo d’ala” nella vita spirituale; questa volta, sulla scia di Madre Teresa, vorrei insistere sulla santità di Cristo come modello da imitare nella vita..
A questo proposito, nel biglietto di invito a queste prediche di Avvento è riportato un pensiero di Madre Teresa. Dice: “Oggi la Chiesa ha bisogno di santi. Ciò esige di combattere il nostro attaccamento alle comodità che ci portano a scegliere una mediocrità comoda e insignificante. Ognuno di noi ha la possibilità di diventare santo e la via per la santità è la preghiera. La santità è per ciascuno di noi un dovere semplice”.
1. Alla sorgente della santità
Nella vita di Madre Teresa scopriamo qual è quell’atto iniziale da cui parte di solito l’avventura della santità, la “prima pietra” dell’edificio. Per nostra consolazione scopriamo che questo atto può intervenire a qualsiasi età della vita. In altre parole, non è mai troppo tardi per cominciare a farsi santi. S. Teresa d’Avila aveva vissuto per molti anni una vita abbastanza ordinaria e non senza compromessi, quando intervenne il cambiamento che fece di lei quello che conosciamo.
Lo stesso si è ripetuto nella vita della sua omonima Madre Teresa di Calcutta. Fino all’età di 36 anni lei era una suora della Congregazione di Loreto, fedele certamente alla sua vocazione e dedita al suo lavoro, ma nulla che facesse prevedere in lei qualcosa di straordinario. Fu durante un viaggio in treno da Calcutta a Darjeeling per il suo annuale ritiro spirituale che avvenne il fatto che cambiò la sua vita. La voce misteriosa di Dio le rivolse un invito chiaro: lascia il tuo ordine, la tua vita precedente, e mettiti a mia disposizione per un’opera che io ti indicherò. Tra le figlie di Madre Teresa questo giorno –il 10 Settembre del 1946 – è ricordato con il nome di “giorno dell’ispirazione”.
Grazie ai documenti venuti alla luce durante il processo di beatificazione conosciamo oggi le parole esatte dettele da Gesù: “Desidero suore indiane, Missionarie della Carità, che siano il mio fuoco d’amore tra i più poveri, gli ammalati, i moribondi, i bambini di strada. Voglio che tu conduca a me i poveri…Rifiuterai di fare questo per me?”. E ancora: “Ci sono conventi con una quantità di suore che si occupano delle persone ricche e dotate, ma per i miei indigenti non c’è assolutamente nessuno”.
Nella vita di Madre Teresa si rinnova, in questo momento, l’esperienza di Abramo, al quale un giorno Dio disse: “Vàttene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò” (Gen 12, 1). L’”Esci!” rivolto ad Abramo è diverso dall’ordine rivolto più tardi a Lot di uscire da Sodoma (cf.Gen 19,15). Nulla indica che Ur di Caldea fosse un ambiente particolarmente corrotto e che Abramo non poteva salvarsi rimanendo dov’era. Nel suo Trittico Romano, il testo poetico pubblicato quest’anno, il papa riflette sui probabili sentimenti di Abramo di fronte alla proposta divina: “Perché devo andarmene da qui? Perché io debbo abbandonare Ur di Caldea?” [2] .
Le stesse domande, sappiamo, si pose Madre Teresa. Fu una lacerazione interiore. All’Arcivescovo Perier confida: “Sono stata e continuo ad essere molto felice come suora di Loreto, per lasciare ciò che amo ed espormi a nuove fatiche e sofferenze che saranno grandi”. Rivolta a Gesù dice: “Perché non posso essere una perfetta suora di Loreto…Perché non posso essere come tutte le altre?…Quello che mi chiedi è troppo grande per me…Cerca un’anima più degna e più generosa”.
Si ripete anche in ciò una costante della Bibbia. Mosè diceva “Io non sono un buon parlatore, non lo sono mai stato” (Es 4, 10) e Geremia: “Sono troppo giovane…” (Ger 1, 6). Ma Dio sa distinguere quando le obbiezioni dei suoi chiamati nascono da resistenza al suo volere e quando nascono invece da paura di ingannarsi e di non essere all’altezza del compito. Per ciò non si offende per le loro richieste di spiegazione. Non si fermò alla domanda di Maria: “Come avverrà questo?”, mentre rimproverò Zaccaria e lo rese muto per la stessa domanda (cf. Lc 1,18). La domanda di Maria non nasceva dal dubbio, ma dal legittimo desiderio di sapere cosa doveva fare per realizzare ciò che Dio le chiedeva.
Alla fine Madre Teresa, come Maria, disse a Dio il suo pieno fiat, sì. Lo disse con i fatti che conosciamo e lo disse con gioia. La parola greca tradotta in latino con fiat è genoito. Nella traduzione va persa purtroppo una sfumatura importantissima: genoito è al modo ottativo non concessivo come fiat: non esprime semplice consenso o rassegnazione a che una cosa avvenga, (quasi a dire: se proprio non si può fare diversamente, ebbene, fiat voluntas tua!”); esprime al contrario desiderio, impazienza, gioia che una cosa avvenga. Per questo si chiama modo “ottativo”. “Dio ama chi dona con gioia”(2 Cor 9,7): una parola che Madre Teresa non si stancava di inculcare alle sue figlie, ma soprattutto che ha mostrato con il suo sorriso per tutta la vita.
2. Il chicco di melagrana
A questo punto è chiaro qual è quell’atto fondamentale, quella “prima pietra” su cui poggia la santità di Madre Teresa e di ogni santità cristiana: è la risposta a una chiamata, è l’obbedienza a una ispirazione divina, vagliata e riconosciuta come tale. Simone Weil che non era una santa, ma ammirava perdutamente la santità, parla del “consenso che l’anima in questi momenti accorda a Dio, come qualcosa di impercettibile, in mezzo a tutte le inclinazioni carnali, un minuscolo chicco di melagrana, che tuttavia decide del suo destino per sempre” [3] .
Tutte le grandi imprese di santità della Bibbia e della storia della Chiesa riposano su un sì detto a Dio nel momento in cui egli rivela personalmente a qualcuno la sua volontà. Dalla fede-obbedienza di Abramo la Scrittura fa dipendere l’intera storia successiva del popolo eletto: “Saranno benedette per la tua discendenza tutte le nazioni della terra, perché tu hai obbedito alla mia voce” (Gen 22, 18); dalla fede-obbedienza di Maria Dio ha voluto far dipendere l’inizio della nuova ed eterna alleanza.
Nel suo libro autobiografico Dono e mistero, il Santo Padre Giovanni Paolo II, scrive: “Nell’autunno del 1942 presi la decisione definitiva di entrare in seminario” [4] : il corsivo nel testo sta per tante spiegazioni non date, ma che si intuiscono. Quella decisione era stata preceduta anch’essa da una chiamata; fu la decisione di rispondere a un invito, come è ogni vocazione sacerdotale. Ora sappiamo cosa Dio ha costruito su quella decisione, su quell’’”Ecco, io vengo”, pronunciato nel lontano 1942.
Immagino lo stupore e la commozione di Madre Teresa al tramonto della vita, quando ripensava a quel viaggio in treno. Cosa Dio aveva saputo realizzare con quel suo piccolo e sofferto sì! Quale progetto grandioso aveva già in mente che lei non conosceva! Non posso pensare alla sua anima alla fine della vita se non in atto di cantare uno stupito e commosso “L’anima mia magnifica il Signore… Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente”.
All’inizio di quest’anno le Missionarie della Carità mi hanno fatto l’onore di predicare ad esse gli esercizi spirituali in preparazione al capitolo generale tenuto a Calcutta. (In realtà erano esse che predicavano gli esercizi a me, con la straordinaria serietà, povertà e preghiera incessante). Mi è parso di avvertire, fin dal primo incontro, il desiderio di Madre Teresa dal cielo che il primo capitolo celebrato dopo la sua morte fosse l’occasione per un commosso e corale Magnificat a Dio da parte delle sue figlie per quello che aveva fatto nella sua vita e continuava a fare nella loro. L’ho trasmesso con semplicità alle presenti e, a capitolo concluso, la Madre Generale, Suor Nirmala, ha confidato che questo era stato di fatto, e prima di tutto, il capitolo generale.
Nella vita di ognuno di noi, come nella vita di Madre Teresa, c’è stata una chiamata, altrimenti non saremmo qui. Anche il nostro sì fu forse un sì al buio, senza sapere dove ci avrebbe portati. A distanza di anni non dobbiamo avere paura di riconoscere quello che Dio ha saputo costruire su quel piccolo sì, nonostante le nostre resistenze e infedeltà, e intonare anche noi un commosso e grato ”L’anima mia magnifica il Signore”.
3. Le buone ispirazioni
Ma ora ci dobbiamo ricordare della massima degli antichi, a proposito del culto dei santi: “Imitari non pigeat quod celebrare delectat”: non dobbiamo tralasciare di imitare quello che ci è caro celebrare [5] . La vicenda di Madre Teresa ci ricorda una cosa essenziale per la nostra santificazione: l’importanza di obbedire alle ispirazioni. Questo non è qualcosa che si deve praticare una sola volta in vita. Alla prima, decisiva chiamata di Dio, seguono tanti altri inviti discreti che chiamiamo le buone ispirazioni. Dalla docilità ad esse dipende ogni nostro progresso spirituale.
