sabato 1 settembre 2012

Martini: Vita di Mosè

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Prefazione
Come già il volumetto del P. Martini precedentemente pubblicato in questa collana, dal titolo Il Vangelo secondo Giovanni nell' esperienza degli Esercizi Spirituali, anche il presente lavoro deriva dall'intenzione di realizzare una lettura della Parola di Dio che corrisponda all'itinerario spirituale degli Esercizi ignaziani. In ogni caso, il testo che qui si presenta, per quanto energicamente potato e riordinato, risente ancora del tono discorsivo e di certi riferimenti linguistici, che rievocano immediatamente l'occasione viva da cui esso ha tratto origine.
Non desidero ripetere qui le considerazioni svolte a prefazione del volumetto dedicato al Vangelo secondo Giovanni, in merito alla lettura della S. Scrittura nel quadro degli Esercizi Spirituali. Mi sembra piuttosto interessante notare che, a distanza di alcuni anni dal corso di Esercizi che stava all'origine dello scritto sul quarto Vangelo, il P. Martini è andato maturando una metodologia di «lettura» ancor più distesa, più fluida e soprattutto più coerentemente «biblica», nel senso che essa è tanto più aderente al testo scritturistico nelle sue movenze interne, quanto più si fa sciolta e libera nell'invenzione spirituale.
Vorrei ora semplicemente dichiarare quelle che a me paiono le note di fondo più significative di questo nuovo volumetto del P. Martini.
Innanzi tutto bisogna segnalare il fatto che abbiamo tra le mani un corso di Esercizi Spirituali tutto dedicato all'ascolto di pagine dell'Antico Testamento. Una simile attenzione agli scritti della prima alleanza sarebbe sembrata molto strana fino a non molti anni fa. È innegabile, d'altra parte, che questa Vita di Mosè svolge appieno tutto l'itinerario della conversione cristiana. Il P. Martini ci dà qui una dimostrazione coraggiosa ed esemplare di come l'ascolto dell'Antico Testamento, ricevuto dal seno e nel seno della tradizione cristiana, è già in grado di maturare frutti rigorosamente evangelici.
Ritengo importante constatare, poi, come questa Vita di Mosè segua con estremo rispetto l'andamento del testo biblico, caratterizzandosi meglio come vera e propria «lettura biblica» che non come una lettura per temi, funzionali ad un quadro teologico-parenetico a sé stante: nel nostro caso il grande piano degli Esercizi Spirituali. Eppure, sembra proprio che questa maggiore disinvoltura dell'autore nell'uso della S. Scrittura valorizzi, ben più di quanto apparentemente non trascuri, la sapienza e la struttura del metodo ignaziano. Val la pena di ricordare, tra l'altro, che proprio la libertà d'ascolto nell'approccio al testo biblico aveva probabilmente suggerito al P. Martini di consegnare a specifici «momenti ignaziani» quelle considerazioni particolari che dovevano aiutare il quotidiano lavoro degli esercitanti (l). Le pagine dedicate a tali «momenti ignaziani », riportate nel testo originario, sono state integralmente espunte nella presente stesura, lasciando cosi che la lettura biblica si svolga nella sua compatta unità interna.
Il P. Martini fa sovente riferimento alle tradizioni del midrash ebraico, come pure alle letture patristiche della S. Scrittura, in particolare a san Gregario Nisseno, autore di una famosa Vita di Mosè; egli ricorda pure, in passaggi non più reperibili in questo volumetto, esempi recenti di lettura biblica da cui egli stesso ha tratto stimolo e spunto di approfondimento spirituale. È appunto nel solco della tradizione spirituale che lega i fedeli al testo sacro, che anche questa Vita di Mosè, fatte le debite proporzioni, si inserisce. Anch'essa, infatti, non è altro che un momento di quella grande conversazione sulla Parola che è la tradizione del Popolo di Dio: tradizione che passa attraverso i grandi commentatori d'Israele e della Chiesa antica e moderna, ma anche tradizione che vive nell'ascolto fervoroso e fedele di tutti i semplici credenti che si alimentano con una quotidiana lectio divina alle fonti della rivelazione.
1 novembre 1980 Comunione dei Santi del cielo e della terra
PINO STANCARI s.j.
[1] Questo volumetto è nato come rielaborazione di un testo primitivo, già stampato a cura del « Centro ignaziano di spiritualità », che fu a sua volta ricavato dalla registrazione su nastro di un corso di Esercizi Spirituali, dato dal P. Carlo M. Martini ad un gruppo di confratelli gesuiti nell'agosto del 1978.
Introduzione
Vorrei cominciare questo ritiro nella calma; perciò tenteremo di entrarvi insieme a piccoli passi.
In questo nostro primo incontro vorrei accennare brevemente al tema di cui ci occuperemo in questi Esercizi Spirituali, e al perché di questo tema; inoltre vorrei suggerire qualche lettura spirituale utile a tutti noi, perché assumiamo progressivamente un ritmo di vita che serva alla ricerca spirituale di questi giorni.
Mosè e noi nella vita della Chiesa

Dico subito qualcosa sul nostro tema: «la vita di Mosè ». Perché la vita di Mosè? Mi sono detto: gli Esercizi spirituali di sant'Ignazio sono caratterizzati da meditazioni sulla Storia della Salvezza. Ho pensato: Mosè è un uomo che ha vissuto una storia di salvezza, percorrendo egli stesso un certo itinerario e facendolo percorrere alla sua gente. Siamo quindi nella linea dell'«itinerario», che è l'intuizione fondamentale degli Esercizi: si tratta di partire da un certo punto per arrivare ad un altro.
Mosè è il simbolo di quell'itinerario in cui la Chiesa pone il momento centrale della sua memoria battesimale, l'itinerario che tutti ripercorriamo nella notte di Pasqua, che è la notte della Chiesa, la notte del cristiano, la notte in cui passiamo il Mar Rosso: quella del nostro battesimo, della nostra conversione, del nostro primo passo avanti verso il Signore. Contemplando Mosè, noi meditiamo sulla memoria battesimale della Chiesa, sull'origine di tutta la liturgia, che risale appunto alla notte di Pasqua e che si svilupperà fino all'eucaristia; e in questa celebrazione memoriale del passaggio del Mar Rosso leggiamo il passaggio di Cristo dal sepolcro alla resurrezione e quello nostro dalla morte alla vita.
La centralità di questo personaggio è indicata anche dal Nuovo Testamento. Mosè vi è citato ben 80 volte: segno che egli era presente nella mente degli antichi scrittori, soprattutto in vista del rapporto di esemplarità tra Mosè e Gesù. Nell'unica manifestazione gloriosa che Gesù fa di sé nella vita pubblica, Mosè appare insieme con Elia (e quest'ultimo è menzionato 30 volte nel Nuovo Testamento). Quindi Mosè è una figura chiave; insieme con Elia è il punto di partenza per capire Gesù.
Oltre al Nuovo Testamento, poi, c'è la Chiesa primitiva; ci sono i Padri; c'è la Sinagoga, la cui liturgia è un formidabile bacino di riserva per la memoria del popolo di Dio, al quale anche oggi noi possiamo attingere con frutto.
Vediamo per ora, a grandissime linee, come la Chiesa primitiva ha parlato di Mosè. Accenno piuttosto in fretta alle citazioni di Giustino nell'Apologetico e nel Dialogo, e alla Lettera di Barnaba, che spesso parla di Mosè. Soprattutto cito il grande Gregorio Nisseno, con il suo De Vita Moysis, un intero libro sulla vita di Mosè. Gregorio è uno dei classici della letteratura patristica, tanto classico
che, quando nel 1943 i Padri De Lubac e Daniélou hanno iniziato le famose «Sources Chrétiennes », il primo volume è stato proprio quello della Vita di Mosè, che ha per sottotitolo: «Trattato della perfezione in materia di virtù ». Mosè è presentato come il modello della perfezione cristiana. Il libro si divide in due parti: la prima è chiamata la « historia », in cui si narra la storia secondo la Bibbia con l'aggiunta di alcuni particolari un po' fantasiosi, raccolti da varie tradizioni; la seconda parte è la «theoria», ossia la contemplazione del significato di Mosè per la vita cristiana secondo l'interpretazione dei Padri orientali. Questa parte è la più lunga; tutta la storia di Mosè, infatti, viene applicata al cristianesimo, fino a dire che Mosè siamo noi: Mosè sei tu. Dobbiamo entrare nei nostri Esercizi Spirituali con questo atteggiamento: Mosè sono io.
Mosè e la tradizione giudaica
Gregorio Nisseno aveva avuto un illustre predecessore nel giudaismo: Filone. Questi, tra le altre opere, ha scritto una vita di Mosè dove, raccogliendo tutte le tradizioni, presenta per i greci (ad Graecos) Mosè come il più grande filosofo che visse prima di Platone, anzi prima di Omero, come l'uomo che passa imperterrito attraverso le bufere della vita.
Anche la tradizione rabbinica ha molto parlato di Mosè, specialmente a partire da Gesù. Mosè è diventato sempre più il rappresentante del rabbinismo sopravvissuto alla distruzione del Tempio.
Tutta la tradizione moderna ebraica vive di Mosè. Ci sono, poi, delle bellissime reinterpretazioni midrashiche, che si sono occupate di Mosè con grande
amore, descrivendolo mediante storielle che forse
ci fanno ridere - ne citeremo alcune in questi giorni -, ma di cui bisogna pur riconoscere la profondissima pedagogia. È proprio attraverso queste storielle inventate, che si è trasmesso un vero tesoro di sapienza umana e religiosa.
Queste tradizioni fanno uso di uno stile libero, dato che per esse non è tanto importante se i fatti sono avvenuti o no, bensì ciò che essi significano per la vita dell'uomo. Questo vale per il midrash, come pure per Gregorio e per Filone; e questo vale anche per noi. Anch'io userò uno stile un po' midrashico nelle mie meditazioni; insomma, non tutto quello che dirò si ritrova nella Bibbia ad litteram, ma, seguendo l'esempio di questi grandi predecessori, cercheremo piuttosto di domandarci: che cosa ha pensato Mosè a questo punto, quali sono state le sue difficoltà, quali i suoi problemi, e cosi via.
Mosè ci aiuta a capire meglio Gesù
Ed ora veniamo al titolo da dare a questi Esercizi Spirituali.
Sarà questo:« Vita di Mosè. Vita di Gesù. Esistenza pasquale ». Sono i tre piani della nostra riflessione. Noi non spasimiamo per la vita di Mosè come tale, ma la vita di Mosè ci interessa per capire meglio la vita di Gesù e per capire meglio l'esistenza pasquale del cristiano. Questa frase" ve ne ricorderà certamente un'altra, che si trova negli Esercizi di Sant'Ignazio nella Meditazione del Regno: «La contemplazione di un re temporale giova a contemplare la vita del Re eterno» (ES, n. 91). Nel nostro caso, sarà la contemplazione della vita di Mosè che ci aiuta a contemplare la vita del Re eterno, che
è Gesù, e la nostra esistenza in lui. Dunque non trattiamo tutto di Mosè; per esempio non trattiamo di Mosè come legislatore, quale fu più spesso considerato e citato, non come sacerdote, non come uomo dell'alleanza: tutti questi aspetti li lasciamo da parte.
Dice Filone, all'inizio della sua opera:« Ho concepito il progetto di scrivere la vita di Mosè, che viene considerato ora come il legislatore dei Giudei, ora come l'interprete delle sante Leggi, ora un uomo in ogni parte eccellente e perfetto». Ciò che interessava Filone era appunto il legislatore Mosè. Invece Gregorio, cominciando il suo libro, dice: È molto bello meditare sui nostri padri, per apprendere la via della virtù; perciò « noi ci contenteremo di ricordare la vita di questo personaggio illustre (di Mosè) per fargli adempiere l'ufficio di mostrare come sia possibile far giungere l'anima al porto pacifico della virtù, dove essa non sarà più esposta alle tempeste della vita e non rischierà più di fare
naufragio negli abissi del peccato », sotto lo shock delle onde delle passioni. Mosè è quindi, per Gregario, l'uomo che ha saputo guidare se stesso alla vita perfetta attraverso le vicende del mondo (mi sembra qui di vedere un certo influsso stoico). In ogni caso, quello che a noi interessa è l'aspetto più specificamente storico-salvifico di Mosè, che vede in lui l'uomo della Pasqua.
Che cosa vuol dire «uomo della Pasqua»? Vuol dire uomo del «passaggio»: uomo che è passato lui stesso da una esperienza all'altra nella sua vita, tra grandi, dolorosi e veramente sconvolgenti avvenimenti; l'uomo che è passato e ha fatto passare il suo popolo da una esistenza all'altra; l'uomo che è legato con tutta la sua vita all'iniziativa del passaggio di Dio, della Pasqua di Dio. Perciò Mosè, uo
mo della Pasqua, ci aiuterà a capire Gesù nostra Pasqua, che è passato per noi attraverso la morte, per far passare anche noi e per essere nostra Pasqua di resurrezione; ci aiuterà a capire la vita cristiana come vita pasquale, cioè come vita di coloro che in grazia di Dio cantano il cantico di Mosè sulle rive del Mar Rosso: Dio ci ha salvati, ci ha fatti passare dalla. schiavitù del faraone alla libertà della terra promessa.
