giovedì 6 settembre 2012

Joseph Ratzinger - Rapporto sulla Fede (Parte prima)

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Questo libro, esaltato da alcuni – ed esecrato da altri – come il «manifesto» che chiudeva la fase tellurica del post-Concilio, è ormai entrato fra i testi di riferimento della storia della Chiesa.
Per la prima volta nella storia, un Prefetto dell'ex-Sant'Uffizio parlava «a cuore aperto», con lucido e coraggioso realismo, affidando le sue riflessioni sulla fede oggi a un giornalista.
Seppure uscito nel 1985 (l'anno stesso in cui si apriva il Sinodo per i vent'anni dalla fine del Vaticano II), colpisce di questo libro la sua bruciante attualità, utile per comprendere presente e futuro della cristianità ora affidata alle cure del nuovo pontefice Benedetto XVI. Lo propongo ai lettori di questo blog a un mese dall'apertura dell'Anno della Fede.



CAPITOLO I
UN INCONTRO INSOLITO


CAPITOLO II
UN CONCILIO DA RISCOPRIRE


CAPITOLO TERZO
ALLA RADICE DELLA CRISI: L'IDEA DI CHIESA


* * * 


Vittorio Messori
a colloquio con
JOSEPH RATZINGER

CAPITOLO I. UN INCONTRO INSOLITO
Passione e ragione
"Un tedesco aggressivo, dal portamento fiero, un asceta che porta la croce come una spada".
"Un bavarese rubicondo, dall'apparenza cordiale, che abita in semplicità un piccolo appartamento
vicino al Vaticano".
"Un Panzer-Kardinal che non ha mai abbandonato le vesti fastose e la croce pettorale principe di
Santa Romana Chiesa".
"Gira solo in giacca e cravatta, spesso guidando lui stesso per Roma una piccola utilitaria: a
vederlo nessuno penserebbe che è tra gli uomini più importanti del Vaticano.
Si potrebbe continuare con queste citazioni contraddittorie, tratte da articoli apparsi sui giornali
del mondo intero. Sono articoli a commento di alcune primizie (pubblicate nel novembre 1984
sul mensile italiano Jesus e tradotte poi in molte lingue) dei contenuti dell'intervista concessaci
dal cardinal Joseph Ratzinger, dal gennaio 1982 Prefetto della Sacra Congregazione per la
dottrina della fede. e, come si sa, l'istituzione vaticana che, fino a vent'anni fa e per quattro
secoli, fu detta "Inquisizione Romana e Universale" o "Sant'Uffizio".
Leggendo descrizioni tanto contrastanti dello stesso aspetto fisico del card. Ratzinger, qualche
malizioso sospetterà che anche il resto di quei commenti sia piuttosto distante da quell'ideale di
"oggettività dell'informazione" di cui discutiamo spesso noi giornalisti nelle nostre assemblee.
Non ci pronunciamo in merito; ci limitiamo a ricordare che in ogni cosa c'è anche un lato
positivo.
Nel nostro caso, in queste contraddittorie "trasfigurazioni" subite dal Prefetto della Fede sotto la
penna di qualche collega (non di tutti, certo), c'è forse il segno dell'interesse appassionato con il
quale è stata accolta l'intervista con il responsabile di una Congregazione il cui riserbo era
leggendario, la cui norma suprema era il segreto.
L'avvenimento, in effetti, era davvero insolito. Dandoci alcuni giorni di colloquio, il card.
Ratzinger ha concesso quella che è in assoluto la più lunga e completa tra le sue rarissime
interviste. Occorre poi considerare che nessun altro nella Chiesa – a parte, ovviamente, il Papa -
avrebbe potuto rispondere alle nostre domande con maggiore autorità. La Congregazione per la
dottrina della fede è infatti lo strumento per mezzo del quale la Santa Sede promuove
l'approfondimento della fede e vigila sulla sua integrità. e, dunque, la depositaria stessa
dell'ortodossia cattolica. Non a caso sta al primo posto nell'elenco ufficiale delle Congregazioni
della Curia romana; infatti, come scrisse Paolo VI dandole la precedenza su tutte nella riforma
postconciliare, "è la Congregazione che tratta le cose più importanti".
Vista dunque la singolarità di una simile intervista del Prefetto della Fede - e visti anche i
contenuti, espliciti e franchi al limite della crudezza è ben comprensibile che in alcuni
commentatori l'interesse si sia trasformato in passione, in bisogno di schierarsi: pro o contro.
Una presa di posizione che ha coinvolto la stessa persona fisica del card. Ratzinger, trasformata
in positiva o in negativa dallo stato d'animo del giornalista.
Vacanze da cardinale
Per quel che mi riguarda, di Joseph Ratzinger conoscevo gli scritti ma non lo avevo incontrato
che una volta di sfuggita. Il nostro appuntamento era per il 15 agosto 1984 in quella piccola,
illustre città che gli italiani chiamano Bressanone e i tedeschi Brixen: una delle capitali di quella
terra che è l’Alto Adige per gli uni, Sud Tirol per gli altri; luogo di principi vescovi, di lotte tra
papi e imperatori; terra di incontro - e di scontro, oggi come sempre - tra cultura latina e
germanica. Un posto quasi simbolico, dunque, anche se non certo scelto apposta. Perché, allora,
Bressanone-Brixen?
Qualcuno, forse, pensa ancora ai membri del Sacro Collegio, ai Cardinali di Santa Romana
Chiesa come a principi che l'estate si muovono dai loro fastosi palazzi dell'Urbe per andare a
villeggiare in qualche luogo di delizie.
Per Sua Eminenza Joseph Ratzinger, Cardinale Prefetto, la realtà è piuttosto diversa. I pochissimi
giorni che riesce a strappare alla Roma d'agosto, li passa nella non freschissima conca di
Bressanone. Lì non abita in qualche villa od albergo, ma sta nel seminario, che affitta a prezzi
economici alcune stanze: la diocesi ne ricava qualche entrata per il mantenimento degli studenti
in teologia.
Nei corridoi e nel refettorio dell'antico edificio barocco si incontrano anziani ecclesiastici attirati
in quella modesta villeggiatura dalle rette modiche; si incrociano comitive di pellegrini tedeschi
e austriaci in tappa nel loro viaggio verso Sud.
Il cardinal Ratzinger sta lì, mangia le semplici cose preparate dalle suore tirolesi, seduto allo
stesso tavolo con i preti in villeggiatura. Da solo, senza il segretario tedesco che l'assiste a Roma,
con la temporanea compagnia dei familiari che vengono a trovarlo dalla vicina Baviera.
Un suo giovane collaboratore, a Roma, ci ha parlato della intensa dimensione di preghiera con
cui contrasta il pericolo di trasformarsi in Grande Burocrate, nel firmatario di decreti che non si
curino dell'umanità delle persone coinvolte. "Spesso - ci diceva quel giovane - ci raduna nella
cappella del palazzo per una meditazione e una preghiera in comune. C'è in lui un bisogno
continuo di radicare il nostro lavoro quotidiano (spesso ingrato, a contatto con la patologia della
fede), in un cristianesimo vissuto come servizio al popolo di Dio".
Destra/sinistra; ottimismo/pessimismo
Un uomo, dunque, interamente calato in una dimensione religiosa. Ed è solo ponendosi in questa
sua prospettiva che è possibile capire davvero il senso di quanto dice. Da questo punto di vista
non hanno più senso quegli schemi (conservatore-progressista; destra-sinistra) che vengono da
una dimensione ben diversa, quella delle ideologie politiche, e non sono dunque applicabili alla
visione religiosa che, per dirla con Pascal, "è di un altro ordine che supera, in profondità e in
altezza, tutti i restanti".
Così, sarebbe fuorviante applicargli un altro schema grossolano (ottimista; pessimista): quanto
più l'uomo di fede fa suo l'evento che fonda l'ottimismo per eccellenza - la Risurrezione del
Cristo -, tanto più può permettersi il realismo, la lucidità, il coraggio di chiamare i problemi con
il loro nome per affrontarli, senza chiudere gli occhi o schermarseli con lenti rosa.
In una conferenza dell'allora teologo professor Ratzinger (era il 1966) troviamo questa
conclusione a proposito della situazione della Chiesa e della fede: "Forse vi sareste attesi un
quadro più lieto e luminoso. E ce ne sarebbe forse anche motivo, per certi aspetti. Ma mi sembra
importante mostrare i due volti di quanto ci ha riempito di gioia e di gratitudine al Concilio,
comprendendo così anche l'appello e l'incarico che vi sono contenuti. E mi sembra importante
segnalare il pericoloso, nuovo trionfalismo nel quale cadono spesso proprio i denunciatori del
trionfalismo passato. Fino a quando la Chiesa è pellegrina sulla terra, non ha diritto di gloriarsi di
se stessa. Questo nuovo modo di gloriarsi potrebbe diventare più insidioso di tiare e sedie
gestatorie che, comunque, sono ormai motivo più di sorriso che di orgoglio".
Questa sua consapevolezza che "il posto della Chiesa sulla terra, è solo vicino alla croce" non
porta certo - per lui -alla rassegnazione ma, anzi, al suo contrario: "Il Concilio - dice - voleva
segnare il passaggio da un atteggiamento di conservazione a un atteggiamento missionario. Molti
dimenticano che il concetto conciliare opposto a "conservatore" non è "progressista" ma
"missionario"".
"Il cristiano - ricorda ancora a chi lo sospettasse di pessimismo - sa che la storia è già salvata,
che dunque alla fine lo sbocco sarà positivo. Ma non sappiamo attraverso quali vicende e
traversie arriveremo a quel gran finale. Sappiamo che le potenze degli inferi "non prevarranno
sulla Chiesa", ma ignoriamo a quali condizioni questo avverrà".
A un certo punto l'ho visto allargare le braccia e indicare la sua unica ricetta davanti a una
situazione ecclesiale in cui vede luci ma anche insidie: "Oggi più che mai il Signore ci ha resi
consapevoli che Lui soltanto può salvare la Sua Chiesa. Essa è di Cristo, tocca a Lui provvedere.
