Oggi 25 settembre ricordiamo:
San Sergio di Radonez
Sergio di Radonez |
Riformatore della vita monastica in Russia, Sergio (1314-1392) nacque da una nobile famiglia della regione di Rostov, trasferitasi a Radonez dopo essere caduta in miseria. Fondò la «laura» della Trinità, monastero dal quale i monaci si recavano in pellegrinaggio al Monte Athos. Attraverso il suo discepolo Nil Sorskij si diffuse l’esicasmo, la preghiera del cuore resa celebre dai Racconti di un pellegrino russo: «Signore Gesù Cristo, figlio di Dio, abbi pietà di me». Nel Quattrocento al monastero della Trinità, che stava rinascendo dopo la distruzione dei tartari nel 1409, fu legato per diversi anni il celebre pittore Andrej Rublëv, che vi dipinse la famosissima icona della Trinità.
Sergio e i suoi genitori furono scacciati dalla loro casa dalla guerra civile e dovettero guadagnarsi da vivere facendo i contadini a Radonez, a nord-est di Mosca. A vent'anni Sergio iniziò una vita da eremita, insieme a suo fratello Stefano, nella vicina foresta; in seguito altri uomini si unirono a loro, e ciò che ci vien detto di questi eremiti ricorda i primi seguaci di san Francesco d'Assisi, specialmente per quanto riguarda il loro atteggiamento verso la natura selvaggia - nonostante le differenze climatiche e di altro genere fra l'Umbria e la Russia centrale. Uno scrittore russo ha detto che il loro capo "odora di fresco legno d'abete".
Nel 1354 essi si trasformarono in monaci che conducevano una vera e propria vita comune; questo cambiamento provocò dei dissensi che avrebbero potuto spaccare per sempre la comunità se non fosse stato per la condotta disinteressata di san Sergio. Questo monastero della Santa Trinità (Troice-Lavra) divenne per il monachesimo della Russia settentrionale quello che le Grotte di san Teodosio erano state per la provincia di Kiev nel sud. Sergio fondò altre case religiose, direttamente o indirettamente, e la sua fama si diffuse moltissimo; nel 1375 rifiutò la sede metropolitana di Mosca, ma usò la sua influenza per mantenere la pace fra i principi rivali. Quando (secondo la tradizione) Dimitrij Donskoj, principe di Mosca nel 1380, lo consultò per chiedere se doveva continuare la sua rivolta armata contro i signori tartari, Sergio lo incoraggiò ad andare avanti: ciò portò alla grande vittoria di Kulikovo. San Sergio è il più amato di tutti i santi russi, non soltanto per l'influenza che ebbe in un periodo critico della storia russa, ma anche per il tipo d'uomo che era. Per il carattere, se non per l'origine, era un tipico "santo contadino": semplice, umile, serio e gentile, un "buon vicino". Insegnò ai suoi monaci che servire gli altri faceva parte della loro vocazione, e le persone che indicò loro come modelli erano gli uomini dell'antichità che avevano fuggito il mondo ma aiutavano il loro prossimo; veniva posta un'enfasi particolare sulla povertà personale e comune e sullo sradicamento dell'ostinazione.
San Sergio fu uno dei primi santi russi a cui furono attribuite visioni mistiche (visioni della Beata Vergine connesse con la liturgia eucaristica) e, come in san Serafino di Sarov, talvolta compariva in lui una certa trasfigurazione fisica attraverso la luce. Il popolo lo vedeva come un uomo scelto da Dio, sul quale riposava visibilmente la grazia dello Spirito; ancor oggi molta gente va in pellegrinaggio al suo santuario nel monastero della Trinità di Zagorsk. Fu canonizzato in Russia prima del 1449.
Il celebre Monastero della Trinità-San Sergio a Zagorsk fu fondato attorno alla metà del XIV secolo dal Venerabile Sergio, figlio dei Boiari di Rostov Kiril e Maria, che si erano trasferiti dalla città natale a Radonez. All'età di sette anni, il giovane Bartolomeo (prese il nome di Sergio alla tonsura monastica) fu mandato a scuola. Nonostante avesse difficoltà di apprendimento, il suo animo era attratto dallo studio; Bartolomeo pregava Dio di aprire la sua mente, e di consentirgli l'accesso al sapere.
Un giorno, vagando alla ricerca di alcuni cavalli fuggiti nei campi, al giovane apparve un vecchio monaco, raccolto in preghiera sotto un alto albero.
Il ragazzo si avvicinò al monaco e parlò a lui del suo voto e della sua speranza. Dopo avere ascoltato con partecipazione, il monaco recitò una preghiera per il giovane, affinché la sua mente fosse illuminata. Trasse poi una particola di Pane Eucaristico e con esso benedì il ragazzo, dicendo: "Prendi, e mangiane, questo ti è dato come segno della grazia di Dio, e come aiuto nella comprensione delle Scritture". E Bartolomeo ricevette la grazia dell'apprendimento e fu in grado di imparare, leggere e memorizzare con facilità.