Meditando le parole rivelate
Il nostro metodo sarà molto semplice: vi proporrò delle semplici riflessioni, delle lectiones divinae su qualche pagina, soprattutto dell'Esodo e dei Numeri, letta alla luce del Nuovo Testamento, per capire meglio la vita di Gesù e la vita pasquale del cristiano. Il testo fondamentale, che va tenuto presente qui e che ci conforta in questa nostra impresa, è 1 Cor 10, 1ss.: «Non voglio infatti che ignoriate, fratelli, che i nostri padri furono tutti sotto la nuvola, tutti attraversarono il mare, tutti furono battezzati in rapporto a Mosè nella nuvola e nel mare ». Si tratta, quindi, di rivivere quella storia di salvezza attraverso cui tutti già siamo passati: infatti, con i nostri padri c'eravamo anche noi, come dice il ritornello dell'aggadà di Pasqua, che risuona nella cerimonia ebraica del banchetto pasquale. Lì al Mar Rosso c'ero anch'io; anche io l'ho attraversato; e se sono qui oggi a celebrare questa Pasqua è perché anch'io ero con Mosè.
È con questo spirito che leggeremo i nostri testi, perché
- come dice Paolo - «ciò avvenne come esempio per noi »; quanto in essi sta scritto, dunque, è destinato alla nostra utilità. Quali sono i testi? Ve li indicherò man mano che procederemo nel nostro lavoro, precisando fin da adesso che ho scelto i principali testi su Mosè di tutte le tradizioni, omettendo però tutti i testi legislativi.
E concludo con un passo di Gregorio Nisseno: «Ci vorrà una meditazione attenta, ci vorrà una vita penetrante per discernere, al di là della lettera della storia, da quali Caldei, da quali Egiziani dobbiamo allontanarci. E dopo essere sfuggiti a quella prigionia di Babilonia, noi potremo giungere alla vita felice» .

prima meditazione
Le tre tappe della vita di Mosè
Prima di dare inizio a questa meditazione voglio suggerirvi una domanda, che ognuno deve fare a se stesso: Perché sono venuto qui e partecipo a questo corso di Esercizi Spirituali? Credo che ognuno potrà dare una risposta: ognuno troverà le proprie motivazioni. In fondo questa domanda, che sottostà alla meditazione che vi esporrò, si può esprimere anche così: Dove sono, in quale situazione mi trovo, e che cosa caratterizza la mia situazione presente? È questa la domanda che dovrebbe scaturire dalla lettura dei brani che ora vi propongo.
Una divisione che si trova già nelle Scritture
Vorrei prendere il via da una pagina degli Atti degli Apostoli, in cui si trovano enunciate ed individuate le cosiddette « tre tappe» della vita di Mosè (cfr. At. 7,20-43).
La tradizione d'Israele già precedentemente aveva suddiviso la vita di Mosè in tre tappe di quarant'anni ciascuna. Appare qui quel tipico gioco del simbolo, che è proprio della Scrittura. L'idea è quella di tre grandi periodi completi. È un'idea che sarà comunemente ripresa in quella memoria vivente d'Israele che è la tradizione rabbinica.
La citazione che vi leggo è presa da un midrash a proposito di Deut. 34, 7. Questo passo dice che Mosè aveva circa 120 anni quando morì, e il commento è il seguente: «Egli fu uno dei quattro che vissero 120 anni. Essi sono: Hillel l'anziano, Rabban Johnatan Ben Zakai e Rabbi Akiba ». Il quarto è Mosè. Poi il testo rabbinico continua: «Mosè passò 40 anni in Egitto, passò 40 anni in Madian e servì Israele per 40 anni. Hillel l'anziano venne da Babilonia all'età di 40 anni, serv1 i saggi per 40 anni e serv1 Israele per 40 anni. Rabban Johnatan Ben Zakai si occupò di affari di questo mondo per 40 anni, servì i saggi per 40 anni e servì Israele per 40 anni. Rabbi Akiba cominciò a imparare la Torah all'età di 40 anni, servì i saggi per 40 anni e servì Israele per 40 anni ».
Vedete dunque il tipico e schematico modo di dividere la vita di questi quattro grandi uomini in periodi di 40 anni ciascuno. È quel che troviamo pure negli Atti degli Apostoli (7,20 ss.), quando Stefano nel suo discorso vuole sintetizzare la vita di Mosè. Il nostro schema appare col v. 23: «Quando furono compiuti 40 anni, salì nel suo cuore l'idea di visitare i fratelli, che erano i figli di Israele ». Poi al v. 30 dice: «Compiuti altri 40 anni, gli apparve nel deserto del Sinai un angelo in fiamma di fuoco ». Ecco quindi i tre periodi di Mosè: nei primi 40 anni Mosè sta alla scuola del faraone; nel secondo periodo di 40 anni Mosè decide di visitare i fratelli e fugge nel deserto; il terzo periodo di 40 anni comincia con il roveto ardente e va fino alla fine della sua vita. Questo è il quadro complessivo della vita di Mosè.
Cerchiamo ora di dare uno sguardo globale a que
sta vita di Mosè, chiedendoci che cosa significhino questi tre periodi di 40 anni ciascuno: d'altronde, come abbiamo visto, anche il detto rabbinico insiste su questo stesso schema, riferito anche ad altri grandi uomini d'Israele. La meditazione che vi propongo sarà una semplice lettura degli Atti degli Apostoli nei passi in cui si dà la descrizione di ciascuno di questi tre periodi. Leggiamo il v. 20: «In quel tempo nacque Mosè e piacque a Dio; egli fu allevato per tre mesi nella casa paterna, poi, essendo stato esposto, lo raccolse la figlia del faraone e lo allevò come figlio. Così Mosè venne istruito in tutta la sapienza degli Egiziani ed era potente nelle parole e nelle opere. Quando stava per compiere i 40 anni. . . ». E qui comincia il secondo periodo.
1. Dio prepara Mosè per una vocazione speciale
Qual è la caratteristica del primo periodo della vita di Mosè, come viene descritto sinteticamente negli Atti degli Apostoli e un po' più ampiamente nel cap. 2 dell'Esodo? Seguendo le indicazioni del brano citato, caratterizzerei questo periodo così: 1) Mosè è oggetto di una speciale provvidenza di Dio; 2) Mosè è sottoposto ad un'educazione raffinata. Questo il senso di ciò che viene detto in questi versetti.
Mosè è oggetto di una speciale provvidenza di Dio che lo salva: ecco il significato della storia di Mosè bambino. Mosè è in pericolo di vita, doveva essere ucciso, sarebbe stato travolto dalle acque del fiume, e invece viene salvato. Mosè è sottoposto ad un'educazione raffinata: «Venne istruito in tutta la sapienza degli Egiziani », cioè, secondo il testo greco (epaideuthe), fu sottoposto alla paideia egiziana, quella iniziazione e istruzione progressiva e ragionata che formava il modello dell'educazione del tempo.
Per caricare la dose il testo aggiunge:
pase sofia Aigyption, «in tutta la sapienza degli Egiziani». Voi sapete che cosa era la sapienza degli Egiziani nel mondo di allora: era la grande sapienza, la sapienza proverbiale, la più antica, tanto che i Greci andavano a scuola dagli Egiziani, per capire i loro segreti. Il testo dice: pase sofia, cioè in tutta questa sapienza »: la sapienza politica di un impero molto bene organizzato; la sapienza economica di una grande struttura sociale e commerciale; la sapienza tecnica (si pensi alle piramidi e all'arte di costruire immensi edifici e templi formidabili); infine la sapienza culturale, che esprimeva un'altissima raffinatezza di vita. Mosè, dice il testo, fu introdotto in tutta questa ricchezza di cultura umana.
Dopo aver brevemente visto che cosa significa questa prima tappa per la vita di Mosè, vi invito a chiedervi se anche noi - quel Mosè che noi siamo - non possiamo dire qualcosa di analogo. Penso che ciascuno possa dire che c'è stata nella sua vita una speciale provvidenza di Dio. Noi non saremmo qui tranquillamente a riflettere su queste cose, se tutta una speciale provvidenza di Dio non ci avesse portato a questo punto.
Nella nostra meditazione possiamo rivolgere a Dio un pensiero di ammirazione, di lode e di ringraziamento per questa provvidenza speciale che ci ha salvato dalle acque. Dove saremmo noi se il Signore non ci avesse tenuto una mano sul capo? Dove saremmo andati a finire? Inoltre, ciascuno di noi è debitore ad una tradizione di educazione, di dignità, di cultura. Pensiamo ai milioni di uomini e di donne nel mondo che sanno appena distinguere la destra dalla sinistra, senza godere di alcun orizzonte culturale, e non potremo negare la nostra condizione di privilegiati.
Potente in parole e in opere
Eccoci quindi come Mosè. E qual è il risultato? È che Mosè (secondo quanto sta scritto in At. 7, 22b) en de dynatos en logois kai ergois, «era potente in parole ed in opere ». Mosè sapeva parlare bene, sapeva agire bene, ed era anche molto conscio di queste sue possibilità. Sapeva di sapere; sapeva di aver avuto un'educazione di qualità. Da notare qui il parziale riferimento cristologico: anche Gesù sarà poi descritto, in Lc. 24, 19, come «potente in opere e parole ». Mosè è invece potente «in parole e in opere »; al primo posto ci sono le parole...: sapeva parlare Mosè, e poi sapeva anche operare!
Come interpretare tutto questo per la nostra vita? Credo ci sia per ognuno un tempo di formazione e preparazione: quello che chiamerei «il tempo dei metodi »; allora ognuno impara a far qualcosa: impara a studiare, a esprimersi, a svolgere il proprio lavoro professionale, impara a meditare, a pregare. E così ci facciamo una certa idea di come le cose vanno fatte. Questo appare evidente dalle critiche che facciamo agli altri: loro non hanno saputo fare, ma noi non faremmo così in quella situazione, perché metteremmo in pratica i nostri metodi, sappiamo come si fa, ecc.
Tutti noi, più o meno, siamo passati per questo tempo dei metodi, nel quale si pensa di aver imparato molte cose (per esempio, riguardo al modo di avvicinare le persone, i gruppi, le differenti categorie di uomini e di donne, e di trattare certi casi
difficili). È questo il tempo della prima educazione di Mosè, in cui egli crede giustamente di avere delle cose da dire e delle cose da fare, e di saperle fare.
Ma ecco il punto che mi sembra caratterizzare questo primo stadio della vita di Mosè: in esso si vedono le cose con gli occhi dei metodi che ci siamo proposti, cioè attraverso l'ideologia che istintivamente abbiamo fatto nostra. Non c'è dunque impatto vero con la realtà cosi com'è. Anzi, si fugge quasi d'istinto dall'arrendersi alla realtà cosi com'è. E allora cosa avviene? Entriamo in contatto non con la realtà casi com'è, ma con le immagini che noi ci siamo fatte della realtà attraverso l'ideologia, attraverso i metodi, attraverso le nozioni che abbiamo apprese o che ci siamo immaginate. In pratica fuggiamo la verità, anche se ci proclamiamo onesti e leali; infatti tutto vediamo con gli occhi del metodo e dell'ideologia, dando per scontate certe opzioni, che noi crediamo siano quelle giuste, buone, sante, spirituali, vere, ecc.
Questo è ciò che caratterizza il primo momento della vita di Mosè. Mosè è troppo istruito: conosce tutta la sapienza degli Egiziani e giudica tutto secondo questa sapienza, facendo passare tutto, istintivamente, attraverso quel vaglio, senza che egli stesso se ne renda conto. Ma questo, come dicevo, comporta un contatto con la realtà molto ridotto. Di qui la rabbia e la delusione, quando si constata uno scarto tra la realtà e ciò che si credeva, tra la realtà e ciò che si è imparato in un ambiente saturo di idee.
2. Un periodo di generosità e di scacco
Ed ecco il secondo momento della vita di Mosè. Se il primo l'ho chiamato il «tempo dei metodi », il secondo quarantennio lo definirei « generosità e scacco », oppure « il tempo dello sforzo e delle, frustrazioni ». «Generosità e scacco» vuol dire che Mosè è pieno di buona volontà, pieno di generosità, e s'impegna fino in fondo magnificamente. «Quando stava per compiere i 40 anni, gli salì nel cuore di far visita ai suoi fratelli, i figli d'Israele, e vedendone uno frustato ingiustamente ne prese le difese e vendicò l'oppresso uccidendo l'egiziano. Egli pensava che i suoi connazionali avrebbero capito che Dio dava loro salvezza per mezzo suo, ma essi non compresero. Il giorno dopo si presentò in mezzo a loro mentre stavano litigando e si adoperò per metterli d'accordo dicendo: siete fratelli, perché vi insultate l'un l'altro? Ma quello che maltrattava il vicino lo respinse dicendo: chi ti ha nominato capo e giudice sopra di noi, vuoi forse uccidermi come hai ucciso ieri l'egiziano? Fuggi via Mosè a queste parole e andò ad abitare nella terra di Madian dove ebbe due figli» (At. 7, 23-29).
Ecco il secondo periodo della vita di Mosè, che ho chiamato della generosità e dello scacco, il tempo dello sforzo e delle frustrazioni. Ho detto «generosità» e «sforzo», perché Mosè è pieno di grandi idee e vuol fare qualche cosa di grande, qualcosa di generoso. Infatti quello che fa è veramente grande, perché, invece di godere dei privilegi che gli dava l'appartenere alla casa dei faraoni, si lancia coraggiosamente verso i fratelli; è questo un magnifico risultato della sua educazione: il coraggio di lottare per la giustizia. Mosè non può soffrire l'ingiustizia e si espone fino a compromettersi, fino ad uccidere l'egiziano; Notiamo che il suo lottare per la giustizia non è un lottare ingenuo: il suo sforzo è sotteso da motivi molto lucidi e validi.