Si capisce facilmente perché la fedeltà alle ispirazioni è la via più breve e più sicura alla santità. Questa non è opera dell’uomo; non basta perciò avere un programma di perfezione ben chiaro per poi realizzarlo progressivamente. Non c’è un modello di perfezione identico per tutti. Dio non fa i santi in serie, non ama la clonazione. Ogni santo è una invenzione inedita dello Spirito. Dio può chiedere a un santo l’opposto di quello che chiede a un altro. Cosa c’è di comune, per restare in tempi vicini a noi, tra Escrivà de Balaguer e Madre Teresa? Eppure tutti e due sono santi per la Chiesa.
Noi non sappiamo dunque in partenza qual è in concreto la santità che Dio vuole da ognuno di noi; Dio solo la conosce e ce la svela a mano a mano che il cammino prosegue. Ne consegue che per raggiungere la santità l’uomo non può limitarsi a seguire delle regole generali che valgono per tutti. Deve capire quello che Dio chiede a lui e solamente a lui. Pensiamo a cosa sarebbe successo se Giuseppe di Nazareth si fosse limitato a seguire fedelmente le regole di santità allora conosciute, o se Madre Teresa si fosse ostinata ad osservare le regole canoniche vigenti negli istituti religiosi.
Ora quello che Dio vuole di diverso e di particolare da ognuno lo si scopre attraverso gli avvenimenti della vita, la parola della Scrittura, la guida del direttore spirituale, ma il mezzo principale e ordinario sono proprio le ispirazioni della grazia. Queste sono delle sollecitazioni interiori dello Spirito nel profondo del cuore attraverso le quali Dio non solo fa conoscere quello che chiede, ma allo stesso tempo comunica la forza necessaria per compierlo, se la persona acconsente.
Le buone ispirazioni hanno qualcosa in comune con l’ispirazione biblica, a parte naturalmente l’autorità e la portata che sono essenzialmente diverse. “Dio disse ad Abramo…”, “Il Signore parlò a Mosè”: questo parlare del Signore non era, dal punto di vista della fenomenologia, qualcosa di diverso da quello che avviene nelle ispirazioni della grazia. La voce di Dio, anche sul Sinai, non risuonava all’esterno, ma dentro il cuore sotto forma di chiarezza, di impulsi, originati dallo Spirito Santo. I dieci comandamenti non furono incisi dal dito di Dio su tavole di pietra ma sul cuore di Mosè che poi le incise su tavole di pietra. “Mossi da Spirito Santo, parlarono quegli uomini da parte di Dio” (2 Pt 1,21); erano essi a parlare, ma mossi da Spirito Santo; ripetevano con la bocca quello che ascoltavano nel cuore.
Ogni fedeltà ad un’ispirazione viene ricompensata da ispirazioni sempre più frequenti e più forti. E’ come se l’anima si allenasse per giungere ad una percezione sempre più chiara della volontà di Dio e a una facilità maggiore nel compierla.
4. Il discernimento degli spiriti
Il problema più delicato, riguardo alle ispirazioni, è stato sempre quello di discernere quelle che vengono dallo Spirito di Dio da quelle che provengono dallo spirito del mondo, dalle proprie passioni o dallo spirito maligno.
Il tema del discernimento degli spiriti ha subito nei secoli una notevole evoluzione. All’origine esso era concepito come il carisma che serviva a distinguere, tra le parole, preghiere e profezie pronunciate nell’assemblea, quali provenivano dallo Spirito di Dio e quali no. In seguito, esso è servito soprattutto a discernere le proprie ispirazioni e a guidare le proprie scelte. L’evoluzione non è arbitraria; si tratta infatti dello stesso dono, anche se applicato a oggetti diversi.
Vi sono dei criteri di discernimento che potremmo chiamare oggettivi. Nel campo dottrinale essi si riassumono per Paolo nel riconoscimento di Cristo come Signore: “Nessuno che parli sotto l’azione dello Spirito di Dio può dire ‘Gesù è anatema’, e nessuno può dire ‘Gesù è Signore’ se non sotto l’azione dello Spirito Santo” (1 Cor 12, 3); per Giovanni si riassumono nella fede in Cristo e nella sua incarnazione: “Carissimi, non prestate fede a ogni ispirazione, ma mettete alla prova le ispirazioni, per saggiare se provengono veramente da Dio, perché molti falsi profeti sono comparsi nel mondo. Da questo potete riconoscere lo spirito di Dio: ogni spirito che riconosce che Gesù Cristo è venuto nella carne, è da Dio; ogni spirito che non riconosce Gesù, non è da Dio” (1 Gv 4, 1-3).
Nel campo morale un criterio fondamentale è dato dalla coerenza dello Spirito di Dio con se stesso. Esso non può chiedere qualcosa che sia contrario alla volontà divina, così come viene espressa nella Scrittura, nell’insegnamento della Chiesa e nei doveri del proprio stato. Un’ispirazione divina non chiederà mai di compiere degli atti che la Chiesa considera immorali, per quanti speciosi argomenti contrari la carne sia capace di suggerire in questi casi; per esempio, che Dio è amore e perciò tutto quello che si fa per amore è da Dio.
Se un religioso disubbidisce ai suoi superiori, anche per uno scopo lodevole, sicuramente non sarebbe una ispirazione della grazia, perché la prima ispirazione che Dio manda è proprio di obbedire. Madre Teresa attese pazientemente che l’autorità ecclesiastica riconoscesse la sua ispirazione, prima di metterla in atto.
A volte però questi criteri oggettivi non bastano perché la scelta non è tra bene e male, ma è tra un bene e un altro bene e si tratta di vedere qual è la cosa che Dio vuole, in una precisa circostanza. Fu soprattutto per rispondere a questa esigenza che sant’Ignazio di Loyola sviluppò la sua dottrina sul discernimento.
Egli invita a osservare le intenzioni (gli “spiriti”) che stanno dietro a una scelta e le reazioni che essa provoca [6] . Si sa che quel che viene dallo Spirito di Dio porta con sé gioia, pace, tranquillità, dolcezza, semplicità, luce. Quello che proviene dallo spirito del male, invece, porta con sé tristezza, turbamento, agitazione, inquietudine, confusione, tenebre. L’Apostolo lo mette in luce contrapponendo tra loro i frutti della carne ( inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, invidie) e i frutti dello Spirito che sono invece amore, gioia, pace… (cf. Gal 5, 19-22).
Nella pratica, le cose, è vero, sono più complesse. Un’ispirazione può venire da Dio e, nonostante ciò, causare un grande turbamento. Ma questo non è dovuto all’ispirazione che è dolce e pacifica come tutto quello che proviene da Dio; nasce piuttosto dalla resistenza all’ispirazione. Anche un fiume calmo e tranquillo, se incontra degli ostacoli, provoca risucchi e vortici. Se l’ispirazione è accolta, il cuore si trova subito in una pace profonda. Dio ricompensa ogni piccola vittoria in questo campo, facendo sentire all’anima la sua approvazione, che è la gioia più pura che esista al mondo.
5. Lasciarsi condurre dallo Spirito
Il frutto concreto di questa meditazione deve essere una rinnovata decisione di affidarci in tutto e per tutto alla guida interiore dello Spirito Santo, come per una sorta di “direzione spirituale”. Se accogliere le ispirazioni è importante per ogni cristiano, è vitale per chi ha compiti di governo nella Chiesa. Solo così si permette allo Spirito di Cristo di guidare lui stesso la sua Chiesa attraverso i suoi rappresentanti umani. Non è necessario che su una nave tutti i passeggeri stiano incollati con l’orecchio alla radio di bordo per ricevere segnali sulla rotta, su eventuali icebergs e sulle condizioni del tempo, ma è indispensabile che lo siano gli incaricati. Da una “ispirazione divina” coraggiosamente accolta da Papa Giovanni XXIII è nato il Concilio Vaticano II e sono nati in tempi a noi più vicini tanti altri gesti profetici.
È questo bisogno della guida dello Spirito Santo che ha ispirato le parole del Veni creator: Ductore sic te praevio vitemus omne noxium: “con te che ci fai da guida eviteremo ogni male”. Nel suo Trittico Romano, il Santo Padre riecheggia questa parola quando, parlando del momento di eleggere il successore di Pietro, mette sulla bocca dei presenti la preghiera: “Tu che penetri tutto – indica!”.
Dobbiamo abbandonarci tutti al Maestro interiore che ci parla senza strepito di parole. Come bravi attori, dobbiamo tenere l’orecchio proteso, nelle grandi e nelle piccole occasioni, alla voce di questo suggeritore nascosto, per recitare fedelmente la nostra parte nella scena della vita.