L'esperienza con il monaco fece crescere in Bartolomeo il desiderio di servire Dio; il giovane desiderava trascorrere la vita nell'isolamento e nella preghiera, ma questa vocazione fu per qualche tempo frenata dall'amore per la propria famiglia.
Bartolomeo era buon carattere e di indole ascetica: umile e gentile, non si irritava mai; si cibava do pane ed acqua, astenendosi da ogni cibo e bevanda nei giorni di digiuno. Dopo la morte dei genitori, Bartolomeo rinunziò all'eredità in favore del fratello minore Pietro, e assieme al fratello Stefano si insediò in una foresta selvaggia e isolata a circa 10 chilometri da Radonez, nei pressi del fiume Konchora. I fratelli costruirono una casetta in legno ed una cappella, che fu dedicata alla Santa Trinità e consacrata da un sacerdote inviato dal Metropolita Feognost'. Fu la fondazione della famosa Lavra della Trinità.
Stefano lasciò presto il fratello per diventare igumeno del monastero Bogojavlenskij di Mosca: Bartolomeo, diventato Sergio dopo la tonsura monastica, restò solo nella foresta. La vita non fu facile, tra le tentazioni, e in mezzo a branchi di lupi ed orsi. Un giorno l'anacoreta nutrì un grande orso ponendo un pezzo di pane sul ceppo di un albero. L'orso ne mangiò, e da quel momento si affezionò al venerabile Sergio, e visse nei pressi del suo rifugio.
Nonostante i tentativi di Sergio di vivere nell'isolamento, il suo stile di vita e di preghiera attrasse molti monaci, che vollero porsi sotto la sua direzione spirituale. Insistevano nel chiedere a Sergio di accettare gli Ordini sacri e di diventare loro igumeno. Dopo tanta insistenza, nel 1354 accetto, con le parole: "preferirei di gran lunga obbedire piuttosto che comandare, ma temendo il giudizio di Dio mi pongo interamente nelle sue mani".
Il neo-fondato monastero era privo di beni e di ogni mezzo di sostentamento. I paramenti erano molto modesti, i Sacri vasi intagliati nel legno, e torce di legno venivano bruciate al posto delle candele, ma la comunità era devota e zelante. Attratti dalla fama di santità e pietà della comunità di Sergio, molti contadini e artigiani si stabilirono nei pressi del monastero. Ciò portò anche allo stesso monastero qualche vantaggio e maggiore sostentamento. Ciò consentì di distribuire elemosine e di praticare l'ospitalità ai viandanti e ai bisognosi.
San Sergio fu un modello di ascetismo e di umiltà. La sua fama giunse a Costantinopoli, e il Patriarca Filoteo gli inviò la propria benedizione e approvò il sistema di vita cenobitica inaugurato da Sergio. Il Metropolita Alessio di Mosca era molto attaccato a Sergio, e si avvaleva di lui per ricomporre le controversie tra principi e governanti. Volle anche designarlo come proprio successore, ma Sergio rifiutò sempre questa offerta. Un giorno volle premiare Sergio con la Croce d'oro, ma Sergio rifiutò l'onorificenza dicendo: "sin dalla mia gioventù ho rifiutato di decorarmi con oro, e ancora di più ora, in età avanzata, desidero restare povero".
Il Monastero della Trinità fu casa madre di molte altre fondazioni. Prima della morte di San Sergio, si potevano già contare tra queste i seguenti monasteri: Kirzhachski (nei pressi del fiume Kirzhack nella regione di Vladimir), Golutvin (a Kolomna), Simon (a Moscow), Visotski (nei pressi di Serpukhov), Boris e Gleb (nei pressi di Rostov), Dubenski, Pokrovski (a Borovsk), Avraamiev (a Chukhloma).
Sergio morì all'età di 78 anni, nel 1392. Il suo corpo fu rinvenuto incorrotto e profumato dopo alcuni decenni dalla inumazione.
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Dal diario Nella Santa Russia di D. Barsotti
“(...) ci dirigiamo verso la chiesa che conserva i resti mortali del santo. Entriamo con un sentimento vivo di venerazione. Intendiamo nella venerazione di san Sergio venerare tutti i santi che la Russia ha donato a Dio e ha donato anche a tutta l’umanità. Se i santi vivono una comunione con Dio non possono non essere in comunione con tutti i fratelli, con tutti gli uomini. Noi sentiamo che san Sergio ci appartiene e siamo sicuri che noi gli apparteniamo. La nostra comunione con Dio è necessariamente una comunione con gli amici di Dio. Ricchissimo è l’interno della chiesa. A destra di chi entra è la cassa dove sono i resti mortali del santo. In silenzio, come possiamo, vista la calca della gente che continuamente si rinnova entrando e uscendo dalla chiesa, facciamo la nostra preghiera (...)”[1].