Mosè non è un anarchico rivoluzionario, perché ha
uno scopo ben preciso: ricostruire l'unità dei fratelli, fare dei suoi fratelli schiavi un popolo libero, un popolo che abbia una sua dignità. È quel che dice subito, appena li vede litigare: siete fratelli, seguitemi; vi porterò a un'esperienza meravigliosa che mai avete fatto, quella di essere uomini coscienti e degni della vostra razza; io so cosa vuol dire essere liberi, amarsi. È splendido questo Mosè animato a tal punto da un grande ideale: l'amore del suo popolo e il desiderio della riconciliazione. La sua non è una lotta per la giustizia puramente distruttiva: si tratta,anzi, di una costruzione che Mosè ha in mente.
Però c'è un "ma"...
Però c'è un « ma» e la Scrittura lo esprime molto bene nel v. 25: enomizen de, « ma pensava », s'illudeva, si faceva un'idea semplicistica della realtà, un'idea secondo i propri schemi, le proprie ideologie. Lo schema era molto semplice: io, Mosè, sono stato educato nella libertà, io so che cosa significa la libertà; vado dunque dai miei fratelli, propongo loro questa libertà, pago il prezzo di questa libertà, e i miei fratelli capiranno che cos'è la libertà, mi acclameranno loro capo, noi marceremo tutti insieme. Ma tutto questo è soltanto un progetto, un pensiero.
Che cosa non ha funzionato in questo progetto? Mosè non si è fatto un'idea reale della resistenza dei suoi fratelli nel volere la libertà; non ci ha pensato, non entrava nel suo schema logico: ed eccolo allora nello scacco. I vv. 27-29 descrivono meravigliosamente il crollo totale di Mosè, di un uomo che con generosità immensa aveva rinunciato a tutti i privilegi per farsi povero con i poveri, per farsi oppresso con gli oppressi. La Bibbia ci descrive in maniera finissima come Mosè fa fiasco con i suoi fratelli, i quali non lo riconoscono, anzi gli dicono: «Chi ti ha detto di occuparti di noi? Non ci interessi! ». E cosi viene respinto proprio da coloro ai quali pensava di dover insegnare qualcosa, di portare la dottrina giusta.
Scacco anche nei confronti del faraone, col quale ha tagliato i ponti e ha paura di essere da lui ricercato. Scacco perfino con se stesso: Mosè non è più nessuno. Il v. 29 è veramente drammatico: «Fuggi Mosè all'udire questa parola e divenne straniero nella terra di Madian» (egeneto paroikos, dice il testo greco). Ecco Mosè, il coraggioso, divenuto pauroso; l'uomo che aveva saputo esporsi senza alcun ritegno cerca di salvare la pelle; ha davvero perso la testa: gli preme solo scappare il più in fretta possibile. L'uomo che è stato prototipo! dell'impegno per gli altri, si preoccupa ora solo di sé. «Divenne straniero»: noi sappiamo che cosa questo voleva dire per il mondo antico-orientale, e ancora oggi che cosa vuol dire per l'oriente. Vuol dire perdere tutti i diritti di uomo, perché lo straniero, non essendo tra gente che ha con lui legami familiari, non ha nessuno che lo vendichi, è alla mercèdi chiunque, non ha più nessun diritto.
Mosè, partito da una posizione di privilegio, alla quale aveva rinunciato volentieri pur di entrare nel vivo dell'esistenza del suo popolo, ora viene scacciato: il suo stesso popolo lo respinge. Ormai Mosè non è altro che un poveretto impaurito, che nella notte e nel deserto ogni stormire di fronda fa trasalire. Ecco cosa ne è del coraggioso, di colui che sapeva, che conosceva i metodi, perché era potente in parole e in opere.
L'ultimo versetto ci dà un tratto molto interessante: «Mosè si rifugiò in Madian, dove ebbe due figli ». Qui potremmo chiederei cosa c'entra che « ebbe due figli ». Come mai gli Atti, che riportano elementi ben attinenti alla scena, aggiungono questo fatto, che ebbe due figli? Ho l'impressione che qui il testo voglia dire che Mosè si è seduto e ha detto: basta con le grandi idee e le grandi imprese, basta con la politica; tutti i miei sogni di liberatore sono finiti; ho diritto anch'io alla mia vita. Mosè ha voluto cercare un piccolo luogo tranquillo per dimenticare il passato e quelle amare esperienze che mai avrebbe immaginato di incontrare. Ecco il secondo periodo della vita di Mosè.
3. L'irruzione di Dio nella vita di Mosè
La terza tappa della vita di Mosè comincia con il v. 30: «Passati 40 anni, gli apparve nel deserto del Monte Sinai un angelo in mezzo alla fiamma di un roveto ardente ». E qui ci fermiamo, perché davanti a questo roveto dovremo rimanere a lungo con la prossima meditazione.
Che cosa caratterizza questo terzo periodo della vita di Mosè? Lo definirei così: il momento della scoperta dell'iniziativa divina nella sua vita. Mosè è giunto alla soglia della verità. Calco la parola « scoperta », che ci ricorda le parole evangeliche: scoprire nel campo il tesoro nascosto, che c'era, sebbene non lo si vedesse; scoprire la perla preziosa che improvvisamente appare tra le altre, e scoprila nella propria vita, non nella vita di un altro: qui dove sono c'era questo tesoro, e io sono vissuto tanti anni senza accorgermene. Ecco descritto il momento di Mosè.
Cerchiamo di vederlo più da vicino questo momento, chiedendoci quale sia stata la preparazione dispositiva che il Signore ha operato gradualmente in Mosè, durante questi 40 anni nel deserto di Madian. E poiché Mosè ci è diventato più familiare, più vicino alla nostra esperienza, possiamo chiedere a lui che cosa abbia fatto in quei 40 anni nel deserto, come passava il tempo, la notte quando non dormiva cosa pensava, perché si è rifugiato nel deserto invece di darsi al commercio e ai viaggi.
A queste domande risponde Gregorio Nisseno. Sappiamo dalla Bibbia (cfr. Es. 2, 16-20) che quando Mosè arriva nella terra di Madian si incontra con le figlie di Jetro e le aiuta
- è sempre generoso Mosè -; allora questo sacerdote dall'occhio fine lo apprezza, lo rivaluta, lo rilancia e gli dà in sposa una delle sue figlie. Dice Gregorio: «Jetro gli concesse la scelta di fare quel genere di vita che voleva, e Mosè scelse la solitudine». Forse Gregario parlava di sé: dopo tante esperienze difficili, l'amore alla solitudine in lui era ormai un'acquisizione certa.
Alle nostre domande, dunque, si può ritenere che Mosè avrebbe risposto così: «Che cosa ho fatto per 40 anni nel deserto? Ho accettato la solitudine, anzi l'ho scelta, secondo il consiglio di Gregorio ». Mosè non ha temuto la solitudine.
Quando c'è un vuoto nella vita
Qui apro una parentesi. È noto che esiste una differenza tra isolamento e solitudine. L'isolamento come tale ha un carattere negativo: è l'uomo che vive disperatamente solo, magari in mezzo alla gente, ove comunque si sente non compreso e fallito; al contrario, la solitudine per ogni uomo, anche per l'uomo moderno, è un valore fondamentale. Ciò vuol dire che c'è un momento in cui l'uomo giunge a riconoscere che niente lo soddisfa davvero, che tutti i suoi metodi, tutte le sue esperienze, tutte le sue speranze lo hanno soddisfatto solo fino a un certo punto: rimane ancora un vuoto, un vuoto che soltanto Dio può colmare. È un'esperienza che non si fa quando ancora le cose si accavallano una sull'altra e si continua a sperare che ciascuna di esse riempia quel vuoto. Ma quando sopravviene lo scacco, allora ci si viene a trovare in quello stato di attesa e di vigilanza che fu lo stato di Mosè per 40 anni. Si tratta di imparare ad aspettare Dio: «I miei tentativi non hanno avuto successo; il Signore farà! ». Mosè non spera più in se stesso, nei suoi metodi, nelle sue capacità, né nelle capacità di risposta dei suoi fratelli. Forse in un primo tempo Mosè li avrà ricoperti di improperi, li avrà lapidati in tutti i modi. Ma poi, riflettendo, avrà dovuto concludere: «Abbiamo sbagliato tutti quanti; anche io ho fatto degli sbagli, sono stato troppo pretenzioso; ho lasciato il faraone, però speravo di diventare anch'io un capo; non è del tutto ingiusto che le cose siano andate così, perché in fondo volevo ottenere la mia gloria e il mio popolo sarebbe stato il mio monumento»
Ed ecco la solitudine di Mosè. Egli lascia che tutta la delusione, il dolore, la rabbia vengano a galla; non maschera né sopprime tutte queste cose, ma anzi le affronta, perché non ha più paura di guardare nel1a sua vita. Mosè si ritrova allora in una situazione analoga a quella vissuta nel primo libro dei Re da un altro grande profeta, il profeta che gli sta di fronte, insieme con Gesù, sul monte deI1a Trasfigurazione: Elia. Diversamente da Mosè, Elia aveva avuto un grande successo: aveva vinto i profeti di Baal sul monte Carmelo con un gesto spettacolare; sembrava perciò che fosse giunto al culmine deI1a sua potenza. Ma la Bibbia ci mostra subito dopo che il grande e coraggioso Elia, che aveva sfidato i 400 profeti di Baal, ha paura e scappa. Teme che lo uccidano, e fugge talmente veloce che lascia indietro il suo servo e s'inoltra nel deserto; dopo una giornata di cammino si siede sotto un ginepro, desideroso di morire, e dice: .$( Ora basta, Signore, prendi la mia vita perché non sono migliore dei miei padri» (cfr. 1 Re 18-19). Credeva di essere di più degli altri, ma poi si ricrede e con sincerità si libera della sua amarezza. A Mosè capita la stessa cosa. Ed ecco che, nella situazione in cui si trova, gradatamente emerge la preghiera, queI10 spirito di supplica che si ritrova nel salmo 31, che chiamerei la preghiera di Mosè nel deserto. Mosè comincia a capire che c'è stato un piano neI1a sua vita, però questo piano non riguarda soltanto lui, ma anche Jahvé. E lui non aveva mai pensato che l'opera sua fosse opera di Jahvé. La concepiva soltanto come opera sua, fino a che gli si era spezzata tra le mani. Ed eccolo davanti a Jahvé in preghiera, in umiltà, mentre dice: «Signore, che cosa significa tutto questo? Perché mi hai fatto giungere a questo punto? Se vuoi, fammelo sapere ».
In quale di queste tre tappe mi trovo io?
Ci fermiamo qui con la nostra meditazione. Suggerirei a ciascuno di farsi la domanda cui accennavo all'inizio: Dove sono, in quale tappa deI1a vita di Mosè mi trovo, in quale quarantennio? Qual è l'elemento caratteristico della mia esperienza attuale: la gioia, l'euforia, l'entusiasmo, oppure l'amarezza e la stanchezza, oppure la rassegnazione, rassegnazione buona o rassegnazione d'impotenza?
Che cosa ha capito Mosè? Direi che Mosè ha capito l'iniziativa divina nella sua vita; ha capito che non è lui interessato a Dio, ma è Dio che è interessato a lui: questo è il principio fondamentale della buona novella del Vangelo. Non siamo stati noi a cercare Dio, ma è Dio che cerca noi. Di conseguenza, non è Mosè che ha compassione del popolo, bensì è Dio che ha compassione e dà a Mosè come dono di partecipare a questa sua compassione. Si tratta di una vera e propria Pasqua per Mosè, che ne conoscerà ancora altre nella sua vita; questo è veramente un passaggio radicale: dal tempo in cui Mosè cerca Dio al tempo in cui Dio cerca Mosè. Da questo momento può cominciare la vera missione di Mosè.


seconda meditazione
Mosè e il roveto ardente
I testi sui quali ci fermeremo in questa meditazione sono: At. 7,30-31 e Es. 3,1-10. Altri testi da tener presenti sono: Es. 6,2-13 e 6,28-7,7, più due accenni neotestamentari: Gv. 11,28; Mt. 9,35-10,1. Suggerisco pure il salmo 18, il salmo dell'iniziativa divina.
Chiediamo al Signore di metterci in umiltà e in verità di fronte alla scena del roveto ardente, anche se non ne tratteggeremo in questa meditazione che qualche aspetto del tutto particolare. Vi propongo di procedere secondo tre punti semplicissimi, di intonazione ignaziana: 1) che cosa fa Mosè? 2) che cosa ascolta Mosè? 3) che cosa intende Mosè?
1. Che cosa fa Mosè?
La meraviglia di Mosè
Teniamo davanti parallelamente At. 7,30.31 e Es. 3, 1-3. La prima cosa che fa Mosè è meravigliarsi. Mosè, stando là nel deserto, mentre pascola il gregge del suocero, vede un po' lontano un roveto che brucia e gli sembra che continui a bruciare senza consumarsi; nel suo discorso (cfr. At. 7, 31), Stefano così commenta la scena: «Mosè si meravigliò» (o de Moyses idon ethaumasen). Questo mi piace molto: Mosè, che ha 80 anni, è capace di meravigliarsi di qualche cosa, di interessarsi a qualcosa di nuovo. Immaginiamoci quella grande pianura dell'Oreb, a 1700 metri di altitudine, sovrastata da grandi montagne, con terrazze successive di sabbia e di roccia: su una di queste terrazze c'è il nostro roveto. Pensiamo un istante che cosa avrebbe potuto fare Mosè. Avrebbe potuto dire: «C'è del fuoco; è pericoloso per il gregge se il fuoco si allarga; andiamo via, portiamo le pecore lontano ». Oppure avrebbe potuto dire: « C'è qualcosa di soprannaturale; è meglio non farsi prendere in trappola; partiamo e lasciamo che i più giovani, quelli che hanno più entusiasmo, se ne interessino: io ho già avuto le mie esperienze e mi basta ».