A noi è chiesto di lavorare al massimo delle forze, senza angosce, con la serenità di chi è
consapevole di essere servo inutile pur dopo avere fatto tutto il suo dovere. Anche in questo
richiamo alla nostra pochezza vedo una delle grazie di questo periodo difficile"."Un periodo -
continua - in cui ci è richiesta la pazienza, questa forma quotidiana dell'amore. Un amore in cui
sono presenti al tempo stesso la fede e la speranza".
A dire il vero (per quanto vale quella "oggettività dell'informazione" di cui parlavamo) nei giorni
passati insieme non mi è parso di scorgere in lui nulla che giustificasse l'immagine di dogmatico,
duro Grande Inquisitore che alcuni hanno voluto cucirgli addosso. L'ho visto talvolta
amareggiato, ma l'ho anche sentito ridere di gusto, raccontando un aneddoto o commentando una
battuta. Al senso dello humour affianca un'altra caratteristica che contrasta anch'essa con lo
schema da "inquisitore": la capacità di ascolto, la disponibilità a farsi interrompere dalle
domande e la prontezza a rispondere a tutte con estrema franchezza, lasciando che il registratore
continui a girare. Un uomo, dunque, lontano dal cliché che vuole il "cardinale di curia" sfuggente
e sornionamente diplomatico. Giornalista ormai da molti anni, abituato dunque a ogni genere di
interlocutori (alti prelati vaticani compresi), confesso di essermi stupito di trovare una risposta
chiara e diretta a ogni mio quesito, anche il più delicato.
Il troppo e il troppo poco
Al giudizio del lettore (quali che siano poi le sue conclusioni) affidiamo dunque le sue
affermazioni, come le abbiamo trascritte sforzandoci di essere fedeli a quanto abbiamo sentito.
Non sarà inutile ricordare che i contenuti di questo libro sono stati rivisti dall'interessato che,
approvandoli (non solo nell'originale italiano ma anche nelle traduzioni, a cominciare da quella
tedesca, normativa per le molte altre), ha dichiarato di riconoscervisi.
Questo diciamo a chi - nei vivacissimi commenti ai preannunci sul giornale - è sembrato
insinuare che nell'intervista ci fosse troppo dell'intervistatore. L'approvazione del card. Ratzinger
ai testi fa sì che questa non sia "il card. Ratzinger secondo un giornalista", ma "il Ratzinger che,
intervistato da un giornalista, ne ha riconosciuto la fedeltà di interpretazione".
Altri - al contrario - hanno sospettato che, nel testo, ci fosse troppo poco di nostro: quasi si fosse
trattato di un'operazione "pilotata", di una mossa all'interno di chissà quale complessa strategia,
dove il giornalista è ridotto a mero prestanome. Sarà allora bene precisare lo svolgimento dei
fatti, nella loro semplice verità. Una generica richiesta di intervista era stata avanzata dagli
editori con i quali collaboro. Si diceva che, qualora il cardinale avesse potuto mettere a
disposizione non qualche ora, ma qualche giorno, l'articolo previsto per un giornale avrebbe
potuto trasformarsi in libro. Dopo qualche tempo, la segreteria del card. Ratzinger ha risposto
convocando il giornalista a Bressanone. Qui, il Prefetto si è messo a disposizione
dell'intervistatore, senza alcun accordo previo, con la sola condizione della revisione dei testi
prima della pubblicazione. Nessun contatto precedente, dunque, e nessun contatto o intervento
successivo ma piena fiducia e libertà (nella ovvia fedeltà) per l'estensore del colloquio.
Tra coloro che hanno sospettato un troppo poco ci sono forse anche quelli che ci hanno
rimproverato di non essere stati con Joseph Ratzinger abbastanza "polemici", "critici", magari
"cattivi". Ma queste obiezioni vengono da chi è fautore di ciò che a noi sembra, semplicemente,
del pessimo giornalismo. Il giornalismo, cioè, in cui l'interlocutore non è che un pretesto per
permettere al cronista di intervistare se stesso, di esibirsi, facendo risaltare la sua visione delle
cose.
Crediamo invece che il servizio vero di noi che ci diciamo "informatori" sia appunto quello di
informare i lettori sul punto di vista dell'intervistato, lasciando ai lettori stessi il giudizio.
Stimolare l'interlocutore a spiegarsi, dargli voce in ciò che ha da dire: come con ogni altro, così
abbiamo cercato di fare anche con il Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede.
Non nascondendo però (lo precisiamo a evitare ipocrite declamazioni su impossibili "neutralità")
di essere noi stessi coinvolti nell'avventura della Chiesa, in questa svolta della sua storia. Non
nascondendo di avere approfittato della occasione per cercare noi stessi di capire che cosa
avviene in una dimensione ecclesiale che, seppure laici, ci riguarda però personalmente. Seppure
avanzate a nome dei lettori, le domande al cardinale erano dunque anche nostre, rispondevano
anche al nostro bisogno di comprendere. È un dovere, ci pare, di chiunque si dice credente; di
chiunque si riconosce membro della Chiesa cattolica.
Un teologo e un pastore
È indubbio che, nominando Joseph Ratzinger responsabile dell'ex-Sant'Uffizio, Giovanni Paolo
II ha voluto compiere una scelta di "prestigio". Dal 1977, chiamatovi da Paolo VI, era cardinale
arcivescovo di una diocesi dal passato illustre e dal presente importante come Monaco di
Baviera. Ma il sacerdote messo a sorpresa su quel seggio episcopale era già uno dei più famosi
studiosi cattolici, con un posto preciso in ogni storia della teologia contemporanea.
Nato nel 1927 a Marktl-am-Inn, nella diocesi bavarese di Passau, ordinato nel 1951 a Freising
(diocesi di Monaco), laureato con una tesi su sant'Agostino e poi docente di teologia dogmatica
nelle più celebri università tedesche (Munster, Tubingen, Regensburg), Ratzinger aveva alternato
pubblicazioni scientifiche a saggi di alta divulgazione divenuti best-seller in molti Paesi. I critici
rilevano nella sua produzione non eruditi interessi settoriali, ma la ricerca globale di quello che i
tedeschi chiamano das Wesen, l'essenza stessa della fede e la sua possibilità di confrontarsi con il
mondo moderno. Tipica, al proposito, quella sua Einfùhrung in das Christentum, introduzione al
cristianesimo, una sorta di classico continuamente ristampato, sul quale si è formata una
generazione di chierici e di laici, attirati da un pensiero del tutto "cattolico" e nel contempo del
tutto "aperto" al nuovo clima del Vaticano II. Al Concilio, il giovane teologo Ratzinger prese
parte come esperto dell'episcopato tedesco, conquistando la stima e la solidarietà di coloro che
nella storica assise vedevano una occasione preziosa per adeguare ai tempi la prassi e la pastorale
della Chiesa.
Un equilibrato "progressista", insomma, se si vuole usare quello schema deviante di cui
parlavamo. In ogni caso - a conferma della sua fama di studioso attento e moderno - nel 1964 il
professor Ratzinger è tra i fondatori di quella rivista internazionale Concilium in cui si riunisce la
cosiddetta "ala progressista" della teologia. Un gruppo imponente, con il cervello direttivo in
un'apposita "Fondazione Concilium" a Nimega, in Olanda, e che può disporre di un mezzo
migliaio di collaboratori internazionali, i quali ogni anno producono oltre duemila pagine
tradotte in tutte le lingue. Vent'anni fa Joseph Ratzinger era là, tra i fondatori e i direttori di un
giornale-istituzione che doveva divenire l'interlocutore assai critico proprio della Congregazione
per la dottrina della fede.
Cosa ha significato questa collaborazione per colui che sarebbe poi diventato Prefetto dell'ex-
Sant'Ufficio? Un infortunio? Un peccato di gioventù? E che è successo nel frattempo? Una
svolta nel suo pensiero? Un "pentimento"?
Glielo chiederò un po' scherzoso, ma la risposta sarà pronta e seria: "Non sono cambiato io, sono
cambiati loro. Sin dalle prime riunioni, feci presente ai miei colleghi due esigenze. Primo: il
nostro gruppo non doveva essere settario, arrogante, come se noi fossimo la nuova, vera Chiesa,
un magistero alternativo con in tasca la verità sul cristianesimo. Secondo: bisognava confrontarsi
con la realtà del Vaticano II, con la lettera e con lo spirito autentici del Concilio autentico, non
con un immaginario Vaticano III; senza, dunque, fughe solitarie in avanti. Queste esigenze, in
seguito, sono state tenute sempre meno presenti sino a una svolta - situabile attorno al 1973 -
quando qualcuno cominciò a dire che i testi del Vaticano II non potevano più essere il punto di
riferimento della teologia cattolica. Si diceva infatti che il Concilio apparteneva ancora al
"momento tradizionale, clericale" della Chiesa e che bisognava dunque superarlo: un semplice
punto di partenza, insomma. Ma, in quegli anni, io mi ero già da tempo dimesso, sia dal gruppo
di direzione che da quello dei collaboratori. Ho sempre cercato di restare fedele al Vaticano II,
questo oggi della Chiesa, senza nostalgie per uno ieri irrimediabilmente passato e senza
impazienze per un domani che non è nostro".
Continua, passando dall'astrazione teorica alla concretezza dell'esperienza personale: "Amavo il
mio lavoro di insegnante e di studioso. Non ho certo aspirato a essere messo a capo prima
dell'arcidiocesi di Monaco, poi della Congregazione per la dottrina della fede. È un servizio
pesante che mi ha permesso però di capire, scorrendo ogni giorno i rapporti che da tutto il mondo
giungono sul mio tavolo, che cosa sia la preoccupazione per la Chiesa universale. Dalla mia
sedia così scomoda (ma che permette almeno di vedere il quadro generale) ho capito che certa
"contestazione" di certi teologi è segnata da mentalità tipiche della borghesia opulenta
dell'Occidente. La realtà della Chiesa concreta, dell'umile popolo di Dio, è ben diversa da come
se la raffigurano in certi laboratori dove si distilla l'utopia".