LA MORTE DI SAN SERGIO
(dalla ‘Vita’ di Epifanio il saggio)
“(...) Il Santo visse molti anni continuamente mortificandosi con privazioni e lavoro incessante. Egli compì molti straordinari miracoli e raggiunse un’età avanzata, senza mai mancare al suo posto nel servizio divino; più crebbe la sua vecchiaia, più forte crebbe il suo fervore, per niente indebolito dall’età. Fu avvertito dall’approssimarsi della sua fine sei mesi avanti (...). Poi, il grande asceta cominciò a perdere le forze e nel settembre cadde seriamente malato. Vedendo approssimarsi la sua fine, riunì (...) il suo gregge e sciolse una finale esortazione. Fece loro promettere di rimanere saldi nell’ortodossia per assicurare l’amicizia fra gli uomini; di esser puri di corpo e di anima; di amare con verità; di evitare ogni male e ogni carnale concupiscenza; di esser moderati nel mangiare e nel bere; soprattutto di vestire umilmente; di non dimenticare di amare il prossimo; evitare le controversie e non porre valore negli onori e nelle lodi di questa vita, ma aspettare piuttosto la ricompensa da Dio nella gioia del cielo e nell’eterna beatitudine. Dopo averli istruiti in molte cose, concluse: ‘Io sono, per volere di Dio, vicino a lasciarvi ed io vi affido all’Onnipotente Iddio e all’Immacolata Vergine Madre di Dio, affinché essi siano per voi un rifugio e una rocca di difesa contro le insidie dei vostri nemici’. Quando la sua anima fu vicina a lasciare il suo corpo, egli partecipò del Santissimo Corpo e Sangue. Tenuto nelle braccia dei suoi discepoli e levando le mani al cielo con una preghiera sul labbro, rese la sua pura, santa anima al Signore, nell’anno 6900 (1392) il 25 di settembre, probabilmente all’età di 78 anni. Dopo la sua morte un ineffabile, grato odore emanò dal corpo del santo.
L’intera fraternità si riunì intorno a lui; piangendo e singhiozzando i monaci posero nel feretro il corpo di colui che in vita era stato così nobile e infaticabile; e lo accompagnarono con salmi e orazioni funebri. Il volto del Santo, diversamente dagli altri morti, splendeva del lume di vita come un angelo di Dio, a testimonianza della purezza della sua anima e del premio di Dio per tutte le sue fatiche. Il suo corpo trovò il riposo nel monastero da lui fondato. Molti furono i miracoli che ebbero luogo alla sua morte e dopo; e avvengono ancora dando forza ai deboli, liberando dalle astuzie e malizie dei demoni, dando la vista ai ciechi. Il santo non desiderò rinomanza durante la sua vita né nella morte, ma per il potere dell’Onnipotente Iddio egli fu glorificato. Gli angeli furono presenti al suo passaggio ai cieli aprendo a lui le porte del paradiso e conducendo verso la bramata beatitudine nella pace dei giusti, colui che sempre aveva cercato la gloria della Santissima Trinità”[2].
Dal libro Nella comunione dei santi di D. Barsotti
“Epifanio, in pagine di meraviglioso candore, ci narra la vita del santo; l’umile semplicità di questa vita ci sembra in verità una rivelazione di pura bellezza. Sergio è un’icona di Dio.
La breve biografia di Sergio è un prezioso testo di ascetica monastica: la si può considerare veramente un trattato di spiritualità, tanto più efficace perché non è astratto ma vivo, proponendo con la dottrina l’esempio del santo e in questo esempio delineando anche il cammino dell’anima verso la perfezione fino a quella anticipazione della vita paradisiaca sulla quale insistono, nella loro pura semplicità, le ultime pagine.
Se volessimo riassumere brevemente questa dottrina, ci sembrerebbe di chiarirla meglio ponendola a confronto con quella che chiaramente è esposta in altre vite monastiche: Epifanio considera la vita ascetica come una lotta accanita contro il demonio che in questa lotta si avvale prima, come alleata, della concupiscenza carnale (“Il diavolo s’ingegnava di ferirlo coi dardi della concupiscenza, ma il santo vigilante contro questi attacchi del nemico, disciplinava il suo corpo ed esercitava l’anima assoggettandola con le privazioni: ed in questo era protetto dalla grazia del Signore”), poi dei monaci stessi che gli mostrano la loro ostilità.