Invece «Mosè si meravigliò », cioè si fece prendere da quella capacità, che è propria del bambino, di interessarsi a qualcosa di nuovo, di pensare che c'è ancora del nuovo. Qualcuno potrebbe dire che si tratta di un particolare aggiunto al racconto. Io vi vedo piuttosto una profonda riflessione psicologica di Stefano, il quale ha intuito che Mosè, essendo stato 40 anni nel deserto, macerato dall'insuccesso e progressivamente purificato in virtù di quella situazione di vigilanza e di attesa su cui già abbiamo meditato, era ormai maturo per una nuova infanzia, maturo per ricevere la novità di Dio. Mosè avrà pensato così: «Io sono un pover'uomo fallito, ma Dio può fare qualcosa di nuovo ».
Dunque Mosè si meravigliò e poi - continua il l1acconto degli Atti - invece di non badarci ed andarsene, proserkomenou de autou... katanoesai, « si avvicinò per vedere », come di solito le versioni traducono. Ma katanoesai dice molto di più che « vedere »; indica infatti il nous, la mente. Quando in Lc. 12, 24 Gesù dice: katanoesate tous korakos, «guardate i corvi», non vuol dire semplicemente «vedete », bensì guardate, considerate, riflettete, cercate di comprendere, ecc. Qui si vede la libertà di spirito raggiunta da Mosè attraverso la purificazione. Se fosse stato un uomo amareggiato e rassegnato, si sarebbe limitato a concludere: «Una cosa strana, ma non mi riguarda ». E invece no: vuol capire, vuol vedere di che si tratta. Ecco un uomo vivo, anche se vecchio.
La curiosità di Mosè
Passiamo adesso al libro dell'Esodo e leggiamo: « Mosè disse tra sé: ' Voglio avvicinarmi a vedere questo grande spettacolo, perché il roveto non brucia ' » (Es. 3, 3). Il testo greco ha: ti oli?, « come mai? ». Mosè è un uomo che lascia emergere le domande in se stesso; non è più l'uomo che ha già tutto sistemato e catalogato, che ha capito tutto; è un uomo ancora capace di porsi delle domande che esigono un'attenta risposta. Il testo nella traduzione della CEI dice: «Voglio avvicinarmi a vedere questo grande spettacolo ». La versione non mi sembra molto buona. La Bible de Jérusalem, nell'edizione francese, dice: «Je vais faire un détour », che corrisponde meglio al verbo ebraico sur, che significa « fare una diversione, un giro lungo» e che dà l'idea di un'esplicita volontà: voglio rendermi conto. Mi sembra che si possa supporre una situazione di questo tipo: nel deserto vi sono differenti pianori, uno sull'altro, e spesso bisogna fare un lungo giro per salire al pianoro superiore; Mosè si trova in un pianoro più basso con le sue pecore, vede su un pianoro più alto il roveto e dice: «Andrò su, farò il giro, voglio vedere di che si tratta ». Il che significa lasciare il gregge, forse anche in pericolo, salire sotto il sole, ecc.
Nelle parole «voglio avvicinarmi a vedere questo grande spettacolo », dunque, scorgiamo l'animo di Mosè; è come se Mosè dicesse: «lo sono un pover'uomo, un fallito, però Dio può fare delle cose nuove, ed io voglio interessarmene, voglio capire, voglio comprendere, voglio sapere il perché ». Notate che qui ritorna la grande domanda che Mosè si era fatta per 40 anni: «Ma perché Dio ha permesso quello scacco? Perché, se ama il suo popolo, non si è servito di me per salvarlo? Perché non ha colto l'occasione che io gli davo? ». Questo « perché », che Mosè ha coltivato, raffinato e purificato, ecco che emerge di nuovo di fronte a quella imprevista visione. Ma l'uomo Mosè è andato assumendo ormai le caratteristiche dell'uomo profondo, maturo, purificato e aperto al nuovo.
Partendo dall'episodio di Mosè, si potrebbe riflettere molto sull'atteggiamento dell'uomo di fronte al mistero di Dio. Quest'uomo potrebbe dire: «Non mi interessa ». Ma può anche dire: «Voglio vedere, voglio rendermi conto, voglio sapere »; in questo caso si tratta di quel primo movimento dell'animo umano, di quella volontà incondizionata di conoscere e di capire, che, come si dice giustamente, sta all'origine di tutto ciò che c'è di umano nel mondo. Se nel mondo c'è qualcosa al di là dell'animalesco, al di là del puro mangiare, bere e riprodursi; se c'è qualcosa di umano; se, come dice Paolo nella lettera ai Filippesi, ci sono affetti, rapporti di amicizia e di comprensione (cfr. Filip. 2, 1 s.), tutto nasce da questa semplicissima affer
mazione: «Voglio capire ». La stessa civiltà umana si costruisce a partire da questo fondamento.
Mosè, quindi, è l'uomo ricondotto alla radice prima della sua umanità e posto davanti al mistero di Dio. In lui si manifesta quell'incondizionato desiderio di sapere, che sta all'origine di tutto ciò che è umano. .Mosè vuol sapere e per questo fa ancora uno sforzo: abbandona la comodità della pianura, in cui siede all'ombra della sua tenda, e comincia la salita faticosa della montagna; lascia anche le pecore, pur di arrivare fin là e sapere. Questo « sapere» in Mosè è qualcosa che gli cuoce dentro, è una passione che non si è addormentata, ma che anzi la purificazione ha reso più semplice, più libera. Mosè non va sulla montagna alla ricerca di un nuovo successo personale; ci va perché vuole sapere come stanno le cose, vuole mettersi di fronte alla verità così com'è.
Osservazioni dalla letteratura rabbinica
Ci sono due testi rabbinici che si potrebbero citare. Il primo è una pagina in cui si parla dell'aggadà pasquale, ossia l'ordine secondo cui si celebra la Pasqua ebraica. Alcuni ragazzi ascoltano il racconto della. notte di Pasqua. Uno di essi ha sonno; un altro invece dice: «Ma che cosa interessa a me questa storia dell'Egitto? » Un altro ancora fa domande e chiede: «Perché celebriamo questa festa e che cosa significa questa festa per noi? » È questo l'atteggiamento di Mosè, che si pone quella domanda fondamentale: ti oti?, « come mai? ».
L'altro testo rabbinico, molto bello, è di Rabbi Akiba, vissuto poco dopo Gesù e morto verso il 135, martirizzato dai Romani (si tratta di una per
sonalità chiave per lo sviluppo del giudaismo dopo Gesù). Do qui una sintesi della sua storia. Rabbi Akiba era poverissimo; per quarant'anni condusse una vita di stenti: poi, a quarant'anni, si trovò una volta di fronte ad una fontana che mandava acqua e vide che la pietra sotto la fontana era scavata; allora chiese: «Chi ha scavato questa pietra? ». Gli risposero: «È l'acqua che cade ogni giorno. Non ricordi le parole di Giob. 14,19, secondo cui le acque scavano anche la pietra? ». Allora Rabbi Akiba pensò: «Se dunque l'acqua che è così tenera scava la pietra che è così dura, non avverrà forse che le parole della Torah, che sono dure come pietra, potranno scavare il mio cuore che è molle di carne? ». Fu così che a quarant'anni incominciò a studiare la Torah. Andò con il figlio da un maestro e lo pregò: «Maestro, insegnami la Torah ». Allora egli prese il lembo di una tavoletta, il figlio ne prese un'altra e il maestro scrisse: Alef, e Rabbi Akiba ripoté: Alef. Poi il maestro scrisse la prima e l'ultima lettera dell'alfabeto ed egli imparò. E così imparò il Levitico, e poi tutta la Torah. Quando ebbe imparato tutta la Torah, venne di fronte a Rabbi Eliezer e Rabbi Joshuà, e ,disse: «Maestri miei, rivelatemi il senso della Mishna - cioè degli scritti che conservano la tradizione orale di commento alla Torah -»; e i maestri cominciarono a spiegare la Mishna e gli lessero una alakà - cioè un brano con una regola morale che spiegava una parte del Pentateuco -. Quando Rabbi Akiba ebbe ascoltato questa alakà, se ne andò fuori a passeggiare, pensando tra sé: «Questa Alef perché è stata scritta? Questa Bet perché è stata scritta? Questa cosa perché è stata detta? ». Tornò indietro e lo domandò ai suoi maestri, ed essi non seppero rispondere.
Notate come in questa storiella troviamo un paral
lelo alla scena di Gesù tra i dottori. Gesù probabilmente faceva domande semplicissime e proprio per questo riduceva al silenzio i grandi maestri. Gesù, come poi Rabbi Akiba, aveva il coraggio di porre le domande essenziali, quelle che non si fanno mai, perché sembrano troppo ovvie, ma dalle quali nasce tutto il resto.
2. Che cosa ascolta Mosè?
Ed eccoci al secondo punto della nostra meditazione.
Qui, siccome il testo degli Atti è riassuntivo, passo a Es. 3, 4-6. Dice il testo: «Il Signore vide che si era avvicinato per vedere e Dio lo chiamò dal roveto e disse: ' Mosè, Mosè ' ». Mosè ascolta il suo nome. Immaginate lo shock di paura e insieme di stupore di Mosè, quando si sente chiamare nel deserto, in un luogo dove non c'è anima viva. Mosè si accorge che c'è qualcuno che sa il suo nome, qualcuno che si interessa di lui; egli si credeva un reietto, un fallito, un abbandonato: eppure qualcuno grida il suo nome in mezzo ai deserto. Si tratta di un'esperienza violenta, che forse abbiamo fatto anche noi quando trovandoci in un luogo - per esempio una grande città - in cui credevamo di essere del tutto ignorati, d'improvviso ci siamo sentiti chiamare da qualcuno per nome. Ora Mosè si sente .chiamato per nome due volte: «Mosè, Mosè ».
Che cosa vuol dire questa doppia chiamata? A me viene in mente questa riflessione. Nella Bibbia è abbastanza raro che una persona sia chiamata due volte. Vi ricordo alcuni casi. Il primo testo in Gen. 22, 1 (« Abramo, Abramo ») riguarda il momento culminante della vita di Abramo, quando questi è chiamato a sacrificare il figlio: è il momento in cui tutto il cammino fatto fino allora dev'essere provato, per vedere se è un cammino sincero; ecco allora la doppia menzione del nome: «Abramo, Abramo ». Un altro passo che vi ricordo è 1 Sam. 3, 10; Samuele viene chiamato nella notte: «Samuele, Samuele ». Anche qui siamo di fronte ad una svolta della storia di Israele: finito il periodo confuso dei Giudici, sta per aprirsi il periodo della monarchia, che comporterà un nuovo avvicinarsi di Dio al suo popolo. Un altro passo è Lc. 22, 31:
« Simone, Simone, ecco che Satana ti ha chiesto per vagliarti come il grano». Anche qui abbiamo a che fare con un momento culminante della vita di Pietro. Ancora un altro passo che mi sembra importante è Lc. 10, 41: «Marta, Marta ». Anche qui, sebbene l'episodio sia in sé assai semplice - un episodio da cucina -, tuttavia esso è per Luca molto importante, perché fa da pendant all'episodio del Samaritano (cfr. Lc. 10, 25-37). Maria rappresenta l'ascolto della parola; Marta invece è la persona che, piena di buona volontà, si dedica alle opere di carità, come il Mosè della prima maniera, e vi si è buttata talmente dentro da stravolgere tutti i significati delle cose. Questo passo è veramente importante in quanto fa vedere come Marta, presa dall'assillo di far bene, di far benissimo, di fare un gran pranzo per Gesù, ad un cerco punto ha rovesciato tutti i 'valori: mentre Gesù è venuto in casa come Maestro, è Marta che diventa la maestra e vorrebbe insegnare a Gesù ciò che deve dire e ciò che deve fare, rovesciando così completamente il senso del Vangelo. In fondo, questo è lo scacco del Mosè della prima maniera, che credeva di avere lui tutta in mano la situazione e di poter insegnare a Dio come si doveva fare. Mosè non conosceva certo il passo di Marta, né quello di Simone, ma conosceva la tradizione su Abramo, e quindi poteva rendersi conto del significato di quella doppia chiamata.
È Dio che prende l'iniziativa
Mi sembra che i fatti ricordati siano tutti fatti decisivi. Anche Mosè sente che è giunto un momento decisivo per la sua vita: è il momento in cui deve essere veramente disponibile, senza fare gli errori della prima volta; perciò è pieno di paura: «Cosa mi sta per capitare? ». E qui Mosè ascolta qualcosa che forse non si aspettava. Lui che si era lanciato con tanto ardore per vedere il roveto ardente, avrebbe avuto piacere di sentirsi dire: «Grazie che sei venuto, che non ti sei lasciato vincere dall'amarezza »; e invece ascolta quella voce che gli dice: «Non avvicinarti, togliti i sandali dai piedi, perché il luogo dove tu stai è una terra santa ». Qui ritornano alla mente le parole di Gesù alla Maddalena: «Non toccarmi, non trattenermi» (Gv. 20,17). La Maddalena si avvicina a Gesù con amore, ma sempre incapsulandolo nella sua visuale precedente. E invece doveva cambiare il proprio atteggiamento.