È più facile di quanto si pensi, perché egli ci parla dentro, ci insegna ogni cosa, ci istruisce su tutto. “Quanto a voi, ci assicura Giovanni, l’unzione che avete ricevuto da lui rimane in voi e non avete bisogno che alcuno vi ammaestri; la sua unzione vi insegna ogni cosa, è veritiera e non mentisce” (1 Gv 2,27). Basta a volte una semplice occhiata interiore, un movimento del cuore, un attimo di raccoglimento e di preghiera.
Con le parole di una notissima preghiera liturgica chiediamo a Dio, per intercessione della Beata Teresa di Calcutta, il dono di riconoscere e seguire le sue ispirazioni divine come le ha seguite lei: “Actiones nostras, quesumus Domine, aspirando preveni et adjuvando prosequere, ut cuncta nostra oratio et operatio a te semper incipiat et per te cepta finiatur ” [7] . “Ispira le nostre azioni, Signore, e accompagnale con il tuo aiuto, perché ogni nostra attività abbia in te il suo inizio e in te il suo compimento. Per Cristo nostro Signore”.
[1] NMI, 30.
[2] Giovanni Paolo II, Trittico romano, III. Colle nel paese di Moria, 1 (Libreria Editrice Vaticana, 2003, p. 35.
[3] S. Weil, Intuitions préchrétiennes, Parigi 1967 (trad. ital. La Grecia e le intuizioni prechristiane, Torino 1967, p. 113.s.)
[4] Giovanni Paolo II, Dono e mistero, Libreria Editrice Vaticana, Roma 1996, p. 21.
[5] Florilegium Frisingense, n.371 (CCL, 108D):
[6] Cf. S. Ignazio di Loyola, Esercizi spirituali, quarta settimana (ed. BAC, Madrid 1963, pp. 262 ss).

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SE DOVESSI CAMMINARE PER UNA VALLE OSCURA - 7 Dicembre 2003

II Predica di Avvento 2003 – alla Casa Pontificia
Beatissimo Padre, Venerabili Padri, fratelli e sorelle! Un giorno Francesco d’Assisi, alludendo ai poemi cavallereschi e alle schansons de geste che si scrivevano al suo tempo, uscì in questa esclamazione: “Carlo imperatore, Orlando e Oliviero, tutti i paladini e i prodi guerrieri che furono gagliardi nei combattimenti, incalzando gl’infedeli con molto sudore e fatica fino alla morte, riportarono su di essi una gloriosa memorabile vittoria, e all’ultimo questi santi martiri caddero in battaglia per la fede di Cristo. Ma ci sono ora molti che, con la sola narrazione delle loro gesta, vogliono ricevere onore e gloria dagli uomini” [1] .
In una delle sue Ammonizioni il santo spiegò cosa aveva voluto dire con quelle parole: “È grande vergogna per noi servi del Signore il fatto che i santi operarono con i fatti e noi raccontando e predicando le cose che essi fecero ne vogliamo ricevere onore e gloria” [2] . Queste parole mi tornano alla mente come un austero richiamo nel momento in cui mi accingo a tenere la seconda meditazione sulla santità di Madre Teresa di Calcutta.
1. Nel buio della notte
Cosa successe dopo che Madre Teresa disse il suo sì all’ispirazione divina che la chiamava a lasciare tutto per mettersi a servizio dei più poveri dei poveri? Il mondo ha conosciuto bene ciò che avvenne intorno a lei -l’arrivo delle prime compagne, l’approvazione ecclesiastica, il vertiginoso sviluppo delle sue attività caritative -, ma fino alla sua morte nessuno ha conosciuto ciò che avvenne dentro di lei.
Lo hanno rivelato i diari personali e le lettere al suo direttore spirituale, resi pubblici in occasione del processo di beatificazione: “Con l’inizio della sua nuova vita a servizio dei poveri, una opprimente oscurità venne su di lei” [3] . Bastano alcuni brevi stralci per darci un’idea della densità delle tenebre in cui si venne a trovare:
“C’è tanta contraddizione nella mia anima, un profondo anelito a Dio, così profondo da far male, una sofferenza continua – e con ciò il sentimento di non essere voluta da Dio, respinta, vuota, senza fede, senza amore, senza zelo… Il cielo non significa niente per me, mi appare un luogo vuoto” [4] .
Non è stato difficile riconoscere subito in questa esperienza di Madre Teresa un caso classico di quello che gli studiosi di mistica, dietro S. Giovanni della Croce, sono soliti chiamare la notte oscura dello spirito. Taulero fa una descrizione impressionante di questa tappa della vita spirituale:
“Allora veniamo abbandonati in tal modo da non aver più nessuna conoscenza di Dio e cadiamo in tale angoscia da non sapere più se siamo mai stati sulla via giusta, né più sappiamo se Dio esiste o no, o se noi stessi siamo vivi o morti. Cosicché su di noi cade un dolore così strano che ci pare che tutto quanto il mondo nella sua estensione ci opprima. Non abbiamo più nessuna esperienza né conoscenza di Dio, ma anche tutto il resto ci appare ripugnante, sicché ci pare di essere prigionieri tra due mura” [5] .
Tutto lascia pensare che questa oscurità accompagnò Madre Teresa fino alla morte [6] , con una breve parentesi nel 1958, durante la quale poté scrivere giubilante: “Oggi la mia anima è ricolma di amore, di gioia indicibile e di una ininterrotta unione d’amore” [7] . Se a partire da un certo momento non ne parla quasi più non è perché la notte è finita, ma perché ella si è ormai adattata a vivere in essa. Non solo l’ha accettata, ma riconosce la grazia straordinaria che racchiude per lei.
“Ho cominciato ad amare la mia oscurità, perché credo ora che essa è una parte, una piccolissima parte, dell’oscurità e della sofferenza in cui Gesù visse sulla terra” [8] .
Il fiore più profumato della notte di Madre Teresa è il suo silenzio su di essa. Aveva paura, parlandone, di attirare l’attenzione su di sé. Anche le persone a lei più vicine non hanno sospettato nulla, fino alla fine, di questo interiore tormento della Madre. Su suo ordine, il direttore spirituale dovette distruggere tutte le sue lettere e se alcune se ne sono salvate è perché egli, con il permesso di lei, ne aveva fatto una copia per l’arcivescovo e futuro cardinale T. Picachy, tra le cui carte furono trovate dopo morte. L’Arcivescovo, per nostra fortuna, si era rifiutato di accondiscendere alla richiesta fatta anche a lui dalla Madre di distruggerle.
Il pericolo più insidioso per l’anima nella notte oscura dello spirito è di… accorgersi che si tratta, appunto, della notte oscura, di quello che grandi mistici hanno vissuto prima di lei e quindi di far parte di una cerchia di anime elette. Con la grazia di Dio, Madre Teresa ha evitato questo rischio, nascondendo a tutti il suo tormento sotto un eterno sorriso.
“Tutto il tempo a sorridere, dicono di me le sorelle e la gente. Pensano che il mio intimo sia ricolmo di fede, fiducia e amore…Se solo sapessero e come il mio essere gioiosa non è che un manto con cui copro vuoto e miseria!” [9] .
Un detto dei Padri del deserto dice: “Per quanto grandi siano le tue pene, la tua vittoria su di esse sta nel silenzio” [10] . Madre Teresa lo ha messo in pratica in maniera eroica.
2. Madre Teresa di Calcutta e Padre Pio da Pietrelcina
In occasione della canonizzazione di Padre Pio da Pietrelcina degli osservatori laici espressero il parere che quella del mistico del Gargano fosse una santità arcaica, a differenza di quella di Madre Teresa, la santa della carità, che sarebbe una santità moderna. Adesso scopriamo che anche Madre Teresa era una mistica (che Padre Pio fosse anche un santo della carità, bastava a dimostrarlo l’opera da lui realizzata a “sollievo della sofferenza”).
L’errore è di contrapporre questi due tratti della santità cristiana che vediamo al contrario spesso mirabilmente uniti, cioè altissima contemplazione e intensissima azione. S. Caterina da Genova, considerata una delle vette della mistica, fu da Pio XII proclamata patrona degli ospedali in Italia, per l’opera sua e dei suoi discepoli a favore dei malati e degli incurabili che ricorda da vicino quella di Madre Teresa ai nostri giorni.
In un bell’articolo, scritto in occasione della beatificazione, un autore indiano definisce Madre Teresa “una sorella per Gandhi” [11] . Certamente molti tratti accomunano le due grandi anime, i due Mahatma, dell’India moderna, ma è ancor più giusto, credo, vedere in Madre Teresa “una sorella per Padre Pio”. Li accomuna non solo la stessa venerazione della Chiesa, ma anche uno stesso ciclone di gloria da parte dell’opinione pubblica mondiale. Una si è distinta soprattutto nelle opere di misericordia corporali, l’altro nelle opere di misericordia spirituali. Ma è stata proprio Madre Teresa a ricordare al mondo d’oggi che la povertà più brutta non è quella dei poveri di cose, ma quella dei poveri di Dio, di umanità e di amore, la povertà, insomma, del peccato.