L'ombra del Sant'Uffizio
Comunque lo si giudichi, è dunque un fatto oggettivo: il cosiddetto "gendarme della fede" non è
in realtà uomo della Nomenklatura, un funzionario che conosca solo curie e apparati; è uno
studioso con una esperienza pastorale concreta.
Ma anche la Congregazione che è stato chiamato a presiedere non è certo più quel Sant'Uffizio
attorno al quale (per effettive responsabilità storiche, ma anche per influsso della propaganda
antichiesastica dal Settecento europeo sino ad oggi) si era creata una tenebrosa leggenda nera".
Oggi è la stessa ricerca storica di parte laica che riconosce come il Sant'Uffizio reale sia stato
assai più equo, moderato, cauto di quanto non voglia certo mito tenace.
Gli studiosi raccomandano poi di distinguere tra "Inquisizione spagnola" e "Inquisizione Romana
e Universale". Questa fu fondata nel 1542 da Paolo III, il papa che cercava in ogni modo di
convocare quel Concilio che sarebbe passato alla storia con il nome di Trento. Come prima
misura per la riforma cattolica e per fermare l'eresia che da Germania e Svizzera minacciava di
dilagare ovunque, Paolo III istituì uno speciale organismo composto di sei cardinali con la
potestà di intervenire dappertutto fosse giudicato necessario. La nuova istituzione non aveva,
all'inizio, carattere permanente e neppure un nome ufficiale: soltanto dopo venne chiamata
Sant'Uffizio o Congregazione della Inquisizione Romana e Universale. Essa non subì mai
ingerenze del potere secolare e si adeguò a procedure precise e in qualche modo garantiste,
almeno relativamente alla situazione giuridica dei tempi e all'asprezza delle lotte di religione.
Cosa che non avvenne invece con l'Inquisizione spagnola, che fu ben altra cosa: fu infatti un
tribunale del re di Spagna, uno strumento dell'assolutismo statale che (sorto all'origine contro
ebrei e musulmani sospetti di "finta conversione" a un cattolicesimo inteso dalla Corona come
strumento anche politico), agì spesso in contrasto con Roma, da dove i Papi non mancarono di
ammonire e di protestare.
Comunque sia, ora, anche per l'ex-Inquisizione romana o ex-Sant'Uffizio, tutto questo - a
cominciare dal nome stesso - non è che un ricordo. Come dicevamo, la Congregazione fu la
prima a essere riformata da Paolo VI, con un motu proprio del 7 dicembre 1965, ultimo giorno
del Concilio. La riforma le riconfermò, pur mutandone le procedure, il compito di vigilare sulla
retta fede ma le assegnò anche un ruolo positivo: di stimolo, di proposta, di indicazione.
Quando ho chiesto a Ratzinger se gli fosse costato passare dalla condizione di teologo (magari
tenuto d'occhio da Roma ... ) a quello di controllore del lavoro dei teologi, non ha esitato a
rispondermi: "Mai avrei accettato questo servizio alla Chiesa se il mio compito fosse stato
innanzitutto quello del controllo. Con la riforma, la nostra Congregazione ha conservato sì
compiti di decisione e di intervento, ma il motu proprio di Paolo VI le pone come obiettivo
prioritario il ruolo costruttivo di "promuovere la sana dottrina per dare nuove energie agli
annunciatori del Vangelo". Naturalmente, siamo chiamati come prima anche a vigilare, a
"correggere gli errori e a ricondurre sulla retta via gli erranti", come dice lo stesso documento,
ma questa difesa della fede deve essere volta alla sua promozione".
Un servizio incompreso?
Eppure, malgrado ogni riforma, anche tra i cattolici molti oggi non riescono più a capire il senso
del servizio reso alla Chiesa da questa Congregazione. La quale, trascinata sul banco degli
imputati, ha diritto anch'essa a far sentire le sue ragioni. Che suonano più o meno così, se
abbiamo bene inteso quanto si trova in documenti e pubblicazioni e ciò che ci è stato detto da
teologi che ne difendono la funzione, giudicandola "più che mai essenziale".
Dicono dunque costoro:
"Punto irrinunciabile di partenza è, ancora e sempre, una prospettiva religiosa, al di fuori della
quale ciò che è servizio apparirebbe intolleranza, ciò che è sollecitudine doverosa sembrerebbe
dogmatismo. Se si entra dunque in una dimensione religiosa, si comprende come la fede sia il
bene più alto e prezioso, proprio perché la verità è l'elemento fondamentale per la vita dell'uomo.
Dunque, la preoccupazione perché la fede non si corrompa dovrebbe essere considerata - almeno
dai credenti - ancor più necessaria della preoccupazione per la salute del corpo. Il vangelo
ammonisce di "non temere coloro che uccidono il corpo", ma di temere "piuttosto coloro che,
assieme al corpo, possono uccidere anche l'anima" (Mt 10,28). E lo stesso vangelo che ricorda
come l'uomo non viva di "solo pane", ma innanzitutto della "Parola di Dio" (Mt 4,4). Ma quella
Parola, più indispensabile del cibo, va accolta nella sua autenticità e va preservata da ogni
alterazione. È lo scetticismo di fronte alla possibilità per l'uomo di conoscere la verità con la
conseguente perdita del concetto vero di Chiesa e l'appiattimento della speranza nella sola storia
(dove ciò che soprattutto conta è il "corpo" il "pane", non più "l’anima", la "Parola di Dio che ha
fatto sì che appaia irrilevante, quando non anacronistico o addirittura dannoso, il servizio di una
Congregazione come quella per la dottrina della fede".
Continuano i difensori della Congregazione di cui ora è Joseph Ratzinger il Prefetto: "Circolano
dei facili slogans. Secondo uno di questi, ciò che oggi conta sarebbe solo l'ortoprassi, cioè il
"comportarsi bene", l’"amare il prossimo". Sarebbe invece secondaria, se non alienante, la
preoccupazione per l'ortodossia e, cioè, il "credere in modo giusto", secondo il senso vero della
Scrittura letta all'interno della Tradizione viva della Chiesa. Slogan facile perché superficiale:
infatti i contenuti dell'ortoprassi, dell'amore per il prossimo, non cambiano forse radicalmente a
seconda dei modi di intendere l'ortodossia? Per trarre un esempio attuale dal tema scottante del
Terzo Mondo e dell'America Latina: qual è la giusta prassi per soccorrere i poveri in modo
davvero cristiano e dunque efficace? La scelta di una retta azione non presuppone forse un retto
pensiero, non rinvia forse alla ricerca di una ortodossia?".
Queste, dunque alcune delle ragioni sulle quali siamo invitati a pronunciarci.
Parlando con lui di queste questioni preliminari, indispensabili prima di entrare nel vivo del
discorso, lo stesso Ratzinger mi ha detto: "In un mondo dove, in fondo, lo scetticismo ha
contagiato anche molti credenti, è un vero scandalo la convinzione della Chiesa che ci sia una
Verità con la maiuscola, e che questa Verità sia riconoscibile, esprimibile e, entro certi limiti,
anche definibile in modo preciso. È uno scandalo che è condiviso anche da cattolici che hanno
perso di vista l'essenza della Chiesa. La quale non è un’organizzazione solo umana, deve
difendere un deposito che non è suo, ne deve garantire l'annuncio e la trasmissione attraverso un
Magistero che lo ripresenti in modo adeguato e autentico agli uomini di ogni tempo".
Ma su questo tema della Chiesa, precisa subito, ritornerà più avanti e più volte; perché qui
starebbe, per lui, una delle radici della crisi attuale.
"L'eresia esiste ancora"
Malgrado il ruolo anche positivo assunto dalla Congregazione, essa conserva tuttavia il potere di
intervenire là, dove sospetti si annidino "eresie" che minaccino l'autenticità della fede.
All'orecchio di noi moderni, i termini "eresia", "eretico", suonano talmente inconsueti che si è
costretti a metterli tra virgolette. Pronunciandoli o scrivendoli, ci si sente trascinati verso epoche
che sembrano remote. Eminenza, chiedo, ci sono davvero ancora degli "eretici", ci sono ancora
le "eresie"?
"Mi permetta innanzitutto - replica - di richiamare a questo proposito la risposta che dà il nuovo
codice di diritto canonico, promulgato nel 1983 dopo 24 anni di lavoro che l'hanno
completamente rifatto e perfettamente allineato al rinnovamento conciliare. Al canone (cioè
articolo) 751 si dice: "Viene detta eresia l'ostinata negazione, dopo aver ricevuto il battesimo, di
una qualche verità che si deve credere per fede divina e cattolica, o il dubbio ostinato su di essa".
Per quanto riguarda le sanzioni, il canone 1364 stabilisce che l'eretico - al pari dell'apostata e
dello scismatico - incorre nella scomunica latae sententiae. Ciò vale per tutti i fedeli ma i
provvedimenti sono aggravati contro l'eretico che sia anche sacerdote. Vede dunque che, anche
per la Chiesa postconciliare (per quanto vale questa espressione "postconciliare" che non accetto,
e spiegherò perché), eretici ed eresie - rubricate dal nuovo Codice come "delitti contro la
religione e l'unità della Chiesa" esistono e si è previsto il modo per difenderne la comunità dei
credenti".
Continua: "La parola della Scrittura è attuale per la Chiesa di ogni tempo così come rimane
sempre attuale la possibilità per l'uomo di cadere in errore. È dunque attuale anche oggi
l'ammonimento della seconda lettera di Pietro a guardarsi "dai falsi profeti e dai falsi maestri che
introdurranno eresie perniciose" (2, 1). L'errore non è complementare alla verità. Non si
dimentichi che, per la Chiesa, la fede è un "bene comune", una ricchezza di tutti, a cominciare
dai poveri, i più indifesi davanti ai travisamenti: dunque, difendere l'ortodossia è, per la Chiesa,
opera sociale a favore di tutti i credenti. In questa prospettiva, quando si è davanti all'errore, non
bisogna dimenticare che vanno tutelati i diritti del singolo teologo ma vanno tutelati anche i
diritti della comunità. Naturalmente tutto va sempre visto alla luce del grande ammonimento
evangelico: "verità nella carità". Anche per questo, quella scomunica in cui ancor oggi incorre
l'eretico, è considerata come "sanzione medicinale": una pena, cioè, che non vuole castigarlo
quanto correggerlo, guarirlo. Chi si convince del suo errore e lo riconosce è sempre riaccolto a
braccia aperte, come un figlio particolarmente caro, nella piena comunione della Chiesa".