Come l’unione con Dio ristabilisce la comunità umana, così l’unione con Dio è il ritorno per l’uomo alla vita del paradiso terrestre quando tutto è fraterno con l’uomo. Ma il cammino che porta a questa mèta di unità con gli uomini e con la creazione importa la lotta contro le potenze, il combattimento. L’ascesi non è solo esercizio di virtù, è impegno di redenzione per l’uomo, e l’uomo non si libera dalla schiavitù delle potenze che in quanto ritorna ad essere re di una creazione rinnovata, capo di una umanità che, in lui e per lui, viene nuovamente benedetta da Dio.
Ma la vittoria sul demonio, in cui consiste la perfezione monastica stessa, fa soprattutto il monaco partecipe della vita divina nella sua potenza coi miracoli e con la liberazione dagli ossessi e fa il monaco compagno degli angeli nella preghiera e degno di visioni celesti, dopo averlo fatto padre di numerosa famiglia. Il monaco non dovrebbe aspirare a una missione di paternità spirituale – sembra insinuare lo scrittore – né dovrebbe essere elevato all’ordine gerarchico se non fosse designato a tanta dignità dai doni dello Spirito Santo.
È implicito anche, almeno ci sembra, l’insegnamento che non la vita eremitica, ma la vita cenobitica, l’unione di carità tra i fratelli, sia l’ideale più perfetto della vita cristiana – e in questo preporre la vita cenobitica alla vita eremitica non c’è solo un’influenza della dottrina ascetica di san Basilio, ma anche un sano atteggiamento di opposizione alle intemperanze e all’anarchismo della spiritualità orientale (...)”[3].
[1] D. BARSOTTI, Nella Santa Russia, Edizioni Messaggero, Padova 1997, 44-45.
[2] EPIFANIO IL SAGGIO, San Sergio. Monaco russo, a cura di D. Barsotti, Editore Mazza, Firenze 1950, 60-62.
[3] D. BARSOTTI, «La ‘vita’ di Sergio di Radonez», in Nella comunione dei santi, Editrice Vita e pensiero, Milano 1970, 190-192.
APPROFONDIMENTI
IL CANTICO DI SAN SERGIO
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Siamo nel 1956. Da qualche anno la Comunità dei figli di Dio cercava una sede; erano stati fatti progetti e tentativi: dalla "casina nel bosco", al "villaggio", all'eremo di Montesenario. C'era qualche soldo da parte (fra gli offerenti anche Marcello Candia), ma era difficile individuare un luogo corrispondente ai desideri del Padre.
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Sergio di Radonez |
È lui stesso che giudica.
La vita di un santo è obiettiva esattamente in quanto è una teofania. Non si nega la storicità dei Vangeli, anche se dobbiamo dire che i Vangeli non sono esattamente una storia. Nella vita di Gesù gli uomini hanno riconosciuto Dio e gli Evangelisti, più che una storia, ci vogliono comunicare la rivelazione di Dio in Cristo.
Anche la vita dei santi ci comunica qualcosa di quella stessa rivelazione. Così l'agiografia ha un indiscusso carattere teologico, anzi il carattere teologico della vita dei santi è primario, come è primario nella vita soprannaturale il carisma della fede. La vita dei santi, prima dunque di appartenere alla storia, appartiene alla teologia. La vita di un santo è un trattato di vita spirituale, ma proprio per questo ci dice, e nel modo più concreto, come Dio si rivela e in che cosa consiste la rivelazione divina.
Voglio richiamare l'attenzione su un libretto che narra la vita di san Sergio di Radonez, scritta da Epifanio il Saggio.
Sergio di Radonez è certamente una delle più grandi anime che abbia avuto l'oriente, forse la più grande che abbia conosciuto il cristianesimo russo. La sua santità è stata riconosciuta anche dalla Santa Sede che ha inserito il suo nome nei testi liturgici usati dai sacerdoti cattolici di rito bizantino slavo, sebbene egli sia morto nel 1392; infatti fino alla rottura seguita al Concilio di Firenze, non soltanto la Chiesa russa non aveva compiuto positivamente alcun atto di scisma pur continuando a dipendere dalla chiesa di Costantinopoli dalla quale aveva ricevuto la fede, ma più volte sembra abbia avuto rapporti amichevoli con la Chiesa dell'Occidente. La sua vita ci fa conoscere una delle anime più belle del cristianesimo e potrebbe contribuire certamente, più di tante polemiche, alla soluzione del più importante problema fra tutti e di tutti il più urgente: quello del ritorno delle chiese separate all'unità; infatti, il mezzo più efficace per i cattolici per affrettare quel giorno è quello di una stima e di una simpatia che soltanto l'amore e la conoscenza rendono possibili.