Il tratto che più avvicina questi due santi è forse proprio la lunga notte oscura in cui hanno vissuto per tutta la vita. Ricorderò sempre l’impressione che ebbi nel leggere, nel coretto di S. Giovanni Rotondo, dove è esposta in un quadretto, la relazione con cui padre Pio descriveva al suo padre spirituale il fatto delle stimmate. Egli terminava facendo sue le parole del salmo che dice: “Signore, non castigarmi nel tuo sdegno, non punirmi nella tua ira” (Sal 38, 2). Era convinto, e questa convinzione lo accompagnò fino alla morte, che le stimmate non fossero un segno di predilezione e di accettazione da parte di Dio, ma, al contrario, del suo rifiuto e del giusto castigo divino per i suoi peccati. Fu quello che mi aprì gli occhi sulla statura mistica di questo mio confratello, di cui, fino allora, mi ero poco interessato.
Per spandere luce, tutte e due queste anime hanno dovuto trascorrere la vita al buio, convinti, per giunta, di “ingannare” la gente. S. Gregorio Magno dice che il contrassegno degli uomini superiori è che “nel dolore della propria tribolazione, non trascurano l’utilità altrui; e mentre sopportano con pazienza le avversità che li colpiscono, pensano a insegnare agli altri ciò che è necessario, simili in ciò a certi grandi medici che, colpiti essi stessi, dimenticano le loro ferite per curare gli altri” [12] . Questo segno risplende in grado eminente nella vita di Madre Teresa e di Padre Pio. Basta pensare a ciò che, nelle loro condizioni di spirito, sono stati capaci di fare per gli altri, in confessionale o al capezzale di moribondi.
3. Non solo purificazione
Ma perché questo strano fenomeno di una notte dello spirito che dura praticamente tutta la vita? Qui c’è qualcosa di nuovo rispetto a quello che hanno vissuto e spiegato i maestri del passato, compreso S. Giovanni della Croce. Questa notte oscura non si spiega con la sola idea tradizionale della purificazione passiva, la cosiddetta via purgativa, che prepara alla via illuminativa e a quella unitiva. Madre Teresa era convinta che si trattasse proprio di questo nel caso suo; pensava che il suo “io” fosse particolarmente duro da vincere, se Dio era costretto a tenerla così a lungo in quello stato.
Ma non era certo questo. La interminabile notte di alcuni santi moderni è il mezzo di protezione inventato da Dio per i santi di oggi che vivono e operano costantemente sotto i riflettori dei media. È la tuta d’amianto per chi deve andare tra le fiamme; è l’isolante che impedisce alla corrente elettrica di disperdersi, provocando corti circuiti…
S. Paolo diceva: “Perché non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne” (2 Cor 12,7). La spina nella carne che era il silenzio di Dio si è rivelata efficacissima per Madre Teresa: l’ha preservata da ogni ebbrezza, in mezzo al gran parlare che il mondo faceva di lei, perfino al momento di ritirare il premio Nobel per la pace. “Il dolore interiore che sento –diceva– è talmente grande che non provo nulla per tutta la pubblicità e il parlare della gente”.
Anche questo accomuna Madre Teresa a Padre Pio. Un giorno Padre Pio, guardando dalla finestra la folla radunata sul piazzale, chiese meravigliato al confratello che gli stava accanto: “Ma perché sono venuti tutti questi?”, e alla risposta: “Per lei, Padre”, si ritirò in fretta sospirando: “Se solo sapessero…” .
Ma c’è una ragione ancora più profonda che spiega queste notti che si prolungano per tutta una vita: l’imitazione di Cristo, la partecipazione all’oscura notte dello spirito che avvolse Gesù nel Getsemani e in cui morì sul Calvario, gridando: “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?”. Nella lettera apostolica Novo millennio ineunte, a proposito del “volto dolente” di Cristo, il papa scrive:
“Di fronte a questo mistero, accanto all’indagine teologica, un aiuto rilevante può venirci da quel grande patrimonio che è la ‘teologia vissuta’ dei Santi. Essi ci offrono indicazioni preziose che consentono di accogliere più facilmente l’intuizione della fede, e ciò in forza delle particolari luci che alcuni di essi hanno ricevuto dallo Spirito Santo, o persino attraverso l’esperienza che essi stessi hanno fatto di quegli stati terribili di prova che la tradizione mistica descrive come ‘notte oscura’. Non rare volte i Santi hanno vissuto qualcosa di simile all’esperienza di Gesù sulla croce nel paradossale intreccio di beatitudine e di dolore” [13] .
La lettera cita l’esperienza di S. Caterina da Siena e di Teresa di Gesù Bambino; ora sappiamo che si potrebbe citare anche l’esempio di Madre Teresa. Ella è giunta a vedere sempre più chiaramente la sua prova come una risposta al desiderio di condividere il “Sitio” di Gesù sulla croce:
“Se la pena e la sofferenza, la mia oscurità e separazione da te ti da una goccia di consolazione, mio Gesù, fa di me ciò che vuoi…Imprimi nella mia anima e nella vita la sofferenza del tuo cuore…Voglio saziare la tua sete con ogni singola goccia di sangue che puoi trovare in me. Non ti preoccupare di tornare presto: sono pronta ad aspettarti per tutta l’eternità” [14] .
Sarebbe grave errore pensare che la vita di queste persone sia tutta tetra sofferenza. La Novo millennio ineunte, abbiamo sentito, parla di un “paradossale intreccio di beatitudine e di dolore”. Nel fondo dell’anima, queste persone godono di una pace e gioia sconosciute al resto degli uomini, derivanti dalla certezza, più forte in esse del dubbio, di essere nella volontà di Dio. S. Caterina da Genova paragona la sofferenza delle anime in questo stato a quella del Purgatorio e dice che essa “è così grande, che solo è paragonabile a quella dell’inferno”, ma che c’è in esse una “grandissima contentezza” che sola si può paragonare a quella dei santi in Paradiso [15] .
La gioia e la serenità che emanava dal volto di Madre Teresa non era una maschera, ma il riflesso dell’unione profonda con Dio in cui viveva la sua anima. Era lei che si “ingannava” sul suo conto, non la gente.
4. A fianco degli atei
Altro che santi “arcaici”, i mistici sono i più moderni tra i santi. Il mondo d’oggi conosce una nuova categoria di persone: gli atei in buona fede, coloro che vivono dolorosamente la situazione del silenzio di Dio, che non credono in Dio ma non si fanno un vanto di ciò; sperimentano piuttosto l’angoscia esistenziale e la mancanza di senso del tutto; vivono anch’essi, a loro modo, in una notte oscura dello spirito. Nel suo romanzo La peste Albert Camus li chiamava “i santi senza Dio”. I mistici esistono soprattutto per essi; sono loro compagni di viaggio e di mensa. Come Gesù, essi “si sono assisi alla mensa dei peccatori e hanno mangiato con loro”(cf. Lc 15,2).
Questo spiega la passione con cui certi atei, una volta convertiti, si sono buttati sugli scritti dei mistici: Claudel, Bernanos, i due Maritain, L. Bloy, lo scrittore J.-K. Huysmans e tanti altri sugli scritti di Angela da Foligno, T.S. Eliot su quelli di Giuliana di Norwich. Vi ritrovavano lo stesso paesaggio che avevano lasciato, ma questa volta illuminato dal sole. Quest’anno ricorre il cinquantesimo anniversario della prima rappresentazione di Aspettando Godot, il dramma più rappresentativo del teatro dell’assurdo, ma pochi sanno che il suo autore, Samuel Beckett, nel tempo libero leggeva S. Giovanni della Croce.
La parola “ateo” può avere un senso attivo e un senso passivo. Può indicare uno che rifiuta Dio, ma anche uno che -almeno così gli sembra- è rifiutato da Dio. Nel primo caso, si tratta di un ateismo di colpa (quando non è in buona fede), nel secondo di un ateismo di pena, o di espiazione. In quest’ultimo senso possiamo dire che i mistici, nella notte dello spirito, sono degli a-tei, dei senza Dio. Madre Teresa ha parole che nessuno avrebbe sospettato in lei:
“Dicono che la pena eterna che soffrono le anime nell’inferno è la perdita di Dio…Nella mia anima io sperimento proprio questa terribile pena del danno, di Dio che non mi vuole, di Dio che non è Dio, di Dio che in realtà non esiste. Gesù, ti prego perdona la mia bestemmia” [16] .
Ma si rende conto della natura diversa, di solidarietà e di espiazione, di questo suo “ateismo”:
“Voglio vivere in questo mondo così lontano da Dio e che ha voltato le spalle alla luce di Gesù, per aiutare la gente, prendendo su di me qualcosa della loro sofferenza” [17] .
I mistici sono giunti a un passo dal mondo dove vivono i senza Dio; hanno sperimentato la vertigine di buttarsi giù. È ancora Madre Teresa che scrive al suo padre spirituale:
“Sono stata sul punto di dire No… Mi sento come se qualcosa un giorno o l’altro dovesse spezzarsi in me” “Prega per me, che io non rifiuti Dio in quest’ora. Non lo voglio ma temo di poterlo farlo“ [18] .