Eppure, osservo, tutto questo sembra - come dire? - troppo semplice e chiaro per corrispondere
alla realtà del nostro tempo, tanto poco riconducibile a schemi prefissati.
"È vero - ammette -. In concreto le cose non sono così chiare come le definisce (né può fare
diversamente) il nuovo Codice. Quella "negazione", e quel "dubbio ostinato" di cui si parla, oggi
non li incontriamo quasi mai in forma palese. Che nonostante ciò essi esistano in un'epoca
spiritualmente complessa come la nostra è da attenderselo: solamente essi non vogliono apparire
come tali. Quasi sempre si opporranno le proprie ipotesi teologiche al Magistero, dicendo che
questo non esprime la fede della Chiesa, ma solo "l'arcaica teologia romana". Si dirà che non la
Congregazione per la fede ma essi, gli "eretici", individuano il senso "autentico" della fede
trasmessa. Dove c'è ancora un legame ecclesiale un po' più forte, ci si imbatte in un fenomeno
diverso eppure collegato: io resto ogni volta meravigliato dall'abilità di teologi che riescono a
sostenere l'esatto contrario di ciò che sta scritto in chiari documenti del Magistero. Eppure quel
rovesciamento è presentato, con abili artifici dialettici, come il significato "vero" del documento
in questione".

* * *

CAPITOLO II : UN CONCILIO DA RISCOPRIRE
Due errori contrapposti
Entrando nel vivo, il nostro discorso non poteva cominciare se non dall'evento straordinario il
Concilio Ecumenico Vaticano II - del quale nel 1985 si celebrano i vent'anni dalla chiusura.
Vent'anni che hanno cambiato la Chiesa cattolica ben più che due secoli.
Sull'importanza, la ricchezza, l'opportunità, l'imprescindibilità dei grandi documenti del Vaticano
II nessuno che sia e voglia restare cattolico nutre né può nutrire - dubbi di sorta. A cominciare,
naturalmente, dal Cardinale Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. Ricordarlo
sembra più ridicolo che superfluo: succede invece che in alcuni commenti sconcertanti al
preannuncio dei contenuti di quest'intervista, qualcuno sia sembrato avanzare dubbi in proposito.
Eppure, non solo erano ben chiare le parole che riportavamo del card. Ratzinger a ferma difesa
del Vaticano II e delle sue decisioni; ma quelle parole erano state da lui più e più volte ribadite in
ogni sede.
Tra gli innumerevoli esempi possibili, c'è un suo intervento in occasione dei dieci anni dalla
chiusura del Concilio, nel 1975. A Bressanone gli ho riletto le parole di quell'intervento,
sentendolo confermare che vi si riconosce ancora interamente.
Scriveva dunque già dieci anni prima del nostro colloquio: "il Vaticano II sta oggi sotto una luce
crepuscolare. Dalla cosiddetta ala "progressista", è ritenuto da tempo completamente superato e
di conseguenza come un fatto del passato non più rilevante per il presente. Dalla parte opposta
dall'ala "conservatrice", è ritenuto responsabile dell'attuale decadenza della Chiesa cattolica e
persino giudicato apostasia rispetto al Concilio di Trento e al Vaticano I: tanto che qualcuno si è
spinto al punto di chiederne un annullamento o una revisione che equivalga a un annullamento".
Continuava: "Nei confronti di entrambe le posizioni contrapposte, va precisato innanzitutto che il
Vaticano II è sorretto dalla stessa autorità del Vaticano I e del Tridentino: e cioè, il Papa e il
collegio dei vescovi in comunione con lui. Dal punto di vista dei contenuti va poi ricordato che il
Vaticano II si pone in stretta continuità con . i due Concili precedenti e li riprende letteralmente
in punti decisivi".
Da qui, Ratzinger derivava due conseguenze: "Primo: è impossibile per un cattolico prendere
posizione in favore del Vaticano II e contro Trento o il Vaticano I.
Chi accetta il Vaticano II, così come si è chiaramente espresso nella lettera e così come ha
chiaramente inteso nello spirito, afferma al tempo stesso l'ininterrotta tradizione della Chiesa, in
particolare anche i due Concili precedenti. E ciò valga per il cosiddetto "progressismo" almeno
nelle sue forme estreme. Secondo: Allo stesso modo è impossibile decidersi a favore di Trento e
del Vaticano I e contro il Vaticano II. Chi nega il Vaticano II nega l'autorità che regge gli altri
due Concili e così li stacca dal loro fondamento. E ciò valga per il cosiddetto "tradizionalismo",
anch'esso nelle sue forme estreme. Davanti al Vaticano II, ogni scelta di parte distrugge un tutto,
la storia stessa della Chiesa, che può esistere solo come unità indivisibile".
"Riscopriamo il Vaticano II vero"
Non è dunque il Vaticano II e i suoi documenti (è appena il caso di ricordarlo) che fanno
problema. Semmai, per molti - e Joseph Ratzinger è tra questi, non da ieri - il problema è
costituito da molte interpretazioni di quei documenti che avrebbero condotto a certi frutti
dell'epoca postconciliare.
Da parecchio tempo, il giudizio di Ratzinger su questo periodo è netto: "è incontestabile che gli
ultimi vent'anni sono stati decisamente sfavorevoli per la Chiesa cattolica. I risultati che hanno
seguito il Concilio sembrano crudelmente opposti alle attese di tutti, a cominciare da quelle di
papa Giovanni XXIII e poi di Paolo VI. I cristiani sono di nuovo minoranza, più di quanto lo
siano mai stati dalla fine dell'antichità".
Spiega così il suo giudizio severo, che ci è stato ripetuto durante il colloquio: "I Papi e i Padri
conciliari si aspettavano una nuova unità cattolica e si è invece andati incontro a un dissenso che
- per usare le parole di Paolo VI - è sembrato passare dall'autocritica all'autodistruzione. Ci si
aspettava un nuovo entusiasmo e si è invece finiti troppo spesso nella noia e nello
scoraggiamento. Ci si aspettava un balzo in avanti e ci si è invece trovati di fronte a un processo
progressivo di decadenza che si è venuto sviluppando in larga misura sotto il segno di un
richiamo a un presunto "spirito del Concilio" e in tal modo lo ha screditato".
Dunque, già dieci anni fa concludeva: "Va affermato a chiare lettere che una reale riforma della
Chiesa presuppone un inequivocabile abbandono delle vie sbagliate che hanno portato a
conseguenze indiscutibilmente negative".
Ha scritto una volta: "Il card. Julius Dópfner diceva che la Chiesa del dopo Concilio è un grande
cantiere. Ma uno spirito critico ha aggiunto che è un cantiere dove è andato perduto il progetto e
ciascuno continua a fabbricare secondo il suo gusto. Il risultato è evidente".
È però costante in lui la preoccupazione di ripetere con altrettanta chiarezza che "nelle sue
espressioni ufficiali, nei suoi documenti autentici, il Vaticano II non può essere ritenuto
responsabile di questa evoluzione che - al contrario - contraddice radicalmente sia la lettera che
lo spirito dei Padri conciliari".
Dice: "Sono convinto che i guasti cui siamo andati incontro in questi venti anni non siano dovuti
al Concilio "vero" ma allo scatenarsi, all'interno della Chiesa, di forze latenti aggressive,
centrifughe, magari irresponsabili oppure semplicemente ingenue, di facile ottimismo, di
un'enfasi sulla modernità che ha scambiato il progresso tecnico odierno con un progresso
autentico, integrale. E, all'esterno, all'impatto con una rivoluzione culturale: l'affermazione in
Occidente del ceto medio-superiore, della nuova" "borghesia del terziario" con la sua ideologia
liberal-radicale di stampo individualistico, razionalistico, edonistico".
Dunque, la sua parola d'ordine, l'esortazione a tutti i cattolici che vogliano rimanere tali, non è
certo un "tornare indietro"; bensì: "tornare ai testi autentici del Vaticano II autentico".
Per lui, mi ripete, "difendere oggi la Tradizione vera della Chiesa significa difendere il Concilio.
È anche colpa nostra se abbiamo dato talvolta il pretesto (sia alla "destra" che alla "sinistra") di
pensare che il Vaticano II sia stato uno "strappo", una frattura, un abbandono della Tradizione.
C'è invece una continuità che non permette né ritorni all'indietro né fughe in avanti; né nostalgie
anacronistiche né impazienze ingiustificate. È all'oggi della Chiesa che dobbiamo restare fedeli,
non allo ieri o al domani: e questo oggi della Chiesa sono i documenti del Vaticano II nella loro
autenticità. Senza riserve che li amputino. E senza arbitrii che li sfigurino".
Una ricetta contro l'anacronismo
Critico a "sinistra", Ratzinger si mostra inequivocabilmente severo anche a "destra", verso quel
tradizionalismo che è simboleggiato per lo più dal vecchio vescovo Marcel Lefebvre. Mi ha detto
al proposito: "Non vedo alcun futuro per una posizione che si ostina in un rifiuto di principio del
Vaticano II. Infatti essa è in se stessa illogica. Punto di partenza di questa tendenza è infatti la più
rigida fedeltà all'insegnamento, in particolare di Pio IX e di Pio X e, ancor più a fondo, del
Vaticano I e la sua definizione del primato del Papa. Ma perché i Papi sino a Pio XII e non oltre?
Forse che l'obbedienza alla Santa Sede è divisibile secondo le annate o secondo la consonanza di
un insegnamento alle proprie convinzioni già stabilite?".
Resta però il fatto, osservo, che se da Roma si è intervenuti "a sinistra", non si è sinora
intervenuti "a destra" con lo stesso vigore.