La Vita scritta dal monaco Epifanio non è soltanto una biografia, è, per chi abbia capacità di penetrazione, un vero trattato di ascetica e di mistica. La spiritualità antica, specialmente orientale, rivive tutta e s'incarna in questo santo, tipico rappresentante del monachesimo antico.
Se la Chiesa cessasse di essere santa, cesserebbe di essere vera: questa dottrina della Chiesa orientale ci sembra particolarmente suggestiva. È in fondo una difesa contro la falsa gnosi, tentazione sempre ricorrente anche nel cristianesimo. La verità è inseparabile dalla santità. La rivelazione divina consegnata alla Chiesa non è un deposito che può esser trasmesso come una scienza teologica puramente astratta e concettuale; la rivelazione di Dio si trasmette in una conoscenza viva che santifica coloro che realmente la posseggono. Nella tradizione della Chiesa la verità della rivelazione divina si fa presente meno nelle formule della teologia, che nella santità e la santità dei testimoni è garanzia del loro insegnamento ortodosso.
Tutti i compiti della vita monastica sono espressi nella domanda di Sergio a Metrofane che, con la tonsura monastica, aveva aggregato l'asceta «all'ordine dei monaci». «Datemi la vostra benedizione e pregate per il mio eremitaggio. Insegnate a un solitario della foresta come pregare Dio, come rimanere immune dal male, come lottare contro il nemico, perché io sono soltanto novizio e monaco inesperto...». La vita cristiana esige prima di tutto il distacco e la solitudine. Solo in un secondo tempo l'eremita potrà ritornare nel inondo e aver rapporto con gli uomini, ma allora non sarà più uno di loro. Al deserto egiziano risponde la solitudine della foresta: Sergio vive dapprima come eremita: «Egli non realizzò subito in questo luogo deserto tutti i lavori e grandi erano gli stenti, i bisogni invadenti, e non c'era mezzo per soddisfare la fame e la sete né alcuna altra necessità. Così nessuno ora andava dal santo né gli veniva portata alcuna cosa, né c'erano villaggi nei dintorni, né case, né gente; neppure vi erano strade e sentieri, ma dovunque, da ogni lato, era foresta e vasta campagna ». La vita ascetica è come per la primitiva letteratura monastica (vedi soprattutto la Vita di sant'Antonio scritta da sant'Atanasio) una lotta contro il demonio, ed è proprio grazie alla vittoria su lui che l'uomo ritorna all'innocenza primitiva. E questa vittoria sul maligno è anche vittoria sugli elementi, sulla natura che obbedisce ai voleri del santo, sulle bestie feroci che ritornano mansuete come lo erano nel paradiso terrestre. «Sotto forme diverse, di tempo in tempo, il demonio lottò col santo, ma il demonio lo assalì invano. Era inutile: qualunque visione evocasse, era vinto dal fermo e timorato spirito dell'asceta. A volte era Satana stesso a tendere i suoi lacci, altra volta aveva luogo un'incursione di bestie selvagge, perché molti erano gli animali che abitavano la foresta solitaria. Alcuni di questi rimanevano ad una certa distanza, altri venivano vicino al santo e anche lo annusavano. Specialmente un orso veniva spesso dal santo eremita. Vedendo che l'animale non veniva per fargli del male, ma per avere il cibo, il santo prese una piccola fetta di pane dalla sua capanna e la pose sopra un ceppo, così l'orso imparò a venire per il cibo in questo modo preparato per lui e, dopo aver mangiato, di nuovo partiva. Se non c'era pane e l'orso non trovava la solita fetta, aspettava per molto tempo guardando intorno da ogni parte, come fa chi ha prestato denaro e aspetta di ricevere il pagamento. In quel tempo non vi era varietà di cibi nel deserto, pane soltanto e acqua della fontana era il cibo e anche l'acqua era scarsa. Spesso il pane non si trovava e tutt'e due, lui e l'orso, avevano fame. Qualche volta, sebbene vi fosse una sola fetta di pane, il santo la dava all'orso, non volendo fargli mancare il suo cibo».
La vittoria sul demonio non solo ridona a Sergio l'innocenza di Adamo, ma lo fa anche, spiritualmente, padre di numerosa posterità. La fecondità del suo apostolato ascetico nella fondazione del più celebre monastero della Russia è frutto di una maturità spirituale che farà paragonare Sergio ai santi dei primi tempi.
«Se visse due anni o più, solo, nel deserto, noi non lo sappiamo; Dio solo lo sa. Il Signore vedendo la sua grande fede e pazienza... mise nel cuore di certi buoni monaci di visitarlo...».
