martedì 25 settembre 2012

La legislazione internazionale e il rispetto dell'uomo


Lunedì 24 settembre, nella Sede delle Nazioni Unite a New York, si è svolta una riunione di alto livello dell’Assemblea generale sullo stato di diritto a livello nazionale e internazionale. In essa è intervenuto l’arcivescovo Dominique Mamberti, segretario per i Rapporti con gli Stati e Capo Delegazione della Santa Sede alla 67ª sessione ordinaria dell’Assemblea generale dell’Onu. Pubblico, qui di seguito, il testo tradotto dall’inglese.

Signor Presidente,
Come giustamente evidenzia il Rapporto del Segretario Generale (a/66/749, 1), l’umanità attualmente fronteggia una situazione ricca di sfide e difficoltà. Da un lato vi è il sempre sorprendente e rapido progresso scientifico, il crescente accesso di molti all’educazione e al benessere economico, nonché l’emergenza di nuovi attori e potenze mondiali; dall’altro lato non sembra ancora terminare la crisi finanziaria mondiale, che acuisce alcune emergenze umanitarie e ambientali ed è al tempo stesso foriera di nuovi e pericolosi conflitti. In questo contesto, l’effettiva estensione dello stato di diritto (rule of law) con tutti i mezzi diventa un compito particolarmente urgente per una giusta, equa ed efficace governabilità mondiale.
Nel fare eco al preambolo della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, ove si afferma che «è essenziale che i diritti umani siano protetti dallo stato di diritto», il Rapporto del Segretario Generale e la Dichiarazione adottata stamattina da questa Assemblea partono dall’affermazione fondamentale che tutte le persone fisiche, istituzioni pubbliche e private, Stati e Organizzazioni internazionali devono essere soggetti alla legge, la quale deve essere «giusta ed equa» (cfr. Dichiarazione). In questi documenti si riafferma l’inscindibile collegamento tra lo stato di diritto e il rispetto dei diritti umani, sottolineando allo stesso tempo che, per governare secondo diritto, sono necessarie regole costituzionali concernenti l’attività legislativa, un controllo giudiziario sulle leggi e sul potere esecutivo, così come la trasparenza degli atti di governo e l’esistenza di una opinione pubblica capace di esprimersi liberamente. Seguendo questa tendenza espansiva l’applicazione dello stato di diritto abbraccia tutti gli ambiti della vita sociale.
Nell’esprimere il proprio apprezzamento per queste affermazioni, la Santa Sede desidera tuttavia sottolineare come occorra andare al di là della semplice fissazione di procedure che garantiscano un’origine democratica delle norme e un consenso di fondo da parte della comunità internazionale, al fine di aggiornare e rendere effettivi gli stessi principi sostanziali di giustizia sanciti dal preambolo della Carta delle Nazioni Unite e dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. In questa sede dobbiamo elencare: l’inalienabile dignità e valore di ogni persona umana, anteriore a qualsiasi legge o consenso sociale; l’eguaglianza dei diritti delle nazioni; il rispetto dei trattati e delle altre fonti del diritto internazionale. Il formale rispetto di per sé è insufficiente a garantire un effettivo stato di diritto a livello nazionale e internazionale. Solo andando oltre tale determinazione le istituzioni nazionali o internazionali evitano di subire manipolazioni o coazioni che interferiscano nella vita dei singoli cittadini.
La crescente complessità della vita odierna determina peraltro, quasi inevitabilmente, una proliferazione di norme e procedimenti, a loro volta suscettibili di molteplici applicazioni e interpretazioni, anche al punto di contraddirsi tra loro e mettere in pericolo la stessa certezza del diritto. Una tale deriva svuota lo stato di diritto di ogni pratica consistenza. Il frammentarsi della fenomenologia giuridica diventa talvolta specchio e sintomo di visioni antropologiche parziali o eccessivamente analitiche che rendono più debole e meno certa la concezione unitaria e integrale della persona. Il disordine giuridico da un lato e la riduzione antropologica dall’altro compromettono il fine ultimo ed essenziale di ogni ordinamento: promuovere e garantire la dignità dell’uomo.
Dove c’è difetto di criteri obiettivi capaci di fondare e guidare l’attività legislativa, l’affermazione dello «stato di diritto» («rule of law») si riduce a una sterile tautologia, a un mero «governo delle regole» («rule of rules»; cfr. Benedetto XVI, Discorso al Bundestag, 22 settembre 2011); e il conio di nuove leggi, benché prodotto da sistemi che possono essere descritti come democratici, potrebbe facilmente divenire espressione della volontà di pochi. Al fine di evitare queste pericolose deviazioni lo stato di diritto deve essere fondato su di una visione unitaria e completa dell’uomo, comprensiva della complessità e della ricchezza degli aspetti relazionali della persona, e che assicuri al tempo stesso certezza e stabilità ai rapporti giuridici che si creano all’interno delle comunità tramite un insieme tendenzialmente armonico di regole e istituzioni.