Dice, per rispondere: "I seguaci di mons. Lefebvre affermano il contrario. Essi sostengono che,
mentre si è intervenuti subito, con la pena severa della sospensione, nei confronti di un
benemerito arcivescovo a riposo, si tollera in maniera incomprensibile ogni forma di deviazione
dalla parte opposta. Non voglio qui impelagarmi in una polemica sulla maggiore o minore
severità verso l'una o l'altra tendenza. Del resto i due tipi di opposizione presentano
caratteristiche molto differenti. Le deviazioni "a sinistra" rappresentano senza dubbio una vasta
corrente del pensiero e dell'iniziativa contemporanea nella Chiesa, tuttavia quasi da nessuna parte
hanno trovato una forma comune giuridicamente definibile. Al contrario, il movimento
dell'arcivescovo Lefebvre è probabilmente molto meno ampio dal punto di vista numerico,
tuttavia è dotato di un ordinamento giuridico ben definito, di seminari, di istituzioni religiose,
ecc. È chiaro che si deve fare tutto il possibile perché questo movimento non dia origine a uno
scisma in senso proprio, che si avrebbe qualora mons. Lefebvre decidesse di consacrare un
vescovo. Grazie a Dio finora egli non ha fatto ciò, nella speranza di una riconciliazione. Oggi,
nell'ambito ecumenico, si deplora che nel passato non si sia fatto di più per impedire le divisioni
via via emergenti attraverso una maggiore disponibilità alla riconciliazione e una comprensione
per i diversi gruppi. Ebbene, ciò dovrebbe valere come massima di comportamento anche per noi
nel tempo presente. Dobbiamo impegnarci per la riconciliazione, fin tanto che e per quanto essa
è possibile, e usare tutte le opportunità concesseci a questo scopo".
Ma Lefebvre, obietto, ha ordinato e continua a ordinare dei sacerdoti.
"Per il diritto della Chiesa sono ordinazioni illecite ma non invalide. C'è da considerare anche
l'aspetto umano di questi giovani che, per la Chiesa, sono preti "veri" anche se in una situazione
irregolare. Il punto di partenza e l'orientamento dei singoli sono certamente differenziati. Alcuni
sono stati fortemente, influenzati dalla loro situazione di famiglia e hanno accettato la decisione
di questa. In altri giocano un certo ruolo delusioni nei confronti della Chiesa attuale, delusioni
che li hanno spinti all'amarezza e alla negazione. Altri ancora desidererebbero collaborare
pienamente alla normale attività pastorale della Chiesa, e tuttavia nella loro scelta si sono lasciati
determinare dalla insoddisfacente situazione che si è venuta a creare nei seminari di alcuni paesi.
Quindi: così come si trovano taluni che in qualche modo hanno subìto la divisione, vi sono anche
molti che sperano nella riconciliazione e solo in tale speranza rimangono nella comunità
sacerdotale di mons. Lefebvre".
La sua ricetta per "smontare" il caso Lefebvre e altre resistenze anacronistiche sembra
riecheggiare quella degli ultimi Papi, da Paolo VI a oggi: "Simili situazioni così assurde hanno
potuto reggere sino ad ora proprio nutrendosi dell'arbitrarietà e dell'imprudenza di certe
interpretazioni postconciliari di segno opposto. E un ulteriore impegno a mostrare il volto vero
del Concilio: così si potranno troncare queste proteste false".
Spirito e anti-spirito
Ma, dico, quanto al Concilio "vero", i pareri sono discordi: a parte casi di quel "neotrionfalismo"
irresponsabile cui accennava e che si rifiuta di guardare la realtà, si è in generale
d'accordo che la situazione attuale della Chiesa sia di difficoltà. Ma le opinioni si dividono sia
per la diagnosi che per la terapia. La diagnosi di alcuni è che gli aspetti della difficoltà, se non
della crisi, non sono che benefiche febbri di un periodo di crescita; per altri sono invece sintomi
di una malattia grave. Quanto alla terapia, gli uni chiedono una maggiore applicazione del
Vaticano II, anche al di là dei testi; gli altri una dose minore di riforme e cambiamenti. Come
scegliere? A chi dare ragione?
Risponde: "Come chiarirò ampiamente, la mia diagnosi è che si tratti di un'autentica crisi che va
curata e guarita. Così, confermo che per questa guarigione il Vaticano II è una realtà da accettare
in pieno. A condizione però che non sia considerato come un punto di partenza dal quale
allontanarsi correndo, bensì come una base sulla quale saldamente costruire. Oggi, poi, stiamo
scoprendo la sua funzione profetica: alcuni testi del Vaticano II al momento della loro
proclamazione sembravano davvero in anticipo sui tempi che allora si vivevano. Sono venute poi
rivoluzioni culturali e terremoti sociali che i Padri non potevano assolutamente prevedere ma che
hanno mostrato come quelle loro risposte - allora anticipate - erano quelle che ci volevano in
seguito. Ecco dunque che ritornare ai documenti è di particolare attualità: ci danno strumenti
giusti per affrontare i problemi d'oggi. Siamo chiamati a ricostruire la Chiesa non malgrado, ma
grazie al Concilio vero".
A questo Concilio "vero" , stando ancora alla sua diagnosi, "già durante le sedute e poi via via
sempre di più nel periodo successivo si contrappose un sedicente "spirito del Concilio" che in
realtà ne è un vero "anti-spirito". Secondo questo pernicioso anti-spirito - Konzils-Ungeist per
dirlo in tedesco - tutto ciò che è "nuovo" (o presunto tale: quante antiche eresie sono riapparse in
questi anni, presentate come novità!) sarebbe sempre e comunque migliore di ciò che c'è stato o
c'è. E l'anti-spirito secondo il quale la storia della Chiesa sarebbe da far cominciare dal Vaticano
II, visto come una specie di punto zero".
"Non rottura ma continuità"
Su questo mi conferma che vuol essere ben preciso: "Bisogna decisamente opporsi a questo
schematismo di un prima e di un dopo nella storia della Chiesa, del tutto ingiustificato dagli
stessi documenti del Vaticano II che non fanno che riaffermare la continuità del cattolicesimo.
Non c'è una Chiesa "pre" o "post", conciliare: c'è una sola e unica Chiesa che cammina verso il
Signore, approfondendo sempre di più e capendo sempre meglio il bagaglio di fede che Egli
stesso le ha affidato. In questa storia non ci sono salti, non ci sono fratture, non c'è soluzione di
continuità. Il Concilio non intendeva affatto introdurre una divisione del tempo della Chiesa".
Continuando nella sua analisi, ricorda che "l'intenzione del Papa che prese l'iniziativa del
Vaticano II, Giovanni XXIII, e di quello che lo continuò fedelmente, Paolo VI, non era affatto di
mettere in discussione un depositum fidei che, anzi, entrambi davano per indiscusso, ormai
messo al sicuro".
Vuol forse, come alcuni fanno, sottolineare l'intenzione soprattutto pastorale più che dottrinale
del Vaticano II?
"Voglio dire che il Vaticano II non voleva di certo "cambiare" la fede, ma ripresentarla in modo
efficace. Voglio dire inoltre che il dialogo con il mondo è possibile solo sulla base di una identità
chiara: che ci si può, ci si deve "aprire", ma solo quando si è acquisita la propria identità e si ha
quindi qualcosa da dire. L'identità ferma è condizione dell'apertura. Così intendevano i Papi e i
Padri conciliari, alcuni dei quali certamente indulsero a un ottimismo che noi, a partire dalla
nostra prospettiva attuale, giudicheremmo come poco critico e poco realistico. Ma se hanno
pensato di potersi aprire con fiducia a quanto c'è di positivo nel mondo moderno, è proprio
perché erano sicuri della loro identità, della loro fede. Mentre da parte di molti cattolici c'è stato
in questi anni uno spalancarsi senza filtri e freni al mondo, cioè alla mentalità moderna
dominante, mettendo nello stesso tempo in discussione le basi stesse del depositum fidei che per
molti non erano più chiare".
Continua: "Il Vaticano II aveva ragione di auspicare una revisione dei rapporti tra Chiesa e
mondo. Ci sono infatti dei valori che, anche se nati fuori della Chiesa, possono trovare il loro
posto - purché vagliati e corretti - nella sua visione. In questi anni si è adempiuto a questo
compito. Ma mostrerebbe di non conoscere né la Chiesa né il mondo chi pensasse che queste due
realtà possono incontrarsi senza conflitto o addirittura identificarsi".
Sta forse proponendo di ritornare alla vecchia spiritualità di "opposizione al mondo"?
"Non sono i cristiani che si oppongono al mondo. È il mondo che si oppone a loro quando è
proclamata la verità su Dio, su Cristo, sull'uomo. Il mondo si rivolta quando il peccato e la grazia
sono chiamati con il loro nome. Dopo la fase delle "aperture" indiscriminate, è tempo che il
cristiano ritrovi la consapevolezza di appartenere a una minoranza e di essere spesso in contrasto
con ciò che è ovvio, logico, naturale per quello che il Nuovo Testamento chiama - e non certo in
senso positivo - "lo spirito mondano". E' tempo di ritrovare il coraggio dell'anticonformismo, la
capacità di opporsi, di denunciare molte delle tendenze della cultura circostante, rinunciando a
certa euforica solidarietà postconciliare".
Restaurazione?
A questo punto - anche qui, come durante tutto il colloquio, il registratore frusciava nel silenzio
della stanza sul giardino del seminario - ho posto al card. Ratzinger la domanda la cui risposta ha
suscitato reazioni vivacissime nel mondo intero. Reazioni dovute anche ai modi incompleti con
cui è stata spesso riferita e al contenuto emotivo della parola in gioco ("restaurazione") che rinvia
a epoche storiche certamente non ripetibili né - a nostro avviso, almeno - neppure auspicabili.
Ho chiesto dunque al Prefetto della Fede: ma allora, riguardando quanto lei dice, sembrerebbero
non avere torto coloro che affermano che la gerarchia della Chiesa intenderebbe chiudere la
prima fase del dopo Concilio; e che (seppure ritornando non certo al pre-Concilio ma ai
documenti "autentici" del Vaticano II) la stessa gerarchia intenderebbe procedere a una sorta di
"restaurazione".