In effetti quando l'uomo si lascia trascinare dal desiderio di ricerca, crede di possedere già le cose che cerca, e le possiede in qualche maniera attraverso la sua conoscenza; è così che finisce con l'inserire i fenomeni religiosi che vive, e quindi anche l'attività divina, nel proprio quadro mentale. Questo è un processo inevitabile. Noi infatti non possiamo capire le cose, se non partendo da un quadro mentale che già possediamo e riportandole ad esso. Mosè, con tutto il suo ardore, cercava di fare la stessa cosa: di vedere, cioè, quel fenomeno del roveto ardente come inquadrato nella sua visuale di Dio, della storia e della presenza di Dio nella storia. E allora Dio gli dice: «Mosè, cosi non va; levati i sandali, perché non si viene a me per incapsularmi nelle proprie idee; non sei tu che devi integrare me nella tua sintesi personale, ma sono io che voglio integrare te nel mio progetto ».
Questo è il significato del levarsi i sandali e di quell'avvicinarsi titubante, come quando si cammina sulle pietre senza scarpe, incerti; è l'incertezza dell'uomo che si chiede: «E adesso che cosa mi capiterà? ». Il fatto è che nella disponibilità al mistero di Dio non si può entrare marciando trionfalmente. Ancora oggi i musulmani, entrando nella moschea, hanno il costume di togliersi le scarpe, come chi si presenta davanti a Dio in punta di piedi, in silenzio, non imponendo a Dio il proprio passo, ma lasciandosi assorbire, integrare dal passo di Dio.
Mosè, dunque, ascolta: «Non avvicinarti, togliti prima i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è una terra santa ». Immaginate lo sconvolgimento di Mosè nel sentire queste parole. E. questa una terra santa? Questo deserto maledetto, luogo di sciacalli, di desolazione, di aridità, dove soltanto i banditi amano venire, dove la gente per bene non abita? Questo deserto dove mi credevo abbandonato, miserabile, fallito: questa è una terra santa? È questa la presenza di Dio? È questo il luogo dove Dio si rivela?
3. Che cosa intende Mosè?
A questo punto Mosè capisce che cos'è l'iniziativa divina: non è lui che cerca Dio, e quindi deve andare, per trovarlo, in luoghi purificati e santi; è Dio che cerca Mosè e lo cerca là dov'è. E il luogo dove si trova Mosè, qualunque esso sia, fosse anche un luogo miserabile, abbandonato, senza risorse, maledetto - potete leggere nella Bibbia vari passi in cui si parla della desolazione che caratterizza il deserto, luogo dove abitano gli sciacalli, i serpenti e gli scorpioni -, quello è la terra santa, lì è la presenza di Dio, lì la gloria di Dio si manifesta.
Vorrei che ci fermassimo un momento a contemplare come Mosè ha vissuto il proprio cambiamento di orizzonte, la sua vera conversione, il suo nuovo modo di conoscere Dio. Finora Dio era per Mosè uno per il quale bisognava fare molto: bisognava fare la rivoluzione, sacrificare la propria posizione di privilegio, lanciarsi verso i fratelli, spendersi per loro, per poi essere ancora scornato e buttato via. Adesso finalmente Mosè comincia a capire; Dio è diverso: finora l'ha conosciuto come uno che ti sfrutta per un po' di tempo e poi ti abbandona, un padrone più esigente degli altri, ... più del faraone; adesso comincia a capire che è un Dio di misericordia e di amore, che si occupa di lui, ultimo tra i falliti e dimenticato dal suo popolo.
Per comprendere qualcosa di questa intuizione di Mosè, vi cito Gv. 11, 28, dove Maria di Betania piange il fratello e lo piange talmente che è rimasta in casa; per lei tutto è finito; è, sì, una donna di fede e crede che suo fratello risorgerà, ma umanamente è disperata, nessuna parola può confortarla, tutta la gioia della vita in famiglia è ormai finita. Eppure, il racconto prosegue: «Marta se ne andò a chiamare di nascosto Maria sua sorella, dicendo: 'Il Maestro è qui e ti chiama ' ». Pensiamo alla sorpresa di Maria, la quale si credeva abbandonata, disperata, senza conforto e invece le viene detto che lì vicino, accanto alla tomba della sua disperazione, c'è il Maestro che la chiama per nome, che ha una parola per lei. Ecco cosa significa capire l'iniziativa divina nella propria vita.
Poi Mosè continua ad ascoltare altre parole: «Disse ancora Dio: 'Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe ' » (Es. 3, 6). Notate come sono interessanti queste altre parole, che servono a bilanciare di nuovo l'animo sgomento di,Mosè. Mosè ha capito che non aveva capito niente di Dio; in ogni caso, pensava che quello fosse un Dio nuovo, diverso. Ma ecco che Dio gli dice: «Sono il Dio dei tuoi padri; se tu mi avessi capito, ti saresti accorto che sono lo stesso Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe; anche con essi ho agito così ». Il Signore è stato un Dio che si occupa di chi è abbandonato, di chi si sente disperato e fallito. Ed è bello questo parlare rassicurante, perché un uomo che, come Mosè, sa di avere sbagliato tutto, rischia di perdere la memoria; ma proprio allora il Signore gli richiama per intero p passato, che deve essere ricordato e ripensato, affinché appaia chiaramente che esso è stato il. luogo dell'iniziativa di Dio.
Non dimentichiamo mai che il nostro Dio è lo stesso Dio di tutte quelle persone che ci hanno educato alla fede, il Dio dei nostri genitori che ci hanno insegnato a pregare, il Dio dei nostri formatori e di tutti coloro che ci hanno preceduto nella via del Vangelo. Per quanto possiamo aver sempre ristretto a nostro uso e consumo questo nostro Dio, c'è un momento in cui siamo finalmente chiamati, davanti al roveto ardente, a capirlo veramente quale egli è.
Il Dio della misericordia
Seguitiamo ancora con i vv. 7ss., per capire com'è veramente questo Dio: «Il Signore disse: ' Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti. Conosco infatti le sue sofferenze, sono sceso per liberarlo dalla mano dell'Egitto e per farlo uscire da questo paese, verso un paese bello e spazioso dove scorre latte e miele. .. Ora il grido degli Israeliti è arrivato fino a me ed io stesso ho visto l'oppressione con cui gli Egiziani li tormentano ». Notate qui com'è attenta la dizione, tutta in prima persona: «Ho visto, ho sentito, conosco, sono sceso, ecc. ...» E notate pure l'implicito rimprovero per Mosè: «Tu, Mosè, credevi di essere un uomo molo to colto e molto versato nella conoscenza dell 'uomo; credevi di capire i tuoi fratelli, la loro miseria; credevi di essere tu a prendere l'iniziativa di capirli, e di supplicare poi me affinché anch'io li capissi; eppure sono io che li capisco per primo, sono io che capisco tutte queste cose, sono io che vedo e che sento. Tu, Mosè, credevi di essere il primo ad aver scoperto la bellezza della libertà, desideroso come eri di farla gustare, e non ci sei riuscito; ma tutto questo veniva da me. Tu non hai mai pensato che questa era l'opera mia, e invece ti sei buttato a corpo morto, pensando che l'opera fosse tutta tua, che tutto dipendesse da te. Adesso ti accorgi che io vedo, io sento...; anzi, se c'è in te qualche compassione per il popolo, questa deriva da me; se c'è in te qualche senso di libertà, sono io che te lo do; se c'è in te qualche curiosità, essa è mia ».
Notiamo un ultimo aspetto che emerge dalla lettura patristica di queste parole, alla luce del Nuovo
Testamento. «Sono sceso» dice il Signore (v. 8): è Gesù che è sceso per poter dire: «Ho veduto, ho sentito la miseria del mio popolo, la conosco da vicino e il suo grido è alle mie orecchie».
A questo punto cosa succede? Dio dice: «Ora va' » (v. 10). Vedete come agisce l'educazione divina! Una volta che Mosè si è purificato dalla possessività della propria presunzione di salvare gli Israeliti, una volta che si è reso sensibile alla realtà vera delle cose, ecco che Iddio lo rimanda, come se niente fosse, come se mai avesse fallito. Dio gli ridà la piena fiducia: «Io ti mando dal faraone ». Mosè si sente ripreso completamente in mano da Dio e rimandato non per un'opera sua, ma per l'opera di Dio.
Mosè viene assunto per l'opera di Dio
Per capire meglio tutto questo, vi ricordo un altro testo bellissimo, su cui varrebbe la pena di meditare a lungo. Si tratta del passo che ci descrive la compassione pastorale di Gesù in Mt. 9, 35-10, 1. Esso si trova alla chiusura della prima parte del Vangelo secondo Matteo, che ci ha presentato Gesù, come Mosè, potente in parole e in opere: Gesù potente in parole (capp. 5-7: il Discorso della montagna), Gesù potente in opere (capp. 8-9: i dieci miracoli). Leggiamolo e fermiamoci su qualche spunto di riflessione: «Gesù andava attorno per tutte le città e villaggi, insegnando e curando ogni malattia e infermità». Ciò significa che Gesù, disceso in mezzo alla gente, è potente in opere e in parole. « Vedendo le folle ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite, come pecore senza pastore. Allora disse ai suoi discepoli: . . .» E qui ci saremmo aspettati che Gesù dicesse ai discepoli: « Andate! »; e invece dice: «Pregate! », «Pregate, dunque, il padrone della messe che mandi operai nella sua messe ». È molto importante questa battuta di attesa. Gesù vuol dire: «Non pensate di buttarvi nell'opera come se fosse vostra; l'opera è del padrone, del Padre. Non presumete di buttarvici dentro come il Mosè della prima maniera; ma lasciatevi inviare da Dio ». « Pregate. . . che mandi operai» non significa: «Signore, manda altri », ma: « Facci degni di essere mandati, così che possiamo andare verso quest'opera non in quanto è quella che piace a me e che io mi sono programmato, ma in quanto è l'opera che Dio mi dà ». E difatti subito dopo il testo dice: «Chiamati a sé i dodici apostoli diede loro il potere di cacciare gli spiriti immondi e di guarire ogni sorta di malattie e di infermità ». Poi continuando cita i nomi dei dodici apostoli e dice: «Strada facendo predicate che il Regno dei cieli è vicino. Guarite gli infermi, risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demoni. Gratuitamente avete ricevuto gratuitamente date» (Mt. 10, 7s). Gesù dice: «L'opera mia, la mia compassione apostolica, la trasmetto a voi; vi trasmetto, cioè, la mia capacità di capire la gente; ora con questa capacità andate, predicate il Regno, curate i malati, e tutto fate gratuitamente ».
È evidente il parallelismo con la storia di Mosè. Anche Mosè, infatti, sarà assunto per l'opera di Dio soltanto dopo essere stato purificato e rinnovato nell'intimo, così da lasciarsi educare alla compassione missionaria.


terza meditazione
Mosè, il faraone e noi
Il tema di questa meditazione è «Mosè, il faraone e noi ». Si tratta di un tentativo di commento al racconto delle piaghe d'Egitto in Es. 5-11. Ognuno potrà leggere con calma questi capitoli, saltando il cap. 6 che contiene un secondo racconto della vocazione di Mosè sulla quale già abbiamo meditato.
Meditando sul tema che ci siamo proposto, intendiamo suscitare in noi uno spirito penitenziale, non nel senso che vogliamo conoscere in maniera sadica in noi stessi il peccato, ma nel senso che vogliamo misurare l'abbondanza della grazia e metterei con sincerità di fronte alla sovrabbondante pienezza della misericordia di Dio, cioè del Vangelo (si tenga presente Rom. 5,20 b.: «Dove ha abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia»). È proprio per questo che mi sembra assai utile la meditazione dell'episodio che segue la chiamata di Mosè e che riguarda appunto la sua missione presso il faraone e le piaghe d'Egitto.
Come fare questa meditazione?
Questo racconto è abbastanza lungo: più di cinque capitoli. Lo si potrebbe esaminare esegeticamente, individuando le diverse tradizioni che vi sono confluite, conferendogli quasi un'andatura epica, al modo di un grande poema. Talvolta si ha l'impressione di ascoltare una sinfonia in dieci parti, in cui alcuni temi vengono accennati, poi ripresi e sviluppati; tutto, comunque, serve a commentare la parola di Dio: «Vi farò uscire con braccio potente ». Da parte mia, mi limito a proporvi di considerare in questo racconto un aspetto particolare tra i moltissimi che potrebbero essere considerati -: quello che chiamerei l'aspetto delle « relazioni umane ». In altre parole, non mi fermerò affatto  e suggerisco anche a voi di non fermarvi - su tutte quelle questioni che potrebbero essere poste allo scopo di definire la consistenza e il significato delle varie « piaghe »: cosa sono le mosche, le acque del Nilo tinte di rosso, le ulcere, le cavallette ecc.; farò attenzione, invece, alle persone in gioco ed ai rapporti tra quelle persone (come sant'Ignazio ci insegna: «Considerare le persone»...). Nel nostro racconto le persone sono principalmente due, che corrispondono ai primi due punti della meditazione: 1) chi è e cosa fa il faraone? 2) chi è e che cosa fa Mosè?
Il titolo di questa meditazione suona: «Mosè, il faraone e noi ». Si tratta, quindi, di appurare che cosa c'è in noi del faraone, che cosa c'è in noi di Mosè e come questi rapporti tra Mosè e il faraone ci toccano, come toccano la nostra esperienza pasquale di passaggio dalla morte alla vita, dall'esistenza inautentica all'esistenza autenticamente evangelica.
A modo di appendice aggiungerò un terzo punto sull'indurimento del faraone: un tema che ricorre in tutte queste pagine:« Il cuore del faraone si indurì ».