Lo stato di diritto è inoltre messo in pericolo quando lo si equipara con una mentalità legalista, di aderenza formale e acritica alle leggi e ai regolamenti, in un atteggiamento che può paradossalmente degenerare in un mezzo di sopraffazione della dignità umana e dei diritti dei singoli, delle comunità e degli Stati, come accaduto durante i regimi totalitari del XX secolo.
Pertanto, nell’espressione «stato di diritto», il concetto di «diritto» dovrebbe essere inteso come «giustizia» — ciò che è giusto, la cosa che è giusta, un elemento che è proprio e inalienabile della natura di ogni essere umano e delle comunità sociali fondamentali, come la famiglia e lo stato. Come tuttavia discernere cosa è «giusto», o «la cosa giusta»? In riferimento a molte fondamentali questioni antropologiche quale sia la cosa giusta, che possa diventare diritto vigente, oggi non è affatto evidente di per sé. La questione di come si possa riconoscere ciò che veramente è giusto e servire così la giustizia nella legislazione non è mai stata semplice, e oggi nell’abbondanza delle nostre conoscenze e delle nostre capacità, tale questione è diventata ancora più difficile (ibid). Le conquiste e le dichiarazioni sui diritti umani — in particolare quelle sancite nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo — ci offrono un importante riferimento in tale direzione, ma non sono di per sé sufficienti, a meno che non li si legga nello spirito nel quale sono stati formulati e nel loro contesto storico.
Infatti, il preambolo e il primo articolo della Carta delle Nazioni Unite, insieme con tutta la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, sono il risultato di un lungo processo giuridico e politico, che iniziò con l’incontro della ragione teorica e filosofica della cultura greca con la ragione giuridica e pratica dei Romani, a cui poi si sono aggiunti altri elementi, come la sapienza ebraico-cristiana, il diritto di altri popoli europei, il diritto canonico con i suoi sviluppi, le elaborazioni medievali e rinascimentali dei filosofi ebrei, arabi e cristiani e, infine, il contributo della filosofia illuminista e degli sviluppi politici prodotti dalle Rivoluzioni del secolo XVIII. Si è configurato così uno statuto dei diritti fondamentali dell’uomo, riconoscibile anche dalle culture non europee e non mediterranee, il quale, dopo le tragiche guerre del secolo XX, è stato adottato dalla comunità internazionale come fondamentale pietra di paragone per il riconoscimento della legittimità di qualsiasi attività giuridica o politica. Pertanto, è alla luce di questa complessa, ricca e articolata stratificazione, che è al tempo stesso storica, giuridica e filosofica, che gli inviolabili e inalienabili diritti dell’uomo possono e devono essere apprezzati come l’essenza della legge, a cui devono far riferimento le regole.
Il preambolo della Carta delle Nazioni Unite evidenzia poi, nel suo secondo paragrafo, l’esigenza di riaffermare la fede nei diritti fondamentali dell’uomo. La parola «fede» indica abitualmente la trascendenza, qualcosa che non dipende da sensazioni, concessioni, riconoscimenti o accordi. Essa può tuttavia essere afferrata dalla ragione filosofica, nel processo in cui ci interroghiamo sul senso dell’esistenza umana e dell’universo e su ciò che offre un vero e solido fondamento allo stato di diritto, nella misura in cui siamo capaci di cogliere l’esistenza di una natura umana anteriore e superiore a tutte le teorie e costruzioni sociali, che l’individuo e le collettività devono rispettare e non devono manipolare a piacere. L’uomo non è soltanto una libertà che si crea da sé. L’uomo non crea se stesso. Egli è intelletto e volontà, ma è anche natura, e la sua volontà è rettamente ordinata quando egli rispetta la natura, la ascolta e quando accetta se stesso per quello che è, come qualcuno che non si è creato da sé. Proprio così e soltanto così si realizza la vera libertà umana (ibid.), ed è solo in questo modo che noi possiamo veramente parlare di stato di diritto. Invece, come spiegato sopra, una ragione positivista esclude e non è in grado di percepire qualcosa al di là di ciò che è funzionale, e al massimo sarà soltanto capace di generare un governo delle regole (rule of rules), un sistema di norme e procedure, edificato semplicemente su ragioni pragmatiche e utilitaristiche; una tautologia che, in quanto priva di valori permanenti, è suscettibile di strumentalizzazioni. Al contrario, la fede nella trascendente dignità della persona umana, o meglio il riconoscimento della sua trascendenza, diventa la fondamentale e indispensabile chiave di lettura dei diritti codificati negli stessi documenti fondazionali dell’Onu e la guida certa per una loro effettiva tutela e promozione.