Ecco la risposta testuale del Cardinale: "Se per restaurazione, si intende un tornare indietro,
allora nessuna restaurazione è possibile. La Chiesa va avanti verso il compimento della storia,
guarda innanzi al Signore che viene. No: indietro non si torna né si può tornare. Nessuna
"restaurazione", dunque, in questo senso. Ma se per "restaurazione" intendiamo la ricerca di un
nuovo equilibrio (die Suche auf ein neues Gleichgewicht) dopo le esagerazioni di un'apertura
indiscriminata al mondo, dopo le interpretazioni troppo positive di un mondo agnostico e ateo;
ebbene, allora una "restaurazione" intesa in questo senso (un rinnovato equilibrio, cioè, degli
orientamenti e dei valori all'interno della totalità cattolica) è del tutto auspicabile ed è del resto
già in atto nella Chiesa. In questo senso si può dire che è chiusa la prima fase dopo il Vaticano
II" (1).
Effetti imprevisti
E che per lui, come mi spiega, "la situazione è cambiata, il clima è molto peggiorato rispetto a
quello che sorreggeva una euforia i cui frutti stanno davanti a noi, ammonendoci. Il cristiano è
tenuto a quel realismo che non è che attenzione completa ai segni del tempo. Per questo escludo
che si possa pensare (irrealisticamente) di riprendere la strada come se il Vaticano II non ci fosse
mai stato. Molti degli effetti concreti quali li vediamo ora non corrispondono alle intenzioni dei
Padri conciliari, ma non possiamo certo dire: "Sarebbe stato meglio che non ci fosse stato". Il
card. John Henry Newman, lo storico dei concili, il grande studioso passato dall'anglicanesimo al
cattolicesimo, diceva che il concilio è sempre un rischio per la Chiesa, che bisogna dunque
convocarlo solo per poche cose e non protrarlo troppo a lungo. È vero che le riforme esigono
tempo, pazienza, espongono a dei rischi, ma non è lecito neppure dire: "Non facciamole perché
sono pericolose". Credo anzi che il tempo vero del Vaticano II non sia ancora venuto, che la sua
ricezione autentica non sia ancora cominciata: i suoi documenti sono stati subito sepolti da un
cumulo di pubblicazioni spesso superficiali o francamente inesatte. La rilettura della lettera dei
documenti potrà farci riscoprire il loro vero spirito. Se riscoperti così nella loro verità, quei
grandi testi potranno permetterci di capire ciò che è successo e di reagire con nuovo vigore. Lo
ripeto: il cattolico che con lucidità, e dunque con sofferenza, vede i guasti prodotti nella sua
Chiesa dalle deformazioni del Vaticano II, in quello stesso Vaticano II deve trovare la possibilità
della ripresa. Il Concilio è suo, non è di coloro che vogliono continuare su una strada i cui esiti
sono stati catastrofici; non è di coloro che non a caso non sanno più che farsene del Vaticano II
al quale guardano come a un "fossile dell'era clericale"".
È stato osservato, dico, che il Vaticano II è un unicum anche perché è forse il primo Concilio
della storia convocato non sotto la spinta di esigenze pressanti, di crisi, ma in un momento che
sembrava di tranquillità per la vita ecclesiale. Le crisi sono venute dopo, e non solo nella Chiesa,
ma nella società tutta intera. Non crede si possa dire che la Chiesa avrebbe dovuto fronteggiare
in ogni caso quelle rivoluzioni culturali ma che, senza il Concilio, la sua struttura sarebbe stata
più rigida e i danni avrebbero potuto essere più gravi? La sua struttura postconciliare più
flessibile, elastica, non ha forse potuto meglio assorbire l'impatto, pur pagando uno scotto
comunque necessario? "impossibile dirlo - risponde -. La storia, soprattutto la storia della Chiesa,
che Dio guida attraverso percorsi misteriosi, non si fa con i "se", dobbiamo accettarla così come
essa è. In quell'inizio degli anni Sessanta stava per apparire sulla scena la generazione del
dopoguerra, quella che non aveva partecipato direttamente alla ricostruzione, che trovava un
mondo già ricostruito e cercava dunque altrove motivi di impegno, di rinnovamento. C'era
un'atmosfera generale di ottimismo, di fiducia nel progresso. Tutti poi, nella Chiesa,
condividevano l'attesa di un'evoluzione tranquilla della sua dottrina. Non bisogna dimenticare
che anche il mio predecessore al S. Uffizio, card. Ottaviani, appoggiava il progetto di un
Concilio ecumenico. Dopo l'annuncio della sua convocazione, dato da Papa Giovanni, la Curia
romana lavorò insieme ai rappresentanti più stimati dell'episcopato mondiale a preparare quegli
schemi che poi furono accantonati dai Padri conciliari come "troppo teorici, manualistici e
troppo poco pastorali". Papa Giovanni non aveva messo in conto la possibilità di un rifiuto: si
attendeva una votazione rapida e senza difficoltà di questi progetti che egli aveva letti e accolti
tutti con favore. È chiaro che nessuno di quei testi voleva cambiare la dottrina; si trattava
piuttosto di ripresentarla, al più di giungere a un chiarimento in qualche punto non ancora
precisamente definito e in tal modo di svilupparla ulteriormente. Anche il rifiuto di questi testi da
parte dei Padri conciliari non riguardava la dottrina come tale, ma piuttosto il modo insufficiente
della sua presentazione e certamente anche alcune definizioni che non si erano mai avute fino a
quel momento e che anche ora non si ritengono necessarie. Bisogna dunque riconoscere che il
Vaticano II sin da subito non prese la piega che Giovanni XXIII prevedeva (si ricordi che Paesi
come l'Olanda, la Svizzera, gli Stati Uniti erano vere roccaforti del tradizionalismo e della fedeltà
a Roma!). E bisogna anche riconoscere che - almeno sinora - non è stata esaudita la preghiera di
Papa Giovanni perché il Concilio significasse per la Chiesa un nuovo balzo in avanti, una vita e
un'unità rinnovate".
La speranza dei "movimenti"
Ma, chiedo inquieto, la sua immagine negativa della realtà della Chiesa del dopo Concilio non
lascia spazio a qualche elemento positivo?
"Paradossalmente - risponde - è proprio il negativo che può trasformarsi in positivo. Molti
cattolici, in questi anni, hanno fatto l'esperienza dell'esodo, hanno vissuto i risultati del
conformismo alle ideologie, hanno provato che significhi attendersi dal mondo redenzione,
libertà, speranza. Che aspetto avesse una vita senza Dio, un mondo senza Dio, finora lo si era
saputo solo in teoria. Ora lo si è constatato nella realtà. È a partire da questo vuoto che noi
possiamo nuovamente scoprire la ricchezza della fede, la sua indispensabilità. Per molti, questi
anni sono stati come un'ardua purificazione, quasi una via attraverso il fuoco che ha aperto la
possibilità nuova di una fede più profonda".
"Non dimenticando mai - continua - che ogni concilio è prima di tutto una riforma dal vertice che
deve poi espandersi alla base. Ogni concilio, cioè, per dare davvero frutto, deve essere seguito da
un'ondata di santità. Così è stato dopo Trento che proprio grazie a questo raggiunse il suo scopo
di vera riforma. La salvezza per la Chiesa viene dal suo interno, ma non è affatto detto che venga
dai decreti della gerarchia. Dipenderà da tutti i cattolici, chiamati a dargli vita, se il Vaticano II e
i suoi esiti saranno considerati un periodo luminoso per la storia della Chiesa. Come ha ripetuto
di frequente Giovanni ,Paolo II: "La Chiesa di oggi non ha bisogno di nuovi riformatori. La
Chiesa ha bisogno di nuovi santi"".
Non vede dunque, insisto, altri segni positivi oltre a quelli che vengono dal negativo di questo
periodo della storia ecclesiale?
"Certamente ne vedo. Non mi soffermo qui a parlare dello slancio delle giovani chiese (come
quella della Corea del Sud) o della vitalità delle chiese perseguitate, perché ciò non può essere
ricondotto immediatamente al Vaticano II; così come non possono essere direttamente attribuiti a
esso i fenomeni di crisi. Ciò che apre alla speranza a livello di Chiesa universale - e ciò avviene
proprio nel cuore della crisi della Chiesa nel mondo occidentale - è il sorgere di nuovi
movimenti, che nessuno ha progettato, ma che sono scaturiti spontaneamente dalla vitalità
interiore della fede stessa. Si manifesta in essi - per quanto sommessamente - qualcosa come una
stagione di pentecoste nella Chiesa".
A che pensa in particolare?
"Mi riferise o al Movimento carismatico, ai Cursillos, al Movimento dei Focolari, alle Comunità
neocatecumenali, a Comunione e Liberazione, ecc. Certamente tutti questi movimenti sollevano
anche qualche problema; comportano anche, in misura maggiore o minore, dei pericoli. Ma
questo accade per ogni realtà vitale. In numero crescente, mi capita ora di incontrare gruppi di
giovani, nei quali c'è una cordiale adesione a tutta la fede della Chiesa. Giovani che vogliono
vivere pienamente questa fede e che portano in loro un grande slancio missionario. Tutta
l'intensa vita di fede presente in questi movimenti non implica una fuga nell'intimismo o un
riflusso nel privato, ma semplicemente una piena e integrale cattolicità. La gioia della fede che vi
si sperimenta ha in sé qualcosa di contagioso. E qui crescono ora in maniera spontanea nuove
vocazioni al sacerdozio ministeriale e alla vita religiosa".
Nessuno ignora però che tra i problemi suscitati da questi nuovi movimenti c'è anche il loro
inserimento nella pastorale generale. La sua risposta è pronta: "Ciò che stupisce è che tutto
questo fervore non è stato elaborato da alcun ufficio di programmazione pastorale, ma è apparso
in qualche modo da solo. Questo dato di fatto ha come conseguenza che gli uffici di
programmazione - proprio quando vogliono essere molto "progressisti" - non sanno che cosa fare
con loro: essi non rientrano nel loro piano. Così, mentre sorgono tensioni nell'inserimento dei
movimenti all'interno delle istituzioni attuali, non vi è assolutamente nessuna tensione con la
Chiesa gerarchica come tale".