1. Chi è il faraone in noi?
Chi è il faraone? Colgo di lui dai testi due caratteristiche. Anzitutto è un gran gentiluomo, un uomo intelligente, perspicace, abile, anche democratico se vogliamo: insomma, un uomo attraente. Mi spiego: Mosè e Aronne vanno da lui, gli annunziano le mosche, le cavallette. .. e lui li ascolta, discute, entra in dialogo con loro. È dunque un uomo che conosce il gioco democratico, il fair-play. Veramente straordinaria la sua liberalità di spirito! Guardiamo, ad esempio, l'episodio in cui Mosè e Aronne vanno per la prima volta dal faraone e gli parlano: «Così dice il Signore, Dio d'Israele: 'Lascia partire il mio popolo perché mi celebri una festa nel deserto'. Il faraone rispose: 'Chi è il Signore, perché io debba ascoltare la sua voce per lasciare partire Israele? ' » (Es. 5, 2). In fondò il faraone ha ragione dal suo punto di vista: «Mi parlate di Jahvé; questa è la vostra religione, ma non potete imporre a me una religione che non è la mia: io ho i miei principi »!
Così anche dopo la piaga delle mosche (8, 21-24); il faraone fa chiamare Mosè ed Aronne e dice: «Andate a sacrificare al vostro Dio nel paese». Ciò significa che cerca di trattare, di arrivare ad un accordo. «Mosè rispose: ' Non è opportuno fare così; perché quello che noi sacrifichiamo al Signore nostro Dio è abominio per gli Egiziani. Se noi sacrifichiamo sotto i loro occhi quanto gli Egiziani abominano, non ci lapideranno forse? Andremo nel deserto a tre giorni di cammino e sacrificheremo al Signore nostro Dio, come ci ha ordinato '. Disse il faraone: 'Vi lascerò partire e potrete sacrificare al Signore nel deserto, ma non andate troppo lontano e pregate per me' ». Quale capacità di trattare! Prima dice: «Sacrificate qui »; poi «Sacrificate pure nel deserto, ma non così lontano: tre giorni sono troppi; e pregate per me ».
Una persona che vorrebbe essere onesta...
Dopo l'ottava piaga (le cavallette) assistiamo ad un altro spezzone di dialogo (1O, 8-11). « Il faraone fa chiamare Mosè e Aronne, e dice 'Andate e servite il Signore vostro Dio. Ma chi sono quelli che devono partire? '. Mosè disse: 'Andremo via con i nostri giovani, i nostri vecchi, i figli, le figlie, il nostro bestiame, le nostre greggi, perché per noi è festa del Signore '. Rispose il faraone: ' Il Signore sia con voi come io intendo far partire voi e i vostri bambini ' ». È straordinaria la cortesia con cui quest'uomo agisce; ma poi seguita: «Badate che voi avete di mira un progetto malvagio ». Il faraone, che è un uomo molto acuto ed intelligente, capisce che, benché Mosè e Aronne parlino di tre giorni, in realtà essi vogliono partire per sempre; perciò cerca ancora di trattare: «Partite voi uomini e servite il Signore, se davvero voi cercate questo ». Successivamente, dopo la nona piaga; assistiamo ad un altro momento della trattativa: «Allora il faraone convocò Mosè e disse: ' Partite, servite il Signore, solo rimanga il vostro bestiame minuto e grosso. Anche i vostri bambini potranno partire con voi ' » (10, 24).
Il faraone non solo sa trattare abilmente, non solo cerca di venire incontro, di capire la situazione degli altri: sa anche riconoscere i suoi torti. Infatti, alla piaga del1e rane, il faraone fa chiamare Mosè ed Aronne, e dice: «Pregate il Signore perché allontani le rane da me e dal mio popolo; io lascerò andare il popolo, perché possa sacrificare al Signore» (8,4). Mentre prima aveva detto: «Non conosco Jahvé », qui addirittura chiede: «Pregate per me »; capisce che in ciò che sta succedendo c'è qualcosa di importante, che prima non riusciva a vedere. Poi ancora, alla piaga della grandine, il faraone farà una bellissima confessione: «Questa volta ho peccato. Il Signore ha ragione; io e il mio popolo siamo colpevoli. Pregate il Signore di far cessare i tuoni e la grandine. Vi lascerò partire e non resterete qui più oltre» (9, 27s.). Quest'uomo addirittura sembra giunto al pentimento.
Ancora più esplicito sarà il suo discorso dopo la piaga delle cavallette: «Il faraone allora convocò in fretta Mosè ed Aronne, e disse: ' Ho peccato contro il vostro Signore, vostro Dio, e contro di voi, ma ora perdonate il mio peccato ancora questa volta e pregate il Signore vostro Dio perché almeno allontani da me questa morte ' » (10, 16). Sono parole bellissime, quelle stesse che dirà il figliol prodigo: «Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te ».
... ma incontra certe difficoltà
Il faraone è dunque un uomo veramente nobile, intelligente, perspicace, capace di arrendersi all'evidenza. Però è anche un uomo condizionato dalla sua posizione, dai suoi privilegi, dal suo essere faraone: ecco il suo vero dramma. Il faraone vorrebbe lasciar partire, ma non può, perché andrebbe contro troppi interessi. Lo vediamo, per esempio, nella prima drammatica istruzione ai capi dei lavori forzati: «Rispose: 'Fannulloni! Siete fannulloni voi; per questo dite: Dobbiamo partire, dobbiamo sacrificare al Signore. Ora andate, lavorate '» (5,17 s.). Insomma, il faraone capisce che se va avanti quel progetto, l'economia d'Egitto ne soffrirà e verrà a mancare il lavoro; invece bisogna lavorare e produrre per la grandezza dell'impero.
Immaginiamo il faraone mentre discute con Aronne e Mosè; li fa sedere e dice: «Guardate che voi state per fare una pazzia! Andare nel deserto a morire come topi non è nel vostro interesse; inoltre lasciate l'Egitto in una situazione disastrosa. lo non posso, per la mia responsabilità, permettere che il paese d'Egitto cada nel disordine; in fondo, stando qui, avete pane, lavoro, sicurezza. L'Egitto ha la sua struttura ordinata, che io devo difendere e che non posso non difendere ». Questo pover'uomo arriva, al limite, a riconoscere il peccato, ma poi nega tutto e si ritira: altrimenti crollerebbe l'intero sistema egiziano; la gente morirà di fame, ci sarà carestia, ci saranno disastri; morirà questo popolo dissennato che vuole andare a morire di fame e di sete, e morremo noi; il mio dovere, la mia carica, la mia responsabilità è questa. Ecco chi è il faraone: un uomo intelligente, perspicace, esperto, nobile, ma legato dai suoi privilegi, dalla sua posizione, dal suo ruolo sociale.
Qui vi invito a pensare chi sia il faraone in noi, che cosa egli rappresenti. Nella figura del faraone si riassumono tutte quelle forme che ci condizionano, senza le quali noi agiremmo in un certo modo, eppure esse ci risucchiano. I condizionamenti personali sono moltissimi; anche la psicoanalisi contribuisce a scoprirli in noi; ci attorniano, sempre pronti a scattare. Magari non li avvertiamo e viviamo tranquilli, ma poi, quando capitano certe occasioni, scatta quel certo condizionamento che ci fa dire e fare cose, che non avremmo mai pensato di dire o di fare.
Il potere dei nostri condizionamenti
Quante volte succede che certe persone, parlando in pubblico, proclamano grandi principi, poi di fronte alla minima decisione si ritirano: questo non si può fare! Anche il faraone si diceva: «In fondo io agisco bene, non posso agire diversamente, sono un uomo onesto! ». Il fatto è che siamo condizionati da quelli che si chiamano i «punti neri », cioè da zone d'ombra in cui neppure vediamo le cose, neppure ci accorgiamo che certe cose non dovremmo farle; si tratta di vere chiusure, tante volte inconsce per noi, e magari facilmente riconoscibili da parte degli altri. Capita tante volte che qualcuno a stento trovi materia di confessione, ma se poi si interrogano gli amici, specialmente se si hanno responsabilità, allora viene fuori tutta una serie di cose che non si vedono, non si sanno, non si capiscono, non 'si accettano... Tutto ciò dipende dai nostri condizionamenti personali.
Ci sono poi i condizionamenti di gruppo, che ci coinvolgono, ci prendono dentro e ci fanno giudicare in base a pregiudizi comuni secondo ideologie e opinioni verbali già formate, che ormai non si dissipano più, soprattutto quando arriviamo a dire: «Questo è evidente, non si discute ». Dal tono già si capisce che quello è un discorso condizionato, perché si ha paura di affrontarlo sul serio. Una persona in difficoltà, ad esempio, potrebbe dire: «No, c'è un limite oltre il quale non si va: la mia dignità! ». Parola bellissima, ma sotto cui tante volte nascondiamo tutte quelle cose che non vogliamo mettere in discussione. La mia dignità? Quale? Quella del privilegiato, del benestante, dell'uomo di Chiesa, oppure quella del seguace del Cristo crocifisso?
Ecco i nostri condizionamenti! A loro riguardo è inutile tentare delle introspezioni: non li vediamo. Sono solo le occasioni che ce li dimostrano, facendo apparire quelle zone d'ombra che noi non siamo capaci di - o non vogliamo - prendere in considerazione.
La carità deficiente
Cito qui una parola di sant'Agostino, che è molto forte, ma si addice bene a questo problema. Si trova nella sua opera De perfectione iustitiae hominis, e suona: «Peccatum est autem cum vel non est caritas quae esse debet, vel minor est quam debet, sive voluntate vitari possit sive non possit ». È questa un'affermazione drammatica della impotenza umana di fronte a quelle situazioni, in cui l'amore è chiamato ad esprimersi. Dice dunque sant'Agostino che si può parlare di «peccato» - in senso, si capisce, non puramente morale, ma nel senso più generale di non risposta ai valori che l'amore di Dio ci propone -: «o quando non c'è la carità che ci deve essere», cioè che è esigita da una certa situazione, che sempre comporta un incontro con il fratello; «o quando la carità è minore di quella che ci deve essere, sia che questo si possa evitare, sia che non si possa evitare ».
Per lo più tutto questo noi sappiamo vederlo negli altri, non in noi stessi; ma qualche volta il Signore ci fa intuire che anche noi abbiamo dei limiti, oltre i quali non sappiamo andare. Ciò avviene soprattutto in situazioni di contatto col prossimo, quando c'è da perdonare con sincerità, da accettare chi ci ha criticato, chi ci ha messo il bastone tra le ruote, chi ci ha tradito nella fedeltà; è allora che sorgono in noi delle remore. E siamo così abituati a dimenticare queste cose, che possiamo fare sinceri atti di amore di Dio, senza renderci conto che ci sono in noi queste chiusure, quasi le avessimo ormai archiviate.
Il potere vuole potere, il faraone è faraone: non si può chiedere al faraone di umiliarsi, perché come faraone istintivamente egli riprende possesso dei propri privilegi e come tale non può cederli. Questo appunto è il dramma dell'esistenza umana, singola e soprattutto di gruppo: privilegi di gruppo, poteri di gruppo, nel mondo, nelle nazioni, nella Chiesa, nelle istituzioni religiose, nelle case religiose... È questa la forza del faraone che penetra ovunque, che è presente con i suoi tentacoli ovunque, in tutti noi. Una forza che, dicevo, non è brutta come presenza, anzi è nobile, gentile ed ha delle parole molto sagge; si limita a dichiarare: « No, questo non si può fare ». Ecco il faraone.
Se vogliamo ancora sapere chi è il faraone in noi, possiamo meditare la lista delle dodici attività faraoniche, data in Me. 7, 22-23, ma partendo dal v. 21: «Dal di dentro - cioè dal cuore degli uomini - escono le intenzioni cattive ». Il faraone in noi è questa cattiveria di intenzioni non indotte dal di fuori, bensì originate dentro di noi, che poi si coagulano nei gruppi e nelle varie forme di resistenza e di potere, diffuse in tutti i luoghi. Sono queste le attività faraoniche della possessività e dello sfruttamento dell'altro: «Fornicazioni, furti, omicidi, adultèri, cupidigie, malvagità, inganni, impudicizie, invidie, calunnie, superbia, stoltezza ».
Ognuna di queste parole esprime un atteggiamento che è nel cuore, non soltanto di qualche uomo e di qualche donna, ma di ciascuno di noi. Noi le abbiamo dentro tutte queste tendenze che mirano a sopraffare, a possedere, a impadronirsi dell'altro, almeno con una piccola parola d'invidia, o con una piccola maldicenza, che ci permetta una rivalsa sul piccolo potere che l'altro ha acquistato. Ed ecco che già il faraone si sviluppa in noi.
2. Chi è Mosè in noi?
Se questo è il faraone, chi è Mosè in nòi? .Innanzi tutto, Mosè in noi è lo slancio della nostra libertà, della nostra volontà di comprendere le cose come sono, di adeguarci ad esse e di decidere conformemente. È la domanda di Mosè: «Perché il roveto brucia e non si consuma? Voglio andare a vedere ». Mosè in noi è il desiderio di andare a fondo in tutte le cose e di rimetterle in questione. Lo slancio della nostra libertà è un piccolo arnese pericoloso, perché mette in moto tante altre spinte, però è l'unica cosa che abbiamo di umano, di profondamente nostro: si tratta di quel dono. che nella Scrittura è chiamato « pneuma », lo spirito dell'uomo, cioè la capacità che ha l'uomo di mettersi di fronte alle cose e domandarsi: «Perché agisco così, o perché reagisco così? ».