Per questo i mistici sono gli ideali evangelizzatori nel mondo post-moderno, dove si vive “etsi Deus non daretur”, come se Dio non esistesse. Ricordano agli atei onesti che non sono “lontani dal regno di Dio”; che basterebbe loro spiccare un salto per ritrovarsi dalla sponda dei mistici, passando dal nulla al tutto. Aveva ragione Karl Rahner di dire: “Il cristianesimo del futuro, o sarà mistico, o non sarà”. Padre Pio e Madre Teresa sono la risposta a questo segno dei tempi. Non dobbiamo “sprecare” i santi, riducendoli a distributori di grazie, o di buoni esempi.
5. La nostra piccola notte
I mistici hanno però qualcosa da dire anche a noi credenti, non solo agli atei. Essi non sono un’eccezione, o una categoria a parte di cristiani. Mostrano piuttosto, come all’ingrandimento, quello che dovrebbe essere il pieno espandersi della vita di grazia. Una cosa soprattutto impariamo dalla notte oscura dei mistici e in particolare da quella di Madre Teresa: come comportarci nel tempo dell’aridità, quando la preghiera diventa lotta, fatica, un picchiare la testa contro un “muro del pianto”.
Non c’è bisogno di insistere sulla preghiera di Madre Teresa in tutti quegli anni passati nell’oscurità; l’immagine di lei in preghiera è quella che tutti abbiamo ancora davanti agli occhi. Una serie di bellissime preghiere sono tra le eredità più preziose che ella ha lasciato alle sue figlie e alla Chiesa. Di Gesù l’evangelista Luca dice che “In preda all’angoscia, pregava più intensamente”, factus in agonia prolixius orabat (Lc 22, 44). È quello che si osserva anche nella vita di queste anime.
L’aridità nella preghiera, quando non è frutto di dissipazione e di compromessi con la carne, ma permissione di Dio, è la forma attenuata e comune che prende la notte oscura nella maggioranza delle persone che tendono alla santità. In questa situazione è importante non arrendersi e cominciare a omettere la preghiera per darsi al lavoro, visto che si con clude ben poco con lo stare a pregare. Quando Dio non c’è, è importante almeno che il suo posto resti vuoto e che non venga preso da qualche idolo, soprattutto da quello chiamato attivismo.
Per im pedire che ciò avvenga è bene interrompere ogni tanto il lavoro per elevare almeno un pensiero a Dio, o per sacrificargli semplicemente un poco di tempo. Nel tempo dell’aridità bisogna scoprire un tipo di preghiera speciale che la Beata Angela da Foligno definisce la preghiera forzata e che dice di aver praticato lei stessa:
“È cosa buona e molto gradita a Dio che tu preghi col fervore della grazia divina, che vegli e ti affatichi nel compiere ogni azione buona; ma è più gradito e ac cetto al Signore se, venendoti meno la grazia, non riduci le tue preghiere, le tue veglie, le tue buone opere. Agisci senza la gra zia, come operavi quando possedevi la grazia… Tu fa’ la tua par te, figlio mio, e Dio farà la sua. La preghiera forzata, violenta, è assai accetta a Dio” [19] .
Questa è una preghiera che si può fare più con il corpo che con la mente. C’è una segreta al leanza tra la volontà e il corpo e bisogna usarla per ridurre la mente… alla ragione. Spesso quando la nostra volontà non può comandare alla mente di avere o non avere certi pensieri, può comandare al corpo: alle ginocchia di piegarsi, alle mani di con giungersi, alle labbra di aprirsi e pronunciare alcune parole; per esempio: “ Gloria al Padre e al Figlio e allo Spirito Santo “.
Un mistico orientale, Isacco il Siro, diceva: “ Quando il cuore è morto e non abbiamo più la minima preghiera né alcuna supplica, possa egli venendo tro­varci prostrati con la faccia a terra in perpetuo”. Madre Teresa ha conosciuto anche lei questa preghiera “forzata”:
“Non so dirle quanto sono stata male l’altro giorno; c’è stato un momento in cui per poco non mi rifiutavo di andare avanti. Allora ho preso risolutamente il Rosario e l’ho recitato lentamente e con calma, senza né meditare né pensare a nulla” [20] .
Il semplice rimanere con il corpo in chiesa, o nel luogo scelto per la preghiera, il semplice stare in preghiera, è allora il solo modo che resta per continuare a essere perse veranti nella preghiera. Dio sa che potremmo andare e fare cen to altre cose più utili e che ci gratificherebbero di più, ma re stiamo lì, consumiamo a vuoto il tempo a lui destinato dal nostro orario, o dal nostro proposito.
A un discepolo che si lamentava continuamente di non poter pregare a causa delle distrazioni, un anziano monaco, al quale si era rivolto, rispose: “ Che il tuo pensiero vada dove vuole, ma che il tuo corpo non esca dalla cella!” [21] . È un consiglio che vale anche per noi, quando ci troviamo in situazione di distrazioni croniche che non è più in nostro potere controllare: che il nostro pensiero vada dove vuole, ma che il nostro corpo resti in preghiera!
Nel tempo dell’aridità dobbiamo ricordare la dolcissima parola dell’Apostolo: “Lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza…” (Rom 8,26 s). Egli, da noi non avvertito, riempie le nostre parole e i nostri gemiti di desiderio di Dio, di umiltà, di amore. Il Paraclito diviene, allora, la forza della nostra preghiera “debole”, la luce della nostra preghiera spenta; in una parola, l’anima della nostra preghiera. Veramente, come dice la Sequenza, egli “irriga ciò che è arido”, rigat quod est aridum.
Tutto questo avviene per fede. Basta che io dica: “Padre, tu mi hai donato lo Spirito di Gesù; formando, perciò, “un solo Spirito” con lui, io recito questo salmo, celebro questa santa Messa, o sto semplicemente in silenzio, qui alla tua presenza. Voglio darti quella gloria e quella gioia che ti darebbe Gesù, se fosse lui a pregarti ancora dalla terra”. Con questa certezza concludiamo la nostra riflessione pregando:
“Spirito Santo, tu che intercedi nel cuore dei credenti con gemiti inesprimibili, vieni in soccorso della nostra debolezza; bussa al cuore di tanti nostri contemporanei che vivono senza Dio e senza speranza in questo mondo. Rischiara la mente di coloro che in questo momento stanno delineando la fisionomia futura del nostro continente; fa’ loro comprendere che Cristo non è una minaccia per nessuno, ma fratello di tutti. Che ai poveri, ai piccoli, ai perseguitati e agli esclusi dell’Europa di domani non sia tolta, con colpevole silenzio, la garanzia che finora più li ha difesi dall’arbitrio dei grandi e dalla durezza della vita: il nome del primo di loro, Gesù di Nazareth!”.
[1] Leggenda Perugina, 72 (Fonti Francescane, n. 1626)
[2] Ammonizioni, VI (FF, n. 155).
[3] Fr. Joseph Neuner, S.J., On Mother Teresa’s Charism, “Review for Religious”, Sept- Oct. 2001, vol. 60,n.5 [In seguito abbreviato: JN] (I documenti citati in questa predica mi sono stati gentilmente messi a disposizione dalla Postulazione generale della Causa di Madre Teresa).
[4] “There is so much contradiction in my soul, such deep longing for God, so deep that it is painful, a suffering continual – yet not wanted by God, repulsed, empty, no faith, no love, no zeal…. Heaven means nothing to me, it looks like an empty Place” (JN)
[5] Giovanni Taulero, Omelia 40 ( ed.G. Hofmann, Johannes Tauler, Predigten,Friburgo in Br. 1961, p.305).
[6] Cf. Fr. A. Huart, S.J., Mother Teresa: Joy in the Night, “Review for Religious”, Sept.-Oct. 2001. vol. 60, n.5 [In seguito abbreviato AH].
[7] “Today my soul is filled with love, with joy untold, with an unbroken union of love” (JN)
[8] “I have begun to love my darkness for I believe now
that it is a part, a very small part, of Jesus’ darkness and pain on earth” (JN).
[9] “The whole time smiling – Sisters and people pass such remarks – they think my faith, trust, and love are filling my very being… Could they but know – and how my cheerfulness is the cloak by which I cover the emptiness and misery” (AH).
[10] Apophtegmata Patrum, Poemen 37 (PG 65, 332).
[11] G. Varangalakudy, A sister for Gandhi, “The Tablett”, 11 Ottobre 2003, p. 12.
[12] S. Gregorio Magno, Moralia in Job, I,3,40 (PL 75, 619).
[13] NMI, 27
[14] “If my pain and suffering, my darkness and separation give you a drop of consolation, my own Jesus, do with me as you wish… Imprint on my soul and life the suffering of your heart…. I want to satiate your thirst with every single drop of blood that you can find in me…. Please do not take the trouble to return soon. I am ready to wait for you for all eternity” (JN).
[15] Cf. S. Caterina da Genova, Trattato del Purgatorio, 4 (ed. Cassiano Carpaneto da Langasco, Sommersa nella fontana dell’amore. Santa Caterina Fieschi Adorno, vol. 2, Le opere, p. 96; cf. anche vol. 1. La vita, pp. 49 s.
[16] “They say people in hell suffer eternal pain because of the loss of God…. In my soul I feel just this terrible pain of loss, of God not wanting me, of God not being God, of God not really existing. Jesus, please forgive the blasphemy” (JN).