Il deserto si popola lentamente di asceti e la foresta deserta diviene un cantiere dove ferve, col lavoro manuale, la vita e dove pian piano tutto si trasforma : al silenzio e al nascondimento dei primi anni subentrano l'ammirazione di tutta la Russia per il santo, la venerazione dei principi, l'amicizia dei vescovi, l'approvazione solenne del patriarca ecumenico. L'umiltà del santo viene da Dio stesso premiata col carisma della paternità spirituale. Là dove prima c'era la solitudine selvaggia, sorge ora un centro di vita liturgica a cui da tutte le parti si giunge in pellegrinaggio per ascoltare il santo, per vederlo, per viver con lui.
Ma Sergio nulla cambia nella povertà, nella semplicità della sua vita, nulla nella dolcezza e umiltà del suo atteggiamento, nulla nella sua laboriosità. «Sergio costruì quattro celle con le sue mani e compì tutti gli altri doveri monastici che richiedevano i fratelli; caricava sulle spalle i tronchi della foresta, li tagliava e li portava nelle celle. E il monastero divenne un magnifico e ammirevole luogo.
La foresta non era ancora molto distante, l'ombra e il mormorio degli alberi sovrastava le celle, intorno alla chiesa c'era uno spazio cinto di tronchi d'albero e ceppi e in questo spazio varie qualità di cereali furono seminate... Egli batteva il grano e lo macinava nel mulino, faceva il pane e cuoceva le vivande, tagliava scarpe ed abiti e li cuciva, tirava su l'acqua dalle fonti che scorrevano vicino, e la caricava in due secchi sulle spalle e metteva l'acqua in ogni cella.
Passava la notte in preghiera, senza dormire, cibandosi solo di pane e acqua e in piccola quantità e mai passò un'ora oziosa».
L'elevazione alla dignità di abate, cui è congiunto l'ordine sacerdotale che il santo riceve dal vescovo Atanasio, è la dimostrazione della sua maturità spirituale, perché a questa dignità egli viene innalzato, nonostante la sua estrema umiltà, dal palese volere di Dio. Si direbbe che è soltanto il carisma della sua santità che lo designa anche a un ministero gerarchico. «Egli non prese da se stesso la dignità di abate, ricevette la direzione da Dio; non l'aveva cercata né aveva fatto qualcosa per averla; non l'ottenne con pagamento come quelli che hanno la vanità degli alti uffici, inseguendoli qua e là tramando e strappandosi il potere l'uno dall'altro. Dio stesso condusse il suo prescelto discepolo e lo esaltò alla dignità di abate».
«È detto nel Patericon cioè nel libro dei primi Padri della Chiesa - continua la Vita - che i santi Padri profetizzarono, riguardo alle ultime generazioni, che l'ultima sarebbe debole. Ma dell'ultima generazione, Dio fece Sergio forte come uno dei primi». Queste parole tradiscono chiaramente la volontà di presentare la figura di Sergio come la figura non solo di un santo, ma di uno che come i primi monaci può esser preposto alla moltitudine di coloro che vorranno nel volger dei secoli consacrarsi a Dio. La Russia non ha più bisogno di imparare da Antonio, da Macario, da Arsenio, dai primi monaci egiziani e greci la dottrina ascetica; troverà d'ora in avanti in Sergio di Radonez l'esemplare perfetto della vita monastica, il “capo”, il padre di un gran numero di monaci.
Dopo che Sergio è divenuto abate, la grazia di Dio si rivela nel suo servo attraverso i suoi carismi e attraverso i miracoli che egli compie. Ma questa gloria divina, che tutto lo circonda e s'irradia da lui, non impedisce al santo di continuare la sua vita povera, umile, piena di dolcezza e di pace, logorata dal lavoro, dalle veglie e dal digiuno: «Egli stesso faceva il pane santo da consacrare; prima puliva e macinava il frumento, stacciava la farina, impastava e fermentava la pasta; non affidava a nessuno la preparazione del pane santo. Egli cuoceva anche il grano per la kutia e faceva pure le candele. Sebbene occupasse il primo posto come abate, non volle alterare in nessun modo le sue regole monastiche. Egli era modesto e umile con tutti, era un esempio per tutti».
È anzi proprio questa vita di dure privazioni e di estrema umiltà che fa rifulgere mirabilmente il suo potere taumaturgico e la sua santità: la mancanza del pane è occasione di miracoli, la viltà delle vesti occasione di più grande confusione e stupore per chi non ha saputo subito riconoscerlo.
Fa sgorgare una fonte col solo segno di croce, risuscita un bambino morto, libera, come Antonio il Grande, gli ossessi. È soprattutto in questo che si dimostrano la sua vittoria sul demonio e la sua santità. Ha visioni celesti sull'avvenire del suo monastero che precedono l'approvazione del Patriarca ecumenico e, col passaggio dalla vita eremitica o semieremitica alla vita cenobitica, la fondazione canonica del suo monastero.