C'è poi il Pneuma con la lettera maiuscola, che è lo Spirito di Dio, cioè lo sforzo incessante con cui Dio fa di tutto per liberare e per ispirare la possibilità reale del nostro desiderio di autenticità, del nostro pneuma, che è imprigionato da condizionamenti di ogni tipo. Tutto, infatti, può diventare occasione di fariseismo, in quanto aderiamo ad alcune cose, non come a un dono di Dio, ma come a un nostro possesso; perciò non vogliamo che il Signore ci metta in discussione, e tanto meno gli altri. Mosè rappresenta lo sforzo di Dio per liberarci continuamente, per rimettere in gioco la nostra autenticità, per ributtare noi - che tendiamo a diventare come un grumo di cose rattrappite - nella caldaia bollente dello Spirito, che ci scioglie, consentendoci di porci di nuovo di fronte alle cose con animo non rigido, ma libero.
Notate che con questo non intendo affatto un atteggiamento possibilista, disposto ad accettare tutto; intendo invece l'atteggiamento di chi, di fronte a una situazione, la valuta nel bene e nel male, pronto a dire: «No, questo non va », oppure « Questo va bene », ma dopo aver pregato, ascoltato e riflettuto, fino ad esser certo che è veramente lo Spirito che lo muove. Mosè sa cosa vuole; perciò di fronte al faraone sa aspettare, tergiversare, pazientare, insistere e dire di no, perché c'è in lui lo Spirito, che è s1 forza duttile, adattabile, pieghevole, ma insieme tenacissima. Ecco Mosè in noi.
Mosè agisce con la parola. . .
Come si esprime questa forza liberatrice di Dio in noi? Lo leggiamo ancora nella storia di Mosè (capp. 5-10). Abbiamo visto come in fondo il faraone sia un violento, che rifiuta nettamente di accondiscendere alle richieste degli Ebrei, anche se cerca di nascondersi dietro alle forme dell'ascolto e del dialogo, anzi addirittura dietro a gesti di natura religiosa: gesti di pentimento e di richiesta di misericordia. Come si esprime invece la forza liberatrice di Dio in Mosè?
Prima di tutto vediamo come nol1 si esprime questa forza. Essa non si esprime con la violenza. Questo era stato il primo Mosè, colui che pretendeva di salvare il suo popolo con la violenza. Il secondo Mosè è invece un uomo che parla e che si esprime cercando la persuasione. Il primo Mosè non aveva detto neanche una parola, ma si era lanciato senz'altro contro l'egiziano e l'aveva ucciso. Ora abbiamo a che fare con il Mosè della parola, della Parola di Dio: «Il Signore disse a Mosè: recati dal faraone e parla a lui ». E notate l'insistenza instancabile, quasi paradossale per noi, con cui, di fronte al faraone che non vuol capire, il Signore ripete a Mosè: «Va' dal faraone e parlagli... ». È questa la forza instancabile della Parola di Dio, che ci ripete continuamente: «Liberati, renditi autentico, ascoltami! ». .
Se prima abbiamo notato la liberalità del faraone che non fa imprigionare Mosè, né lo fa uccidere, qui possiamo notare il coraggio con cui Mosè ritorna dal faraone, anche se questi è sempre più adirato e sconvolto. Mosè crede nella forza della parola, anche se sa che il faraone è ostinato. Siamo di fronte ad un'ostinazione prevista. Ma anche di fronte ad un'ostinazione prevista, Dio opera mediante la sua parola persuasiva; perciò dice a Mosè: «Va' dal farao
ne e digli . . . », come se Mosè potesse convincerlo. Questa è dunque una caratteristica primaria del Dio liberante, che agisce con la parola e la persuasione anche là dove le circostanze sembrano inaccessibili.
... e con i segni
Oltre alla parola, fin dall'inizio del racconto abbiamo anche dei segni. Sono dapprima dei segni innocui, quasi giocosi: «Aronne gettò il bastone davanti al faraone e ai suoi servi ed esso diventò un serpente» (Cfr. 7, 9 s.). Allora il faraone convocò i sapienti, ed anche essi rifecero il gioco. Il segno viene offerto in primo luogo come semplice segno, ma il faraone, che non vuol perdere il privilegio del suo potere, cerca di produrre anche lui dei segni analoghi per convincersi che non si tratta di un segno, e quindi può restarsene tranquillo. Ma Dio parla con segni che gradualmente diventano vero castighi, sempre più duri e molesti. Questi castighi (le mosche, l'acqua che non si può bere, ecc.) rappresentano il disagio dell'uomo inautentico. Stando anche alla nostra esperienza, possiamo dire che non è Dio che castiga per il gusto di castigare, ma è l'uomo - il faraone e tutto il popolo d'Egitto - che, rifiutandosi di accogliere la parola liberante di Dio, si invischia sempre più nei propri guai, nei propri condizionamenti. In realtà, tutte le volte che non abbiamo ascoltato la Parola del Signore, che ci voleva più veri, più autentici, più rispondenti all'amore, più pronti a offrire un servizio che ad esigerlo, abbiamo sentito in noi dei segni di squilibrio interiore; essi sono la manifestazione delle piccole schiavitù e dei condizionamenti a cui cediamo. Sono tutte quelle forme di malessere che ci rodono interiormente: forme di paura nell'affrontare alcune situazioni, certe forme penose e prolungate di stanchezza, certe forme di malumore, certe incapacità di pregare. .., insomma il non saper essere felici. Tutte le volte che non c'è piena felicità, vuol dire che c'è qualcosa, qualche condizionamento che ci frena, anche se forse cerchiamo di non dircelo, di non ammetterlo.
Qual è il castigo fondamentale, quello a cui tutti gli altri si riducono? È l'incapacità di amare, l'inca
pacità di realizzare effettivamente l'amore di Dio, soprattutto quello del prossimo. Perché l'amore di Dio può anche esser facile; difficile è quello del prossimo, che consiste nel rispondere alle vere situazioni di disagio del mio fratello, anche là dove il mio fratello non merita il mio aiuto, anzi lo demerita. Se noi non siamo capaci di affrontare queste situazioni, ecco che ne consegue scontentezza, disagio e disgusto, che coinvolgono le persone, le comunità, i gruppi, le istituzioni: è il castigo dell'Egitto.
E possiamo aggiungere a questo punto che c'è anche un castigo finale. Ad un certo momento il faraone si chiude: rimane faraone, perché vuole rimanerlo. Vuole conservare i suoi privilegi, senza mettere nulla in discussione, ed allora è travolto nel mare dei Giunchi. Noi sappiamo - e la Chiesa ce lo dice - che di fronte a Dio può venire il momento in cui restiamo induriti nella incapacità di amare veramente: dopo esserci ripetutamente rifiutati, restiamo come irretiti in questa incapacità, in questo indurimento definitivo. È quello che chiamiamo il castigo per eccellenza, un castigo che parte prima di tutto da noi: siamo noi stessi che ci siamo chiusi alle parole, ai segni e ai castighi che il Signore permetteva nella sua misericordia.
3. l'indurimento del faraone
Ed eccoci al terzo punto della meditazione, che concerne l'indurimento del faraone. I testi in cui se ne parla sono assai numerosi (cfr. 4, 21; 7, 3.14.22; 8, 11.15.28; ecc.). Ad essi si potrebbe aggiungere il cap. 9 della lettera ai Romani, ove san Paolo si domanda: «Che cosa significa che Dio può indurire il cuore; come ciò va d'accordo con la libertà dell'uomo? ». Sono problemi che qui non voglio affrontare: chiediamoci piuttosto quale esperienza possiamo avere in noi di questo indurimento del cuore del faraone.
Innanzi tutto chiediamoci in che cosa consista questo indurimento. Esso consiste nel fatto che il faraone riconosce che sarebbe opportuno cedere, anzi persevera a lungo nella disposizione di cedere, ma non può, perché altrimenti cesserebbe di essere il faraone . .. e non vuol cessare di esserlo. Il suo indurimento, quindi, rappresenta emblematicamente quel «potere» che non accetta di non essere se stesso e cerca qualunque trasformazione, pur di rimanere se stesso.
L'indurimento per ostinazione
Se ora applichiamo a noi questo indurimento ritengo di poter distinguere due fondamentali accezioni del termine, due modi d'intederlo. In primo luogo c'è l'indurimento per ostinazione; è la forma più tipica, che non comporta solo l'indurimento dell'ateo che non vuol credere, o del peccatore. sensuale che non vuoI tirarsi fuori dal vizio - che quasi non lo può tanto vi è dentro -, bensì comprende anche un'ostinazione che si manifesta negli ambienti religiosi ed ecclesiastici, quando ci si crede detentori della verità in forma possessiva, cioè non perché ci è donata nella Chiesa, ma perché è identificata con la nostra storia, addirittura con la nostra realtà personale. Perciò un attentato a quella che crediamo essere la verità ci sembra un'offesa personale, un torto fatto a noi, e non un'offesa fatta alla Chiesa. In questo modo, noi siamo portati a identificare la nostra storia personale, la nostra identità, con quello che non può non essere vero. Ed allora ci induriamo, né vogliamo sentir ragioni. E tanto più ci sentiamo vincolati, se abbiamo delle responsabilità nella vita civile, sociale, ecclesiastica: delle posizioni ufficiali da difendere. Ecco l'indurimento del cuore come ostinazione.
L'indurimento per debolezza
C'è poi un secondo modo di intendere l'indurimento del cuore del faraone, che io chiamo l'indurimento per debolezza. Lo sperimentiamo quando ci accorgiamo che ci sono dei limiti alla nostra capacità di amare. Finché le condizioni sono facili, non ce ne accorgiamo; quando invece le condizioni si fanno più difficili - cioè quando entriamo nella vita come conflitto di forze, di opinioni, di interessi -, allora sempre più sperimentiamo la nostra impotenza pratica a liberarci da noi stessi e ad amare davvero. Allora si verifica in noi la definizione dei pagani data in Lc. 6, 31-35: anche noi salutiamo quelli che ci salutano, imprestiamo a quelli da cui pensiamo di ricevere, facciamo sorrisi a chi ci fa il sorriso e a quelli da cui temiamo qualcosa, cercando al tempo stesso di tenerli alla larga, in modo che non sia messa in pericolo la nostra integrità. Anche noi abbiamo paura di perdere, come il faraone, e non vogliamo perdere, vogliamo piuttosto trattare e venire a patti. In fondo, abbiamo paura di perdere la vita, e poiché Gesù dice: «Se uno non perde la propria vita non può essere mio discepolo », noi dobbiamo riconoscere allora che non siamo suoi discepoli. A questo proposito, val la pena di ricordare pure i condizionamenti da cui siamo oppressi per il solo fatto di essere membri di un gruppo, di una classe, di una società. Fenomeni simili si notano presso quei popoli dove le tradizioni sono molto forti. Da noi, popoli europei, insieme con tanta confusione, c'è almeno il vantaggio che le persone possono fare abbastanza indipendentemente qualunque cosa. Ma presso altri gruppi sociali o nazioni, vi sono persone che non possono fare certe cose, perché il gruppo sociale non lo ammette: e ciò costituisce un limite assoluto.
Realtà di questo tipo ci rendono il senso drammatico dell'esistenza umana, di cui parla la lettera ai Romani: «Faccio il male che non voglio, non faccio il bene che voglio» (7,19). Accettando concretamente questi limiti, Ci troviamo facilmente a ripetere la parabola del fico sterile. Vorremmo produrre molti frutti - e in alcune cose ci riusciamo, per grazia di Dio -, ma non ce la facciamo. Allora il Signore ci fa conoscere i limiti della nostra esistenza faraonica e permette che battiamo la testa, affinché invochiamo la sua salvezza e riconosciamo l'incredibile sovrabbondanza della sua misericordia.


quarta meditazione
Il passaggio del Mar Rosso
Il testo fondamentale per questa meditazione è Es. 14, 5-15, 20. Useremo poi altri due testi di appoggio, che sono 1 Cor. 10, 1-2 e Mt. 8, 19-20. Questa nostra meditazione sul Passaggio del Mar Rosso vorrebbe corrispondere, negli Esercizi Spirituali, alla Meditazione del Regno (cfr. ES, nn. 91-100) ed alla sua dinamica offertoriale: dove mai ci sta portando il Signore? Offriamoci alla sua iniziativa con coraggio!
L'avvenimento centrale della nostra fede
Meditiamo, dunque, sul passaggio del Mar Rosso (Es. 14,5-15,20). È questo un testo fondamentale: il testo pasquale per eccellenza. Nella nostra attuale liturgia pasquale il testo di Es. 14, 15-15, 1, che è la terza lettura della Veglia, costituisce un elemento centrale; ad esso segue il cantico di Es. 15, 1-7.17-18. Eppure - stando alle parole - il testo pasquale per eccellenza sarebbe Es. 12, che contiene la descrizione della festa di Pasqua: «Questo mese sarà per voi l'inizio dei mesi, sarà per voi il primo mese dell'anno ». Tuttavia, benché la parola «Pasqua» primariamente si dovrebbe riferire alla festa degli azzimi e alla notte dell'agnello, di cui si parla effettivamente in Es. 12, la tradizione cristiana ha esteso il significato del termine « Pasqua» fino a comprendere il passaggio del Mar Rosso; anzi, il passaggio del Mar Rosso ha costituito un po' la tipologia che ha assorbito tutto il resto. I Padri hanno commentato ampiamente il passaggio del Mar Rosso, intendendolo come la Pasqua cristiana: il battesimo che è segno della nostra dedizione a Cristo.