[17] “I wish to live in this world which is so far from God, which has turned so much from the light of Jesus, to help them – to take upon myself something of their suffering” (JN).
[18] “I have been on the verge of saying – No … I feel as if something will break in me one day”. “Pray for me that I may not refuse God in this hour – I don’t want to do it, but I am afraid I may do it” (AH).).
[19] Il libro della Beata Angela da Foligno, ed. Quaracchi, Grottaferrata, 1985, p. 576 s.
[20] “The other day I can’t tell you how bad I felt – there was a moment when I nearly refused to accept – deliberately I took the Rosary and very slowly without even meditating or thinking – I said it slowly and calmly” (AH).
[21] Apophtegmi dei Padri, del manoscritto Coislin 126, n. 205 (ed. F. Nau, in “Revue de l’Orient Chrétien” 13, 1908, p. 279.

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CONOSCETE IL GESU' VIVO? - 19 Dicembre 2003

III Predica di Avvento – alla Casa Pontificia

1. Gesù, senso della vita di Madre Teresa
Il confessore di Madre Teresa, il gesuita Padre Celeste Van Exem, ha detto di lei: “Il senso di tutta la sua vita è una persona: Gesù” [1] . Il Postulatore generale della sua causa di beatificazione, dopo avere per anni studiato la sua vita, gli scritti e le testimonianze di altri su di lei, conclude: “Se devo dire, in sintesi, perché viene elevata agli onori degli altari rispondo: per il suo amore personale a Gesù che lei ha vissuto in maniera così forte da considerarsi come la Sua sposa. La sua è stata una vita Gesù-centrica” [2].
La testimonianza più significativa a questo riguardo è la lettera che Madre Teresa scrisse a tutta la famiglia delle Missionarie della Carità da Varanasi, durante la settimana santa, il 25 Marzo 1993 [3] . “Una lettera così personale –diceva all’inizio- che ho voluto scriverla di mia propria mano”. In essa dice:
“Mi preoccupa il pensiero che alcune di voi ancora non abbiano incontrato Gesù a tu per tu, da solo a sola. Potete passare anche del tempo in cappella, ma avete mai visto con gli occhi dell’anima l’amore con cui Egli vi guarda? Conoscete davvero il Gesù vivo: non dai libri, ma stando con lui nel vostro cuore? Avete mai udito le parole d’amore che egli vi rivolge?…Non abbandonate mai questo contatto quotidiano con Gesù, non idea ma persona viva e vera” [4].
Qui si vede come Gesù non fosse per Madre Teresa un’astrazione, un insieme di dottrine, di dogmi, o il ricordo di una persona vissuta in altri tempi, ma un Gesù vivo, reale, qualcuno da guardare nel proprio cuore e da cui lasciarsi guardare.
La Madre spiega che se finora non aveva mai parlato così apertamente era stato per un senso di riserva e per imitare Maria che “conservava tutte le cose nel suo cuore”, ma che adesso sentiva il bisogno, prima di lasciarle, di dire loro qual era per lei il senso di tutta la sua opera: “Per me è chiaro: tutto nelle Missionarie della Carità esiste per saziare (la sete di) Gesù” [5] .
Alla domanda: “Chi è Gesù per me?”, ella risponde con una ispirata litania di titoli.
“Gesù
È la parola da pronunciare.
È la vita da vivere.
È l’amore da amare.
È la gioia da condividere…
È il sacrificio da offrire.
È la pace da portare.
È il pane di vita da mangiare…” [6] .
L’amore per Gesù assume spontaneamente la forma di un amore sponsale. Lei stessa racconta:
“Dal momento che parlo tanto spesso di dare con un sorriso, una volta un professore negli Stati Uniti mi domandò: ‘Ma lei è sposata ?’. Gli risposi: ‘Sicuro che lo sono e a volte mi riesce difficile sorridere al mio sposo Gesù perché quando vuole sa essere molto esigente” [7] .
La maggioranza degli alberi di alto fusto ha una radice madre che scende perpendicolarmente nel terreno ed è come la prosecuzione, sotto terra, del tronco. In italiano si chiama il fittone. È essa che da a certi alberi, come la quercia, quella irremovibilità per cui neppure i venti più impetuosi riescono a sradicarli. Anche l’uomo ha questo fittone. Nell’uomo che vive secondo la carne esso è il proprio “io”, l’amore disordinato di sé, l’egoismo; nell’uomo spirituale è Cristo. Tutto il cammino verso la santità consiste nel cambiare nome e natura a quella radice, fino a poter dire con l’Apostolo: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20). Grazie anche alla lunga purificazione della sua notte oscura, Madre Teresa ha portato a compimento questo processo, nel quale tutti noi siamo impegnati.
2. Frutto dell’amore è il servizio
Uno dei detti più noti di Madre Teresa dice: “Il frutto dell’amore è il servizio e il frutto del servizio è la pace” [8] . Le due cose –amore per Gesù e servizio dei più poveri dei poveri- sono nati insieme, come in una sola colata lavica, nell’anima di Madre Teresa, al momento della sua seconda chiamata, il 10 Settembre 1946. Diceva alle sue figlie:
“Ho sete e Lo avete fatto a me: ricordate di unire sempre le due cose, il mezzo con il fine. Che nessuno separi quello che Dio ha unito…Il nostro carisma è di saziare la sete d’amore e di anime di Gesù, operando per la salvezza e la santificazione dei più poveri dei poveri” [9] .
“You – did- it – to- me : Lo – avete – fatto – a – me”: Madre Teresa scandiva queste parole sulle dita di una mano e diceva che era “il vangelo delle cinque dita”. Per Madre Teresa, Gesù che è presente nell’Eucaristia, è presente, in modo diverso ma ugualmente reale, “nello sconcertante travestimento del povero” (“in the distressing disguise of the poor”). La litania in onore di Gesù ricordata sopra continua dicendo senza alcuna cesura:
“Gesù è l’Affamato da saziare.
È l’Assetato da dissetare.
È il Nudo da vestire.
È il Senza tetto da accogliere.
È l’Ammalato da curare.
È la Persona sola da amare” [10] .
Sappiamo tutti a quali livelli si è spinto il suo servizio ai più poveri dei poveri. In un incontro, una religiosa le fece osservare che lei viziava i poveri e offendeva la loro dignità, dando loro tutto gratis, senza chiedere ad essi nulla. Rispose: “Ci sono tante congregazioni che viziano i ricchi che non è male se ce n’è una che vizia i poveri” [11] . Il capo dei servizi sociali di Calcutta aveva capito meglio di ogni altro, secondo Madre Teresa, lo spirito del suo servizio ai poveri. Un giorno le disse: “Madre, lei e noi facciamo lo stesso lavoro sociale, ma c’è una differenza: noi lo facciamo per qualcosa, lei lo fa per Qualcuno” [12] .
C’è stato chi ha visto in ciò un limite, non un pregio, dell’amore cristiano per il prossimo. Amare il prossimo “per Qualcuno”, cioè per Gesù, non strumentalizza il prossimo, non lo riduce a mezzo in vista di un fine diverso, che, al limite, può essere quello egoistico di guadagnare meriti per il paradiso?
Questo è vero in ogni altro caso, ma non quando si tratta di Gesù, perché è contrario alla dignità della persona umana essere subordinata a un’altra creatura, ma non essere subordinata al creatore stesso, a Dio. Nel cristianesimo c’è una ragione ancora più forte. Cristo si è identificato con il povero. Il povero e Cristo sono la stessa cosa: “L’avete fatto a me”. Amare il povero per amore di Cristo non significa amarlo “per interposta persona”, ma di persona. Questo è il mistero che si è impresso nella vita di Madre Teresa e che lei ha ricordato profeticamente alla Chiesa.
L’amore per Gesù ha spinto Madre Teresa, come altri santi prima di lei, a fare cose che nessun altro motivo al mondo –politico, economico, umanitario – sarebbe stato capace di indurre a fare. Una volta qualcuno, osservando quello che Madre Teresa stava facendo con un povero, uscì nell’esclamazione: “Io non lo farei per tutto l’oro del mondo!”. Madre Teresa rispose: “Io neppure!”. Voleva dire: per tutto l’oro del mondo no, ma per Gesù sì.
Madre Teresa ha saputo dare ai poveri non solo pane, vestiti e medicine, ma quello di cui hanno ancora più bisogno: amore, calore umano, dignità. Ella ricordava con commozione l’episodio dell’uomo trovato mezzo mangiato dai vermi in una discarica che, portato a casa e curato, disse: “Sorella, ho vissuto sulla strada come un animale, ma ora morirò come un angelo, amato e curato” [13] , e morì poco dopo dicendo con un largo sorriso: “Sorella, vado a casa da Dio”. Madre Teresa con un bambino abbandonato in braccio, o china su un moribondo, è, credo, l’icona stessa della tenerezza di Dio.