Un giudizio il suo, dunque, pieno di simpatia. Il cardinale lo conferma: "Emerge qui una nuova
generazione della Chiesa, a cui guardo con grande speranza. Trovo meraviglioso che lo Spirito
sia ancora una volta più forte dei nostri programmi e valorizzi ben altro da ciò che noi ci
eravamo immaginati.
In questo senso il rinnovamento è sommessamente ma efficacemente in cammino. Vecchie
forme, che si erano arenate nell'auto-contraddizione e nel gusto della negazione, escono di scena
e il nuovo sta già facendosi strada. Naturalmente esso non ha ancora piena voce nel grande
dibattito delle idee dominanti. Cresce nel silenzio. Il nostro compito - in quanto incaricati di un
ministero nella Chiesa e in quanto teologi - è quello di tenergli aperte le porte di preparargli lo
spazio. Infatti le tendenze, che attualmente sono ancora prevalenti, si muovono in tutt'altra
direzione. Se si guarda proprio a questa "situazione meteorologica generale" dello Spirito, si
deve parlare, come facevamo prima, di una crisi della fede e della Chiesa. Solo se noi ci poniamo
davanti ad essa senza pregiudizi, potremo anche superarla".

(1) In molti commenti giornalistici a questa risposta, il termine "restaurazione" non è stato colto
con tutte le precisazioni necessarie qui riportate. Pertanto, interpellato da un giornale, il card.
Ratzinger dichiarava con una lettera quanto segue:
"Innanzitutto voglio semplicemente ricordare quel che ho detto veramente: non si dà nessun
ritorno al passato, una restaurazione così intesa non solo è impossibile, ma non è neppure
auspicabile. La Chiesa va avanti verso il compimento della storia, guarda innanzi al Signore che
viene. Se però il termine "restaurazione" si intende secondo il suo contenuto semantico, vale a
dire come recupero di valori perduti all'interno di una nuova totalità, allora direi che è proprio
questo il compito che si impone oggi, nel secondo periodo del post-concilio. Tuttavia la parola
"restaurazione" per noi uomini contemporanei è determinata linguisticamente in modo tale che
risulta difficile attribuirle questo significato. Essa in realtà vuol letteralmente dire la stessa cosa
della parola "riforma", termine quest'ultimo che per noi suona dei tutto diverso.
"Forse posso chiarire la cosa con un esempio tratto dalla storia. Per me Carlo Borromeo è
l'espressione classica di una vera riforma, cioè di un rinnovamento che conduce in avanti
proprio perché insegna a vivere in modo nuovo i valori permanenti, tenendo presente la totalità
del fatto cristiano e la totalità dell'uomo. Si può certo dire che Carlo ha ricostruito
("restaurato") la Chiesa cattolica, la quale anche dalle parti di Milano era ormai pressoché
distrutta, senza per questo esser ritornato al medioevo; al contrario egli ha creato una forma
moderna di Chiesa. Quanto poco "restauratrice" fosse una tale "riforma" lo si vede ad esempio
dal fatto che Carlo soppresse un ordine religioso ormai al tramonto ed assegnò i suoi beni a
nuove comunità vive. Chi oggi possiede un coraggio simile, da dichiarare definitivamente
appartenente al passato ciò che è interiormente morto (e continua a vivere solo esteriormente) e
da affidarlo con chiarezza alle energie del tempo nuovo? Spesso nuovi fenomeni di risveglio
cristiano vengono osteggiati proprio da parte di sedicenti riformatori, i quali a loro volta
difendono spasmodicamente delle istituzioni che continuano ad esistere ormai solo in
contraddizione con se stesse.
"In Carlo Borromeo si può dunque vedere quel che io ho inteso dire con "riforma" o
"restaurazione" nel suo significato originario: vivere protesi verso una totalità, vivere di un "sì"
che riconduce all'unità le forze reciprocamente in conflitto dell'esistenza umana; un "sì", che
conferisce loro un senso positivo all'interno della totalità. In Carlo si può anche vedere qual è il
presupposto essenziale per un simile rinnovamento. Carlo poté convincere altri perché lui stesso
era un uomo convinto. Poté resistere con la sua certezza in mezzo alle contraddizioni del suo
tempo perché egli stesso le viveva. E le poteva vivere perché era cristiano nel più profondo
senso della parola, cioè era totalmente centrato su Cristo. Ristabilire questa integrale relazione
a Cristo è quel che veramente conta. Di questa relazione integrale a Cristo non si può
convincere nessuno solo argomentando; la si può però vivere e attraverso ciò renderla credibile
agli altri, invitare gli altri a condividerla".

* * *

CAPITOLO TERZO
ALLA RADICE DELLA CRISI: L'IDEA DI CHIESA
La facciata e il mistero
Crisi, dunque. Ma dov'è, a suo parere, il principale punto di rottura, la crepa che, allargandosi,
minaccia la stabilità dell'intero edificio della fede cattolica?
Per il cardinal Ratzinger non ci sono dubbi: l'allarme va focalizzato innanzitutto sulla crisi del
concetto di Chiesa, sull'ecclesiologia: "Qui è l'origine
di buona parte degli equivoci o dei veri e propri errori che insidiano sia la teologia che l'opinione
comune cattolica".
Spiega: "La mia impressione è che tacitamente si vada perdendo il senso autenticamente
cattolico della realtà "Chiesa" senza che lo si respinga espressamente. Molti non credono più che
si tratti di una realtà voluta dal Signore stesso. Anche presso alcuni teologi, la Chiesa appare
come una costruzione umana, uno strumento creato da noi e che quindi noi stessi possiamo
riorganizzare liberamente a seconda delle esigenze del momento. Si è cioè insinuata in molti
modi nel pensiero cattolico, e perfino nella teologia cattolica, una concezione di Chiesa che non
si può neppure chiamare protestante, in senso " classico ". Alcune idee ecclesiologiche correnti
vanno collegate piuttosto al modello di certe "chiese libere" del Nord America, dove si
rifugiavano i credenti per sfuggire al modello oppressivo di "chiesa di Stato" prodotto in Europa
dalla Riforma. Quei profughi, non credendo più nella Chiesa come voluta da Cristo e volendo
nello stesso tempo sfuggire alla chiesa di stato, creavano la loro chiesa, un'organizzazione
strutturata secondo i loro bisogni".
Per i cattolici, invece?
"Per i cattolici - spiega - la Chiesa è composta sì da uomini che ne organizzano il volto esterno;
ma, dietro di questo, le strutture fondamentali sono volute da Dio stesso e quindi sono intangibili.
Dietro la facciata umana sta il mistero di una realtà sovrumana sulla quale il riformatore, il
sociologo, l'organizzatore non hanno alcuna autorità per intervenire. Se la Chiesa è vista invece
come una costruzione umana, come un nostro artifizio, anche i contenuti della fede finiscono per
diventare arbitrari: la fede, infatti, non ha più uno strumento autentico, garantito, attraverso il
quale esprimersi. Così, senza una visione che sia anche soprannaturale e non solo sociologica
del mistero della Chiesa, la stessa cristologia perde il suo riferimento con il Divino: a una
struttura puramente umana finisce col corrispondere un progetto umano. Il Vangelo diventa il
progetto-Gesù, il progetto liberazione-sociale, o altri progetti solo storici, immanenti, che
possono sembrare anche religiosi in apparenza, ma sono ateistici nella sostanza".
Durante il Vaticano II si è molto insistito - negli interventi di alcuni vescovi, nelle relazioni dei
loro consulenti teologici, ma anche nei documenti finali - sul concetto di Chiesa come "popolo di
Dio".
Una concezione che è poi sembrata dominante nelle ecclesiologie post-conciliari.
"È vero, c'è stata e c'è questa insistenza, la quale, però, nei testi conciliari, è in equilibrio con
altre che la completano; un equilibrio che è andato perduto presso molti teologi. Eppure, a
differenza di quanto pensano costoro, in questo modo si rischia di tornare indietro piuttosto che
andare avanti. Qui c'è addirittura il pericolo di abbandonare il Nuovo Testamento per ritornare
nell'Antico. "Popolo di Dio" è infatti, per la Scrittura, Israele nel suo rapporto di preghiera e di
fedeltà con il Signore. Ma limitarsi unicamente a quell'espressione per definire la Chiesa,
significa non indicare del tutto la concezione che ne ha il Nuovo Testamento. Qui, infatti, Il
popolo di Dio, rinvia sempre all'elemento veterotestamentario della Chiesa, alla sua continuità
con Israele. Ma la Chiesa riceve la sua connotazione neotestamentaria più evidente nel concetto
di " Corpo di Cristo ". Si è Chiesa e si entra in essa non attraverso appartenenze sociologiche,
bensì attraverso l'inserzione nel corpo stesso del Signore, per mezzo del battesimo e della
eucaristia. Dietro il concetto oggi così insistito di Chiesa come solo "popolo di Dio" stanno
suggestioni di ecclesiologie le quali tornano di fatto all'Antico Testamento; e anche, forse,
suggestioni politiche, partitiche, collettivistiche. In realtà, non c'è concetto davvero
neotestamentario, cattolico, di Chiesa senza rapporto diretto e vitale non solo con la sociologia
ma prima di tutto con la cristologia. La Chiesa non si esaurisce nel "collettivo" dei credenti:
essendo il " Corpo di Cristo " è ben di più della semplice somma dei suoi membri".
Per il Prefetto, la gravità della situazione è accentuata dal fatto che - su un punto così vitale come
l'ecclesiologia - non sembra possibile intervenire in modo risolutivo mediante documenti.
Nonostante anche questi non siano mancati, a suo avviso sarebbe necessario un lavoro in
profondità: "Bisogna ricreare un clima autenticamente cattolico, ritrovare il senso della Chiesa
come Chiesa del Signore, come spazio della reale presenza di Dio nel mondo. Quel mistero di
cui parla il Vaticano II quando scrive quelle parole terribilmente impegnative e che pure
corrispondono a tutta la tradizione cattolica: "La Chiesa, cioè il regno di Cristo già presente in
mistero" (Lumen Gentium, n. 3)".