Ma il santo deve ora affrontare nuove prove e persecuzioni: la lotta con gli uomini è anche peggiore dunque della lotta contro il demonio o piuttosto è attraverso gli uomini stessi che il demonio scatena ora l'ultima e più feroce battaglia. La «Vita» di fatto attribuisce all'azione del diavolo i dissensi che sorgono fra i monaci e la stessa opposizione del fratello Stefano contro il santo abate. Questi vince senza combattere, con un puro atto di dolcezza e di umiltà, allontanandosi dal suo monastero e lasciando i suoi monaci senza pastore. Questo atto li riconcilia tutti in un desiderio doloroso di riaverlo con sé. E Sergio allora ritorna. «Quando la notizia che il santo stava ritornando raggiunse il monastero, i fratelli uscirono a incontrarlo. A guardarlo, pareva che un secondo sole risplendesse; essi erano così pieni di gioia che alcuni fratelli baciarono le mani del padre, altri i piedi, mentre altri prendevano i suoi abiti e li baciavano. Grande era la gioia ed era glorificato Dio per il ritorno del padre. E che dire di Sergio? Egli gioiva con tutto il cuore nel vedere questa unione del suo gregge».
La «Vita» parla anche dell'influsso grandissimo che egli ebbe ai suoi tempi sulla storia di tutto il paese. Egli diviene veramente il cuore di tutto l'immenso paese. Come Sant'Antonio è amico di Sant'Atanasio, così Sergio è amico del grande apostolo Stefano di Perm. Il Metropolita Alessio di Mosca lo vuole suo successore, ma inutilmente. Il granduca Demetrio ottiene da lui protezione e incitamento per la sua battaglia contro i Tartari, salvando così la Russia dalle orde pagane.
In ultimo la «Vita» ci mostra il santo favorito ancora di meravigliose visioni: egli vive già insieme con gli angeli davanti al trono di Dio. I suoi monaci lo vedono celebrare la divina liturgia insieme con i cittadini del cielo: più volte come una fiamma circonda tutto l'altare sul quale egli celebra e finalmente al termine della sua vita gli appare la Vergine. «Un giorno il beato padre stava pregando, come era suo bisogno, davanti all'immagine della Madre del nostro Signor Gesù Cristo. Avendo cantato il Magnificat della Beata Vergine si sedette per riposare un poco, dicendo al suo discepolo Micah : “Figliuolo, sii calmo e coraggioso, perché stanno per succedere cose meravigliose e terribili”. Nell'istante si udì una voce: “La Beata Vergine viene”. Udendo ciò, il santo si affrettò a uscir dalla sua cella nel corridoio. Un abbagliante splendore brillò al disopra del santo, più lucente del sole, ed egli vide la Beata Vergine, coi due Apostoli Pietro e Giovanni, in una gloria ineffabile. Incapace di sopportare così risplendente visione, il santo cadde a terra. La Beata Vergine, toccando il santo con la mano, disse: “Non aver paura, o mio eletto, sono venuta a trovarti. Le tue preghiere per i discepoli, per i quali tu preghi, e per il monastero sono state esaudite. Non turbarti; da ora in avanti esso fiorirà, non soltanto durante il tempo della tua vita, ma quando tu sarai dal Signore io sarò col tuo monastero, supplendo largamente ai suoi bisogni con la mia protezione”. Detto questo svanì. Il santo, in estasi, rimase tremante di stupore e di meraviglia. Ritornando adagio adagio ai sensi vide il suo discepolo preso dal terrore, steso sul pavimento, finché si alzò, si gettò allora ai piedi dello staretz dicendo: “Ditemi, o padre, per l'amor di Dio, quale meravigliosa visione fu questa, poiché il mio spirito quasi sciolse i suoi legami con la carne, a motivo di essa”. Il santo era così colmo di estasi che la sua faccia era infuocata e inoltre era incapace di rispondere se non poche parole: “Aspetta un poco, figliolo, perché anch'io sono tremante di terrore e meraviglia”. Continuarono in silenziosa adorazione finché finalmente il santo disse al suo discepolo: “Figliuolo, fai venir qui Isacco e Simone”. Quando questi due vennero, raccontò loro tutto quanto era successo, come egli vide la Beata Vergine con gli Apostoli e quale meravigliosa promessa gli era stata fatta. Udendo ciò il loro cuore si riempì di indescrivibile gioia e tutti cantarono il Magnificat e glorificarono Dio. Tutta la notte il santo meditò su questa ineffabile visione». Ora anche i greci debbono riconoscere che la Russia - questa cristianità sperduta in luoghi selvaggi e deserti - è veramente l'emula e l'ereditiera della grande santità dei primi secoli. La vita sembra così preparare quanto avrebbe detto poco dopo Massimo il greco: alla prima Roma è succeduta la seconda, alla seconda succede Mosca, la terza Roma, cui succederà la fine e il giudizio.