3. “Io sono tra voi come colui che serve”
E ora la domanda d’obbligo: cosa dice a noi questo aspetto della vita di Madre Teresa? Ella ci ha ricordato che la vera grandezza tra gli uomini non si misura dal potere che uno esercita, ma dal servizio che presta: “Colui che vorrà diventare grande tra voi, si farà vostro servo” (Mt 20,26).
Nessuno è dispensato dall’impegnarsi, in qualche modo, a servizio dei poveri, ma il servizio può assumere forme diverse, come molteplici e diversi sono i bisogni dell’uomo. Paolo parla di un “servizio dello Spirito”, diakonia Pneumatos (2 Cor 3,8) del quale sono incaricati i ministri della nuova alleanza. Pietro, negli Atti, parla di un”servizio della parola” proprio degli apostoli, più importante per essi del servizio delle mense (At 6,4). Di questo servizio fa parte anche l’esercizio dell’autorità e il magistero ecclesiastico. “Io sto tra voi come colui che serve”, diceva Gesù agli apostoli (Lc 22, 27) e in che cosa consisteva questo suo servizio se non nell’istruirli, correggerli e prepararli alla futura missione?
Quello che Madre Teresa ricorda a tutti è che ogni servizio cristiano, per essere genuino, deve essere motivato dall’amore per Cristo. “Quanto a noi –diceva l’Apostolo ai Corinzi- siamo i vostri servitori per amore di Gesù” (2 Cor 4,5). È possibile anche per chi lavora in Curia mettere in pratica quello che Madre Teresa chiamava “il vangelo delle cinque dita”: “Lo avete fatto a me”. Fare tutto per Gesù, vedere Gesù in coloro che si è chiamati a servire, fosse pure con una pratica burocratica.
Ma in questa circostanza il Predicatore della Casa Pontificia sente il bisogno di abbandonare il tono parenetico del “cosa si dovrebbe fare”, per assumere invece il tono gioioso del riconoscimento di ciò che è già. Non posso lasciare passare l’occasione che mi è offerta di unire la mia piccolissima voce a quella di tutta la Chiesa. Sono venticinque anni che sotto i nostri occhi un uomo si consuma nel ”servizio dello Spirito”. In Giovanni Paolo II il titolo Servus servorum Dei, Servo dei servi di Dio, introdotto da S. Gregorio Magno, non è stato un titolo tra gli altri, ma il riassunto di una vita.
Anche questo servizio, come quello di Madre Teresa, ha avuto la sua sorgente nell’amore per Gesù. Quante volte il Santo Padre ha ripetuto la frase del vangelo che presenta il servizio pastorale di Pietro come espressione di amore per Cristo: “Simone di Giovanni, mi ami tu? Pasci le mie pecore” (cf. Gv 21, 15 ss.). Segno che questa parola è stata il motivo ispiratore del suo pontificato, e quello che ancora lo spinge a spendersi per la Chiesa. Madre Teresa diceva spesso che “l’amore, per essere vero, deve far male” [14] e non si può dire davvero che la sofferenza sia stata assente, in tutti questi anni, dalla vita del successore di Pietro…
Non è stata assente però neppure una tenerezza che ricorda quella di Madre Teresa. In molti abbiamo assistito con commozione, l’altra sera, nel palazzo di Montecitorio, alla prima proiezione del documentario intitolato “Giovanni Paolo II, testimone dell’invisibile”. Tra le immagini che più colpiscono sono quelle in cui il papa stringe a se e bacia dei bambini, o dei malati. Mi facevano pensare alle parole di Dio in Osea: “Ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia” (Os 11, 4).
Santità, c’è nel Nuovo Testamento un passo che sembra scritto per essere pronunciato da lei davanti a tutta la Chiesa e io mi permetto di leggerlo, più per noi che per lei. La Lettera ai Romani parla di una “consolazione che viene dalle Scritture” e che aiuta a “tener viva la nostra speranza” (Rom 15, 4) e credo che trasmettere un po’ di questa consolazione che viene dalle Scritture sia l’unica cosa che giustifichi l’ufficio che ricopro da ventiquattro anni. Il brano in questione è il discorso di commiato di Paolo dalla Chiesa di Efeso:
” Voi sapete come mi sono comportato con voi…
Ho servito il Signore con tutta umiltà, tra le lacrime e tra le prove… Sapete come non mi sono mai sottratto a ciò che poteva essere utile, al fine di predicare a voi e di istruirvi… Non ritengo tuttavia la mia vita meritevole di nulla, purché conduca a termine la mia corsa e il servizio che mi fu affidato dal Signore Gesù, di rendere testimonianza al messaggio della grazia di Dio… Non mi sono sottratto al compito di annunziarvi tutta la volontà di Dio. Vegliate su voi stessi e su tutto il gregge, in mezzo al quale lo Spirito Santo vi ha posti come vescovi a pascere la Chiesa di Dio, che egli si è acquistata con il suo sangue…
Ed ora vi affido al Signore e alla parola della sua grazia che ha il potere di edificare e di concedere l’eredità con tutti i santificati” (Atti 20, 18-32).
In un solo punto quel giorno Paolo si sbagliò e questo ci tranquillizza; disse che non avrebbero più rivisto il suo volto, gettando tutti i presenti nel pianto. Ma era un timore, non una profezia; dalle Lettere pastorali sappiamo che egli rivide in realtà la Chiesa di Efeso due anni dopo, al termine della sua prima prigionia romana (cf. 1 Tim 1,3).
Se ho fatto male a prendermi la libertà di parlare così, Santo Padre, rimproveri Madre Teresa perché è lei che mi ha suggerito di farlo con l’amore che questa novella Caterina da Siena, portava al successore di Pietro.
4. L’amore per Cristo di cui non è possibile pensare uno maggiore
Ma ora una conclusione natalizia. Madre Teresa ci ha ricordato oggi qual è stata la molla segreta del suo servizio ai poveri e dell’intera sua vita: l’amore per Gesù. E questo è anche il segreto per celebrare un vero Natale. Nel canto natalizio Adeste fideles c’è un verso che dice: Sic nos amantem quis non redamaret? Come non riamare uno che ci ha amato tanto?”. Un cuore amante è l’unico presepio dove Cristo ama venire a Natale.
Ma dove trovare questo amore? Madre Teresa sapeva a chi chiederlo: a Maria! Una delle sue preghiere dice:
“Maria, Madre mia amatissima, dammi il tuo cuore così bello, così puro, così immacolato, così pieno di amore ed umiltà, che io possa ricevere Gesù come facesti tu e andare ‘in fretta’ a donarlo agli altri” [15] .
Ma noi dobbiamo, su questo punto, essere più arditi ancora di Madre Teresa. Mi spiego. Madre Teresa ha una meravigliosa spiritualità, di cui ho cercato di mettere in luce qualche briciola. Ma la sua spiritualità, come del resto anche quella di Padre Pio, è segnata dal tempo in cui entrambi si sono formati. Mancava dalla riflessione teologica (non dalla vita!) una chiara prospettiva trinitaria che ora, dopo il concilio, per esempio nella Novo millennio ineunte, appare la sorgente e la forma di ogni santità cristiana. La sua, come ricordava il Postulatore della causa, è una spiritualità “Gesù-centrica”, più che trinitaria.
Madre Teresa ha diverse e bellissime preghiere alla Vergine, ma nessuna (almeno negli scritti di lei finora conosciuti) allo Spirito Santo. Questi viene nominato raramente e quasi solo per inciso, in occasioni di formule liturgiche tradizionali. Non c’è dubbio che la sua santità, come quella di tutti i santi, è da cima a fondo, opera dello Spirito Santo. San Bonaventura dice, della sapienza dei santi, che “nessuno la riceve se non chi la desidera e nessuno la desidera se non chi è infiammato nell’intimo dallo Spirito Santo” [16] . Solo che questo ruolo dello Spirito Santo non era abbastanza messo in luce nella formazione spirituale e teologica.
Per fortuna non è l’ampiezza delle vedute teologiche che fa i santi, ma l’eroismo della carità. Nessun santo, del resto, possiede, da solo, tutti i carismi ed esaurisce tutte le potenzialità racchiuse nel modello divino che è Cristo. La pienezza si trova nell’insieme dei santi, cioè nella Chiesa, non nel singolo. I membri di un istituto religioso dovrebbero essere tanto saggi da conservare intatto il patrimonio trasmesso dal fondatore, rimanendo aperti, nello stesso tempo, ad accogliere le luci e le grazie nuove che lo Spirito non cessa di elargire alla Chiesa.
Si resta perplessi davanti a quei movimenti o comunità in cui tutto –ogni parola di Dio, ogni intuizione e iniziativa spirituale – passa rigidamente attraverso il capo o il fondatore e da lui si trasmette alla base. È come se le persone rinunciassero, in tal modo, ad avere un rapporto proprio e originale con Dio, all’interno del comune carisma, per diventare dei semplici ripetitori.
Cosa scopriamo di nuovo circa l’amore per Gesù, partendo da una prospettiva trinitaria? Una cosa straordinaria: che esiste un amore per Gesù perfetto, infinto, il solo degno di lui, un amore “del quale non è possibile pensare uno maggiore”, e scopriamo che esiste per noi la possibilità di farne parte, di farlo nostro, di accogliere con esso Gesù a Natale. È l’amore con cui il Padre celeste ama il suo Figlio, all’atto stesso di generarlo.