"Non è nostra, è Sua"
A conferma della differenza "qualitativa" della Chiesa rispetto a qualunque organizzazione
umana, ricorda che "solo la Chiesa, in questo mondo, supera anche il limite invalicabile per
eccellenza dell'uomo: il confine della morte. Vivi o morti che siano, i membri della Chiesa
vivono congiunti nella stessa vita che promana dall'inserzione di tutti nello stesso Corpo di
Cristo".
È la realtà, osservo, che la teologia cattolica ha sempre chiamato communio sanctorum, la
comunione dei "santi"; dove "santi" sono tutti i battezzati.
"Certo - dice -. Ma non bisogna dimenticare che l'espressione latina non significa solo l'unione
dei membri della Chiesa, vivi o defunti che siano. Communio sanctorum significa anche avere in
comune le "cose sante", cioè la grazia dei sacramenti che sgorgano dal Cristo morto e risorto. È
anche questo legame misterioso eppure reale, è questa unione nella Vita che fa sì che la Chiesa
non sia la nostra Chiesa, della quale potremmo disporre a piacimento; è, invece, la Sua Chiesa.
Tutto ciò che è solo nostra Chiesa non è Chiesa nel senso profondo, appartiene al suo aspetto
umano, dunque accessorio, transitorio".
La dimenticanza o il rifiuto attuali di questo concetto cattolico di Chiesa, chiedo, comporta
conseguenze anche nel rapporto con la gerarchia ecclesiale?
"Certo. E tra le più gravi. È qui l'origine della caduta del concetto autentico di "obbedienza"; la
quale, secondo alcuni, non sarebbe neppur più una virtù cristiana, ma un retaggio di un passato
autoritario, dogmatico, quindi da superare. Se la Chiesa, infatti, è la nostra Chiesa, se la Chiesa
siamo soltanto noi, se le sue strutture non sono quelle volute da Cristo, allora non si concepisce
più l'esistenza di una gerarchia come servizio ai battezzati e stabilita dal Signore stesso. Si rifiuta
il concetto di un'autorità voluta da Dio, un'autorità che ha la sua legittimazione in Dio e non -
come avviene nelle strutture politiche - nel consenso della maggioranza dei membri
dell'organizzazione. Ma la Chiesa di Cristo non è un partito, non è un'associazione, non è un
club: la sua struttura profonda e ineliminabile non è democratica ma sacramentale, dunque
gerarchica; perché la gerarchia basata sulla successione apostolica è condizione indispensabile
per raggiungere la forza, la realtà del sacramento. L'autorità, qui, non si basa su votazioni a
maggioranza; si basa sull'autorità del Cristo stesso, che ha voluto parteciparla a uomini che
fossero suoi rappresentanti sino al suo ritorno definitivo. Solo rifacendosi a questa visione sarà
possibile riscoprire la necessità e la fecondità cattolica di Chiesa dell'obbedienza alle sue
legittime gerarchie".
Per una vera riforma
Eppure, dico, accanto all'espressione tradizionale communio sanctorum (in quel significato pieno
sottolineato), c'è un'altra frase latina che ha sempre avuto diritto di cittadinanza tra i cattolici:
Ecclesia semper reformanda, la Chiesa è sempre bisognosa di riforma. Il Concilio è stato chiaro
al proposito: "Benché la Chiesa, per la virtù dello Spirito Santo, sia rimasta sempre Sposa fedele
del suo Signore e non abbia mai cessato di essere segno di salvezza nel mondo, essa tuttavia non
ignora affatto che tra i suoi membri, sia chierici che laici, nella lunga serie dei secoli passati, non
sono mancati quelli che non furono fedeli allo Spirito di Dio. E sa bene, la Chiesa, quanto
distanti siano tra loro il messaggio che essa reca e l'umana debolezza di coloro cui è affidato il
Vangelo. Qualunque sia il giudizio che la storia dà di tali difetti, noi dobbiamo esserne
consapevoli e combatterli con forza e con coraggio, perché non ne abbia danno la diffusione del
Vangelo" (Gaudium et Spes, n. 43). Pur rispettandone il mistero, non siamo dunque chiamati a
uno sforzo di cambiamento della Chiesa?
"Certo - replica - nelle sue strutture umane la Chiesa è semper reformanda. Bisogna però
intendersi in che modo e sino a che punto. Il testo citato del Vaticano II ci dà già una indicazione
ben precisa, parlando della "fedeltà della Sposa di Cristo" che non è messa in questione che dalle
infedeltà dei suoi membri. Ma, per spiegarmi ancor meglio, mi rifarò alla formula latina che la
liturgia romana faceva pronunciare al celebrante in ogni messa, al "segno di pace" che precede la
comunione. Diceva dunque quella preghiera: "Domine Jesu Christe ( ... ), ne respicias peccata
mea, sed fidem Ecclesiae tuae"; cioè: "Signore Gesù Cristo, non guardare ai miei peccati, ma alla
fedeltà della tua Chiesa". Adesso, in molte traduzioni (ma anche nel testo latino rinnovato),
dell'ordinario della messa la formula è stata portata dall'io al noi: "Non guardare ai nostri
peccati". Un simile spostamento sembra irrilevante ed è invece di grande rilievo". Perché
annettere tanta importanza al passaggio .dall'io al noi? "Perché è essenziale che l'invocazione di
essere perdonati sia pronunciata in prima persona: è un richiamo a quella necessità di
ammissione personale della propria colpa, a quella indispensabilità della conversione personale
che oggi è invece molto spesso nascosta nella massa anonima del "noi", del gruppo, del
"sistema", dell'umanità; dove tutti peccano e, dunque, alla fine, nessuno sembra avere peccato. In
questo modo si dissolve il senso della responsabilità, delle colpe di ciascuno. Naturalmente si
può intendere in maniera corretta la nuova versione del testo, poiché nel peccato si intrecciano
sempre l'io e il noi. L'importante è che, nella nuova accentuazione del noi, l'io non scompaia".
Questo punto, osservo, è importante, varrà la pena di ritornarci sopra; ma torniamo per ora dove
eravamo: al legame tra l'assioma Ecclesia semper reformanda e l'invocazione a Cristo di perdono
personale.
"D'accordo, torniamo a quella preghiera che la sapienza liturgica inseriva al momento più
solenne della messa, quello che precede l'unione fisica, intima, con il Cristo fattosi pane e vino.
La Chiesa presumeva che chiunque celebrasse l'eucaristia avesse bisogno di dire: "Io ho peccato;
non guardare, Signore, ai miei peccati". Era l'invocazione obbligatoria di ogni sacerdote: i
vescovi, il Papa stesso alla pari dell'ultimo prete dovevano pronunciarla nella loro messa
quotidiana. E anche i laici, tutti gli altri membri della Chiesa, erano chiamati a unirsi a quel
riconoscimento di colpa. Dunque tutti nella Chiesa, senza alcuna eccezione, dovevano
confessarsi peccatori, invocare il perdono, mettersi quindi sulla via della loro vera riforma. Ma
questo non significava affatto che fosse peccatrice anche la Chiesa in quanto tale. La Chiesa - lo
abbiamo visto - è una realtà che supera, misteriosamente e insieme infinitamente, la somma dei
suoi membri. Infatti, per ottenere il perdono del Cristo, si opponeva il mio peccato alla fede della
Sua Chiesa".
E oggi?
"Oggi questo sembra dimenticato da molti teologi, da molti ecclesiastici, da molti laici. Non c'è
stato solo il passaggio dall'io al noi, dalla responsabilità personale a quella collettiva. Si ha
addirittura l'impressione che alcuni, magari inconsciamente, rovescino l'invocazione,
intendendola come: "non guardare ai peccati della Chiesa ma alla mia fede" Se davvero questo
avviene le conseguenze sono gravi: le colpe dei singoli diventano le colpe della Chiesa e la fede
è ridotta a un fatto personale, al mio modo di comprendere e di riconoscere Dio e le sue richieste.
Temo proprio che questo sia oggi un modo molto diffuso di sentire e di ragionare: è un segno
ulteriore di quanto la comune coscienza cattolica si sia allontanata in molti punti dalla retta
concezione della Chiesa".
Che fare, dunque?
"Dobbiamo tornare a dire al Signore: "Noi pecchiamo, ma non pecca la Chiesa che è Tua ed è
portatrice di fede". La fede è la risposta della Chiesa a Cristo; essa è Chiesa nella misura in cui è
atto di fede. La quale fede non è un atto individuale, solitario, una risposta del singolo. Fede
significa credere insieme, con tutta la Chiesa".
Dove possono indirizzarsi, dunque, quelle "riforme" che pur siamo sempre chiamati ad apportare
alla nostra comunità di credenti che vivono nella storia?
"Dobbiamo avere sempre presente che la Chiesa non è nostra ma sua. Dunque, le "riforme", "i
rinnovamenti" - pur sempre doverosi - non possono risolversi in un nostro darci da fare zelante
per erigere nuove, sofisticate strutture. Il massimo che può risultare da un lavoro del genere è una
Chiesa "nostra", a nostra misura, che può magari essere interessante ma che, da sola, non è per
questo la Chiesa vera, quella che ci sorregge con la fede e ci dà la vita col sacramento. Voglio
dire che ciò che noi possiamo fare è infinitamente inferiore a Colui che fa. Dunque, "riforma"
vera non significa tanto arrabattarci per erigere nuove facciate, ma (al contrario di quanto
pensano certe ecclesiologie) "riforma" vera è darci da fare per far sparire nella maggiore misura
possibile ciò che è nostro, così che meglio appaia ciò che è Suo, del Cristo. È una verità che ben
conobbero i santi: i quali, infatti, riformarono in profondo la Chiesa non predisponendo piani per
nuove strutture ma riformando se stessi. L'ho già detto, ma non lo si ripeterà mai abbastanza: è di
santità, non di management che ha bisogno la Chiesa per rispondere ai bisogni dell'uomo".