Il santo è ora vicino alla morte : sente sfuggire giorno per giorno la vita, ma, pur nel declinare delle forze, intatto rimane il fervore dello spirito. È avvertito dell'approssimarsi della sua fine sei mesi prima e, riunendo la fraternità, nomina chi gli dovrà succedere. Muore fra le braccia dei suoi discepoli elevando le mani al cielo come un antico patriarca. Era il 25 settembre 1392: aveva settantotto anni di età.
Epifanio, in pagine di meraviglioso candore, ci narra la vita del santo; l'umile semplicità di questa vita ci sembra in verità una rivelazione di pura bellezza. Sergio è una icone di Dio.
La breve biografia di Sergio è un prezioso testo di ascetica monastica: la si può considerare veramente un trattato di spiritualità, tanto più efficace perché non è astratto ma vivo, proponendo con la dottrina l'esempio del santo e in questo esempio delineando anche il cammino dell'anima verso la perfezione fino a quella anticipazione della vita paradisiaca sulla quale insistono, nella loro pura semplicità, le ultime pagine.
Se volessimo riassumere brevemente questa dottrina, ci sembrerebbe di chiarirla meglio ponendola a confronto con quella che chiaramente è esposta in altre vite monastiche: Epifanio considera la vita ascetica come una lotta accanita contro il demonio che in questa lotta si avvale prima, come alleata, della concupiscenza carnale («Il diavolo s'ingegnava di ferirlo coi dardi della concupiscenza, ma il santo vigilante contro questi attacchi del nemico, disciplinava il suo corpo ed esercitava l'anima assoggettandola con le privazioni: ed in questo era protetto dalla grazia del Signore»), poi dei monaci stessi che gli mostrano la loro ostilità.
Come l'unione con Dio ristabilisce la comunità umana, così l'unione con Dio è il ritorno per l'uomo alla vita del paradiso terrestre quando tutto è fraterno con l'uomo. Ma il cammino che porta a questa meta di unità con gli uomini e con la creazione importa la lotta contro le potenze, il combattimento. L'ascesi non è solo esercizio di virtù, è impegno di redenzione per l'uomo, e l'uomo non si libera dalla schiavitù delle potenze che in quanto ritorna ad essere re di una creazione rinnovata, capo di una umanità che, in lui e per lui, viene nuovamente benedetta da Dio.
Ma la vittoria sul demonio, in cui consiste la perfezione monastica stessa, fa soprattutto il monaco partecipe della vita divina nella sua potenza coi miracoli e con la liberazione degli ossessi e fa il monaco compagno degli angeli nella preghiera e degno di visioni celesti, dopo averlo fatto padre di numerosa famiglia.
Il monaco non dovrebbe aspirare a una missione di paternità spirituale - sembra insinuare lo scrittore - né dovrebbe essere elevato all'ordine gerarchico se non fosse designato a tanta dignità dai doni dello Spirito Santo.
È implicito anche, almeno ci sembra, l'insegnamento che non la vita eremitica, ma la vita cenobitica, l'unione di carità tra i fratelli, sia l'ideale più perfetto della vita cristiana - e in questo preporre la vita cenobitica alla vita eremitica non c'è solo un'influenza della dottrina ascetica di San Basilio, ma anche un sano atteggiamento di opposizione alle intemperanze e all'anarchismo endemico della spiritualità orientale.
Nella vita di un santo si fa presente tutto il mistero della salvezza: la vita di un uomo ha le proporzioni di tutta la vita dell'universo, di tutta la storia del mondo. Si può dire che ogni vita antica è composta secondo uno schema già prestabilito, ma, se lo schema fondamentalmente si ripete, non è tuttavia artificiale e non fa violenza alla storia, implica piuttosto una teologia della storia - la storia attraverso questo schema ha un senso divino intelligibile. La storia del mondo, come la vita dell'uomo, sono veramente il mistero, una rivelazione di Dio che è insieme salvezza dell'uomo.
La grandezza di un santo si misura alla perfezione di questa rivelazione, alla universalità di questa salvezza, che si fanno presenti nella sua vita.
La teologia di questa agiografia non è contro la fedeltà alla storia. Sergio non è Antonio di Tebe, non è Benedetto di Norcia. Non solo la foresta russa non è il deserto dell'Egitto e la campagna del sud d'Italia, non solo gli avvenimenti storici che si svolsero durante la vita di Sergio non sono minimamente gli avvenimenti cui più o meno direttamente furono implicati Antonio e Benedetto, ma Sergio medesimo è una persona ben caratterizzata nella sua dolcezza e umiltà, ma anche nella sua sobrietà e forza virile.
© Divo Barsotti