Nel battesimo noi abbiamo ricevuto tale amore, perché l’amore con cui il Padre dall’eternità ama il Figlio si chiama lo Spirito Santo e noi abbiamo ricevuto lo Spirito Santo. Cosa crediamo che sia quell’”amore di Dio che è stato effuso nei nostri cuori dallo Spirito Santo” (cf. Rom 5,5) se non, alla lettera, l’amore di Dio, cioè l’amore eterno, increato, con cui il Padre ama il Figlio e da cui discende ogni altro amore?
Dicevo la volta scorsa che i mistici non sono una categoria a parte di cristiani, non esistono per stupire, ma per indicare a tutti, come all’ingrandimento, qual è il pieno sviluppo della vita di grazia. E i mistici ci hanno insegnato proprio questo: che, per grazia, noi siamo inseriti nel vortice della vita trinitaria. Dio, dice S. Giovanni della Croce, comunica all’anima “lo stesso amore che comunica al Figlio, anche se ciò non avviene per natura, ma per unione… L’anima partecipa di Dio, compiendo, insieme con lui, l’opera della Santissima Trinità” [17] .
È Gesù stesso che ci assicura questo a chiare lettere: “…perché l’amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro”, dice rivolto al Padre (Gv 17,26). In noi dunque per grazia c’è lo stesso amore con cui il Padre ama il Figlio. Che scoperta, che orizzonti per la nostra preghiera e la nostra contemplazione! Il cristianesimo è grazia e la grazia non è che questo: partecipazione alla natura divina (2 Pt 1,4), cioè all’amore divino, essendo l’amore la “natura” propria, ciò di cui è fatto, il Dio della Bibbia.
Alcuni mistici, come Eckhart, hanno parlato di un Natale speciale, misterioso, che avviene nel “fondo dell’anima”. Esso si celebra quando la creatura umana, con la sua fede e umiltà, permette a Dio Padre di generare di nuovo in lei il proprio Figlio [18] . Una massima ricorrente nei Padri – da Origene a S. Agostino e a S. Bernardo – dice: “Che giova a me che Cristo sia nato una volta a Betlemme, se non nasce di nuovo per fede nella mia anima?” [19] . L’uso di celebrare tre Messe il giorno di Natale viene tradizionalmente spiegato così: la prima commemora la nascita eterna dal Padre, la seconda la nascita storica da Maria, la terza la nascita mistica nell’anima.
Il mistico tedesco Angelo Silesio ha espresso questa idea in due versi: “Mille volte nascesse Cristo a Betlemme / Se in te non nasce sei perduto in eterno” [20] . Questi versi meditava nel Natale del 1955 il noto convertito italiano Giovanni Papini; si chiedeva come potesse accadere questa nascita interiore e la risposta che diede a se stesso -e che può servire anche a noi – fu la seguente:
“Questo miracolo nuovo non è impossibile purché sia desiderato e aspettato. Il giorno nel quale non sentirai una punta di amarezza e di gelosia dinanzi alla gioia del nemico o dell’amico, rallegrati perché è segno che quella nascita è prossima…Il giorno in cui sentirai il bisogno di portare un po’ di letizia a chi è triste e l’impulso di alleggerire il dolore o la miseria anche di una sola creatura, sii lieto perché l’arrivo di Dio è imminente. E se un giorno sarai percosso e perseguitato dalla sventura e perderai salute e forza, figli e amici e dovrai sopportare l’ottusità, la malignità e il gelo dei vicini e dei lontani, ma nonostante tutto non ti abbandonerai a lamenti né a bestemmie e accetterai con animo sereno il tuo destino, esulta e trionfa perché il portento che pareva impossibile è avvenuto e il Salvatore è già nato nel tuo cuore” [21] .
Tutti questi sono “segni” dell’avvenuta nascita, ma la causa, ciò che la produce, è quella detta all’inizio: desiderio e attesa. Una fede piena di aspettativa, certa del fatto suo, expectant faith, secondo un’espressione cara ai cristiani di lingua inglese. Anche Maria concepì Cristo così: nel suo cuore, per fede, prima che fisicamente nella sua carne: prius concepit mente quam corpore [22] .
Non occorre avere “sentimenti” particolari (chi può “sentire” una cosa del genere?); basta credere e, al momento di ricevere il corpo e il sangue di Cristo la notte di Natale, dire con semplicità: “Gesù, ti accolgo come ti accolse Maria tua Madre; ti amo con l’amore con cui ti ama il Padre celeste, cioè con lo Spirito Santo [23] .
Con questi sentimenti auguro a lei, Beatissimo Padre, a voi, Venerabili Padri, e a voi, fratelli e sorelle, Buon Natale!
[1] In “L’Osservatore Romano”, Speciale 19 Ottobre 2003, p.19.
[2] P. Brian Kolodiejchuk, Ib., p. 12.
[3] In attesa di essere pubblicato, il documento mi è stato gentilmente messo a disposizione dalla Postulazione della causa di Madre Teresa (In seguito abbreviato: Varanasi).
[4] “ I worry some of you still have not really met Jesus – one to one – you and Jesus alone. We may spend time in chapel – but have you seen with eyes of your soul how He looks at you with love? Do you really know the living Jesus – not from books but from being with Him in your heart? Have you heard the loving words He speaks to you? … Never give up this every day intimate contact with Jesus as real living person – not just one idea”.
[5] “For me it is so clear – everything in Missionaries of Charity exists only to satiate Jesus” (Varanasi, cit.).
[6] “Jesus is the Word – to be spoken. Jesus is the Life – to be lived. Jesus is the Love – to be loved. Jesus is the Joy – to be shared. Jesus is the Sacrifice – to be offered. Jesus is the Peace – to be given. Jesus is the Bread of life – to be eaten”: in A fruitful Branch on the Vine, Jesus. First book of Mother Teresa of Calcutta edited by Missionaries of Charity, St. Anthony Messenger Press, Cincinnati, Ohio, 2000 (Raccolta di preghiere e detti autentici della Madre; in seguito abbreviato: A fruitful Branch ).
[7] “Because I talk so much of giving with a smile, once a professor from the United States asked me, ‘Are you married?’ And I said, ‘Yes, and I find it sometimes very difficult to smile at my spouse, Jesus, because He can be very demanding – sometimes’ ”: dal Discorso di Madre Teresa al “Pranzo nazionale di preghiera”, Washington 3 Febbraio 1994, per gentile concessione della Postulazione della causa. (In seguito abbreviato: Washington)
[8] “ The fruit of Love is Service. The fruit of Service is Peace”: in A fruitful Branch, cit . p. 36.
[9] “ ‘I Thirst’ and ‘You did it to Me’ – Remember always to connect the two, the means with the Aim. What God has joined together let no one split apart…Our Charism is to satiate the thirst of Jesus for love and souls – by working at the salvation and sanctification of the poorest of the poor’ ” (Varanasi, cit.).
[10] “Jesus is the Hungry – to be fed. Jesus is the Thirsty – to be satiated. Jesus is the Naked – to be clothed. Jesus is the Homeless – to be taken in. Jesus is the Sick – to be healed. Jesus is the Lonely – to be loved”: A Fruitful Branch, cit. p. 36.f
[11] Commento di Madre Teresa sul tema “La carità, anima della missione”, lettera al Card. Tomko, 23 Gennaio 1991, per gentile concessione della Postulazione della causa (In seguito abbreviato: Commentary).
[12] “Mother, you and we are doing the same social work but there is one difference. We are doing it for something, and you are doing it for SOMEONE ” (Commentary, cit.)
[13] “Sister, I have lived like an animal in the street, but I am going to die as an angel, loved and cared for” (Washington, cit.).
[14] “Love to be true has to hurt”: A Fruitful Branch, cit. p., 26.
[15] “Mary, my dearest Mother, give me your heart so beautiful, so pure, so immaculate, so full of Love and Humility, that I may receive Jesus as You did –and go in haste to give Him to others”: in A Fruitful Branch, cit., p. 44.
[16] S. Bonaventura, Itinerarium mentis in Deum, 7,4.
[17] S. Giovanni della Croce, Cantico spirituale A, strofa 38
[18] Cf. Maestro Eckhart, Il Natale dell’anima, a cura di G. Faggin, Vicenza 1984.
[19] Cf. Origene, Commento al vangelo di Luca 22,3 (SCh 87, p. 302).
[20] Angelo Silesio, Il Pellegrino cherubico, I, 61: “Wird Christus tausendmal zu Bethlehem geborn / und nicht in dir: du bleibst noch ewiglich verlorn“.
[21] Cit. da A. Comastri, Dov’è il tuo Dio? Storie di conversioni del XX secolo. San Paolo 2003, p. 52.
[22] Cf. S.Agostino, Discorsi 215,4 (PL 38, 1074).
[23] Cf. quello che scrive S. Francesco, Ammonizioni I (FF, 142): “ Lo Spirito del Signore, che abita nei suoi fedeli, è lui che riceve il santissimo corpo e il sangue del Signore”.