È noto che, a livello internazionale, sono presenti gruppi di interesse che, tramite procedure formalmente legittime, riescono a influire nelle politiche degli Stati per ottenere norme multilaterali che non solo non possono servire al bene comune ma che, sotto un’apparenza di legittimità, sono di fatto un abuso delle norme e delle raccomandazioni internazionali, come constatato nella recente crisi finanziaria.
Parimenti, è ben noto il tentativo di promuovere, in nome della democrazia, una visione materialista della persona umana, unita a una visione meccanicistica e utilitaristica della legge. È così che, nonostante l’apparente stato di diritto, la volontà dei potenti prevale su quella dei più deboli: i bambini, i non nati, gli handicappati, i poveri o, come accaduto nella crisi finanziaria, quelli privati dell’informazione corretta nel momento giusto.
Al contrario, il valore trascendente della dignità umana offre allo stato di diritto un fondamento di sicura stabilità perché corrispondente alla verità dell’uomo in quanto creato da Dio; e permette al tempo stesso che lo stato di diritto possa perseguire il suo vero scopo, che è la promozione del bene comune. Queste conclusioni esigono come premessa irrinunciabile che il diritto alla vita di ogni essere umano — in tutti gli stadi dello sviluppo biologico, dal concepimento fino alla morte naturale — venga considerato e protetto come valore assoluto e inalienabile, anteriore all’esistenza di ogni stato, di qualsiasi formazione sociale e indipendente da qualsivoglia riconoscimento ufficiale.
A questo fondamento dello stato di diritto dovrebbero aggiungersi le altre componenti dei diritti umani, senza distinzione, come previsto dal principio di indivisibilità, secondo il quale «la promozione integrale di tutte le categorie dei diritti umani è la vera garanzia del pieno rispetto di ogni singolo diritto» (Giovanni Paolo II, Messaggio per la Giornata mondiale della pace 1999, 3). Questo principio a sua volta si coniuga con quello di universalità, rendendo possibile affermare che la promozione integrale di tutte le persone, senza eccezione di tempo o di luogo, è la vera garanzia del pieno rispetto di ogni singola persona.
Tutti gli altri diritti umani fondamentali sono evidentemente collegati alla dignità umana, quale norma essenziale, e così si integrano nello stato di diritto, compresi il diritto ad avere un padre e una madre, il diritto a formare e mantenere una famiglia, il diritto a crescere ed essere educato in una famiglia naturale, il diritto dei genitori a educare i propri figli, il diritto al lavoro e alla giusta distribuzione della ricchezza prodotta, il diritto alla cultura, la libertà di pensiero e la libertà di coscienza.
Tra questi diritti, una menzione particolare merita la libertà religiosa. La risposta alla grande questione della nostra esistenza, la dimensione religiosa dell’uomo, la capacità di aprirsi al trascendente, da soli o insieme ad altri, è una parte essenziale di ciascuna persona e a un certo grado si identifica con la sua stessa libertà. Il «diritto di cercare la verità in materia religiosa» (Conc. Vat. ii, Dignitatis humanae, 3), senza coazioni esterne e in piena libertà di coscienza, non deve dunque essere trattato dagli Stati con sospetto o come qualcosa solo da permettere o tollerare. Al contrario, la garanzia di una tale libertà, a prescindere dal suo attuale esercizio, diventa per i credenti come per i non credenti un cardine irrinunciabile dello stato di diritto.
Signor Presidente,
di fronte alle vecchie e nuove sfide che abbiamo dinanzi, la convocazione di una Riunione di Alto Livello sullo stato di diritto è un’occasione importante per riaffermare la volontà di cercare soluzioni politiche applicabili a un livello globale con l’aiuto di un ordinamento giuridico saldamente radicato nella dignità e nella natura dell’umanità, in altre parole, nel diritto naturale. È questa la via migliore da seguire se vogliamo realizzare i grandi progetti e lo scopo della Carta delle Nazioni Unite e della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, che restano attuali per mezzo dei vari trattati sui diritti umani, sul disarmo, nonché nella codificazione dei grandi principi del diritto internazionale e nella raccolta e nel progresso compiuto nelle norme del diritto umanitario. Un progresso sarà possibile se, oltre a operare con organismi sempre più specializzati, anche in materia economica e finanziaria, le Nazioni Unite rimarranno un punto centrale di riferimento per la creazione di una vera famiglia delle nazioni, in cui l’interesse unilaterale di quelle più potenti non può prevalere di fronte alle necessità di quelle più deboli. Ciò sarà possibile se la legislazione a livello internazionale sarà improntata al rispetto della dignità della persona umana, a partire dalla centralità del diritto alla vita e alla libertà religiosa.
Grazie, Signor Presidente.
L'Osservatore Romano 26 settembre 2012