Questo avvenimento viene ricordato anche nell'Exsultet - ho sempre davanti a me la Veglia pasquale, cioè il momento dal quale tutto il resto della vita cristiana dipende -, che dice casi: «Questa è la notte in cui hai liberato i figli d'Israele, nostri padri, dalla schiavitù dell'Egitto, e li hai fatti passare illesi attraverso il Mar Rosso; questa è la notte in cui hai. vinto le tenebre del peccato con lo splendore della colonna di fuoco; questa è la notte che salva su tutta la terra i credenti nel Cristo dall'oscurità del peccato e dalla corruzione del mondo, li consacra all'amore del Padre e li unisce nella comunione dei santi ». Questo è già uno splendido commento al testo che stiamo per meditare, testo di fronte al quale si rimane come sopraffatti per ciò che ha significato in tutte le generazioni cristiane, dai commenti dei Padri alle catechesi battesimali della Chiesa antica, fino a noi.
Siamo battezzati in Mosè
C'è, comunque, qualcosa ancora che vorrei ricordare, prima di occuparci direttamente del nostro testo; il fatto è che già san Paolo faceva meditare su di esso i suoi cristiani in 1 Cor. 10, 1-2: «Non voglio infatti che ignoriate, o fratelli, che i nostri padri furono tutti sotto la nuvola, tutti attraversarono il mare, tutti furono battezzati in rapporto a Mosè nella nuvola e nel mare ». Egli ritiene che tutto Israele sia passato di là. Perciò i cristiani, rievocando l'aggadà della Pasqua ebraica, dovrebbero aggiungere: «Anche noi eravamo là, anche noi siamo stati battezzati con i padri »; insomma, l'esperienza del battesimo che abbiamo ricevuto in Cristo si collega con quella che è stata l'esperienza dei padri. Meditando il loro battesimo, non meditiamo un'esperienza a noi estranea, ma quella che è l'inizio, la spiegazione e il tipo della nostra esperienza battesimale fondamentale. Qui vorrei far notare la stranezza della frase «furono battezzati in rapporto a Mosè » (il testo greco dice: kai pantes eis ton Mousén ebaptisthesan): furono battezzati in Mosè, casi come noi siamo stati battezzati in Cristo. In questa meditazione ci chiederemo che cosa significhi la frase «furono battezzati in Mosè », dato che san Paolo la usa con tanta forza.
Nel Nuovo Testamento c'è un altro testo molto bello e molto importante, in cui il cammino sotto la guida di Mosè viene interpretato come un cammino di fede: «Per la fede (Mosè) lasciò l'Egitto senza temere l'ira del re. Rimase, infatti, saldo come se vedesse l'invisibile. Per la fede celebrò la Pasqua. Per la fede attraversarono il Mar Rosso come fosse terra asciutta. Questo tentarono di fare anche gli Egiziani, ma furono inghiottiti» (Ebr. 11, 29). L'autore della lettera agli Ebrei intende affermare qui che la fede dei cristiani è oggi in continuità con quella che fu la fede dei padri.
Poste queste premesse, ho pensato di proporvi questa meditazione in modo molto semplice, prendendo qua e là qualche spunto, senza pretendere di affrontare il testo nella sua interezza. Ho intitolato il primo punto «la notte. del terrore»; il secondo « che cosa farà Mosè »; il terzo: «il passaggio attraverso il Mar Rosso »; il quarto: «il canto pasquale dei battezzati ».
1. La notte del terrore
Il primo punto consiste in un tentativo di commento a Es. 14, soprattutto ai vv. 10-14: «Quando il faraone fu vicino, gli Israeliti alzarono gli occhi ed ecco gli Egiziani muovevano il campo dietro di loro. Allora gli Israeliti ebbero grande paura ». Siamo perduti! Ecco perché parlo di «notte del terrore ». .
Per cercare di capire meglio che cosa sia avvenuto quando gli Israeliti furono presi dalla « grande paura », ho costruito un piccolo midrash, al modo dei rabbini; si tratta di un raccontino molto semplice, che chiamo il «midrash della tenda ». Immaginiamo la scena. La notte cala molto presto nel deserto; ora siamo all'inizio della notte. A qualche centinaio di metri si sente il va e vieni delle onde del mare, a sinistra si vede l'accampamento degli Ebrei. Si accendono i primi fuochi; tutti sono affaccendati, gesticolano, raccolti in piccoli capannelli gli uomini discutono; c'è qualcosa di grave nell'aria: un momento di tragedia si sta avvicinando; qualcuno corre nel campo lontano, ritorna, porta notizie. L'eccitazione cresce.
Noi ci avviciniamo all'accampamento e chiediamo spiegazioni con segni delle mani ( allora gli Ebrei non parlavano ancora l'ebraico, che impararono dopo). Ci viene indicata una grande tenda al centro
del campo: ci avviciniamo alla tenda e cerchiamo di vedere cosa sta avvenendo là dentro. C'è un uomo pallido, ansimante, senza parola; intorno a lui altri uomini con lunghe barbe e con i pugni tesi. Capiamo che quell'uomo deve essere Mosè e gli altri gli anziani d'Israele. Cosa fa Mosè? :B n, sta zitto, sembra quasi paralizzato. E gli anziani d'Israele che fanno? Parlano, gridano, inveiscono, come. fanno gli orientali quando si adirano.
Parlano gli anziani d'Israele
Cerchiamo di capire cosa dicono. Uno dice: «Ecco, Mosè, dove ci hai portato! Ti abbiamo creduto, pensavamo che Dio ti avesse parlato; e invece siamo qui a morire come topi: o ci gettiamo in mare e moriamo annegati, o ci lasciamo uccidere dal faraone. Ecco dove siamo: è la fine per Israele! ». Un altro si alza e dice: «Credevamo che tu, Mosè, fossi cambiato; ti conoscevamo imprudente e cocciuto, ma credevamo che il. deserto ti avesse giovato. Invece sei rimasto proprio uguale a quello che eri e ci hai fatto di nuovo precipitare nel disastro,.. Un terzo: «Fratelli, ascoltatemi: noi abbiamo delle armi (infatti dice il v. 16 del cap. 13: «Gli Israeliti bene armati uscirono dal paese d'Egitto»); è vero che gli Egiziani sono potentissimi, ma se andremo contro di loro, almeno chiuderemo la nostra storia gloriosamente. Moriamo da eroi e diamo lode a Jahvé cadendo con le armi in pugno! ». Un quarto, più venerabile degli altri, dice: «Fratelli, ascoltatemi: ho molta esperienza della vita. Conosco bene Mosè e non ho avuto molta fiducia in lui nemmeno quando è tornato; capivo che era un visionario. Tuttavia ascoltatemi: il faraone, lo conosco, non è cattivo; inoltre ha bisogno di noi, quindi non ha nessuna intenzione di sterminare il nostro popolo, ma anzi ha tutto l'interesse di reintegrarci nella nostra situazione. Siamo umili e non tentiamo Dio: la nostra posizione è insostenibile. Mandiamo quindi un'ambasceria al faraone; Mosè non si faccia proprio vedere; vadano invece alcuni dei nostri uomini saggi a dirgli: ' Abbiamo peccato, riaccoglici, siamo pronti a tornare indietro: ci siamo fidati di quest'uomo che ci ha ingannati ' ». Poi il tono di questo vecchio si fa più suadente, più forte: «Fratelli, ascoltatemi: il faraone significa la sicurezza, la pace, il pane per i nostri figli; non rigettate questa offerta, non siate pazzi! ». Un altro si alza a dire: «E se veramente Dio avesse parlato a Mosè? Cosa faremo: andremo contro Dio? ». Ma un altro lo contraddice: «No, non è possibile, Dio non può abbandonare il suo popolo. La nostra situazione è disperata: come può Dio volere la nostra disperazione? ».
Ecco cosa succede in quella tenda. Da una parte c'è Mosè; dall'altra c'è il faraone con le sue minacce, ma anche con le sue promesse e con ciò che egli significa di ragionevole e giusto accomodamento alle complesse situazioni dell'esistenza. In mezzo ci sono gli anziani, divisi tra Mosè e il faraone. In questo momento sembra davvero che le azioni del faraone salgano, mentre solo pochi osino difendere quelle di Mosè!
Quale dei due?
Riflettendo su questa scena, mi chiedo ancora una volta: «Chi è il faraone, e chi è Mosè? ». Chi è il faraone? Il faraone rappresenta una vita accomodante e accomodata: una vita che tiene conto dei compromessi necessari per garantire una certa quiete. Una vita in cui si salvano capra e cavoli. Una vita nella quale mantengo la mia professione di fede, la mia confessione cristiana, esteriormente, però mi aggiusto in modo che questo genere di vita non sia troppo compromettente. 'Perciò mi adatto ad una certa esteriorità e a certe sicurezze, che in ogni caso mi salvano. Insomma, il faraone rappresenta qui l'accomodamento alla tranquillità mondana, che è un equilibrio ottenuto attraverso un sapiente dosaggio di sequela del Signore e di una certa sicurezza a cui non rinunzio. Sto nel giusto mezzo: in fondo il faraone è ragionevole, accetterà questo compro-1 messo e ci lascerà ogni tanto sacrificare nel deserto. Questo faraone rappresenta davvero la tentazione di ogni uomo in questo mondo. E qui ciascuno potrebbe riflettere su cosa significhi per lui questo faraone del ragionevole compromesso, della ragionevole quiete.
Ma chi è Mosè? Mosè è l'insicurezza della sequela di Gesù: quella insicurezza sulla quale il Signore sembra insistere quasi pungendo e provocando le persone che si fanno avanti. C'è tanta gente di buona volontà che vuol seguire Gesù, ma Gesù li affronta con durezza: «Uno scriba gli si avvicinò e disse: ' Maestro, ti seguirò ovunque tu andrai '. Gli rispose Gesù: ' Le volpi hanno le loro tane, gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell'uomo non ha dove posare il capo '. E un altro discepolo gli disse: ' Signore permettimi di andare prima a seppellire mio padre '. Ma Gesù gli disse:
' Seguimi e lascia i morti seppellire i loro morti ' » (Mt. 8, 19 s.). Gesù diventa provocante, quasi volesse offendere le persone. È come Mosè al Mar Rosso, che propone a Israele una scelta dura e netta, ma priva di ogni sicurezza.,
La sfida della nostra fede
Mosè rappresenta quell'insicurezza della sequela di Gesù che riguarda coloro i quali accettano la sfida di una vita evangelica, dato che questa, come vita evangelica, è schiaffo per il mondo e schiaffo per tutti i nostri tentativi di salvarci costruendoci degli angoli di tranquillità. È la sfida della fede da cui siamo punti fortemente tutte le volte che ci troviamo in ambienti nei quali siamo in pochi, o quasi soli, a credere, e ci sorge la domanda: «Ma come? tutti gli altri si fanno la loro vita comoda, cercando di godersela quanto possono, ed io devo sacrificarmi cosi? ma perché? ».
Il fatto è che la gente cerca istintivamente di star bene, di godere e di riuscire a sistemarsi, procurandosi la maggior quantità di beni di ogni genere, a proprio uso e consumo. La sfida della fede si fa più chiara proprio quando ci. si trova tra persone per le quali conta solo questa vita, e noi soli continuiamo a credere che non c'è solo questa vita; allora ci sentiamo soli, quasi abbandonati, strani. È la sfida della fede, che ci punge di fronte agli increduli, quando questi fanno massa, fanno opinione, fanno ambiente, fanno potenza. Questa è la sfida di Mosè!
Per capire meglio l'impatto di questa sfida, vi ricordo la scena evangelica descritta in Mt. 27, 39-44, che può essere meditata anche alla luce di questo episodio di Mosè. Gesù è in croce, deriso e oltraggiato: «E quelli che passavano di là lo insultavano scuotendo il capo e dicendo: 'Tu che distruggi il
tempio e lo ricostruisci in tre giorni, .salva te stesso. Se tu sei Figlio di Dio, scendi dalla croce '. Anche i sommi sacerdoti con gli scribi e gli anziani lo schernivano: 'Ha salvato gli altri e non può salvare se stesso. È il re d'Israele? Scenda ora dalla croce e gli crederemo. Ha confidato in Dio, lo liberi lui ora, se gli vuol bene. Ha detto infatti: 'Sono Figlio di Dio ' ». In fondo come negate che i sacerdoti e gli anziani hanno delle buone ragioni  quando dicono di Gesù: «Ecco come è andato finire! E lui voleva che la gente gli credesse: meno male che noi abbiamo impedito questa follia; come poteva essere Dio con lui, se poi è finito casi? Noi sapevamo cosa bisognava dire alla gente; anzi, gli avevamo detto di starsene tranquillo, ma non ne ha voluto sapere! ». Con tali accuse Mosè, come Gesù, viene esposto alla massima contraddizione: Dio non è con lui, ma è con noi!
L'opposizione
Riassumo questo primo punto. Chi è dunque il faraone? Il faraone rappresenta la vita secondo lo spirito del mondo. Tale vita, come ho detto, si trova dappertutto: si trova, per esempio, tutte le volte che noi facciamo della Chiesa una setta e della nostra comunità qualcosa che ha già in sé la sua gloria. Lo spirito del mondo ci spinge appunto a spostare la nostra speranza dalla Parola di Dio alle opere che intendiamo realizzare a qualunque costo. Tale atteggiamento di spirito è inevitabilmente un po' settario, per cui, non avendo messo sufficiente fiducia nella speranza che solo Dio ci dà, si cerca poi di fondarla su qualcosa che ci rappresenti, che ci estrinsechi, in modo da trovarvi la nostra sicurezza.
Chi è invece Mosè? Mosè rappresenta la vita secondo il Vangelo: una vita fondata soltanto sulla Parola di Dio, quindi una vita che non ammette il compromesso. Ecco qual è l'opposizione irriducibile tra le due ipotesi di vita.
2. Che cosa farà Mosè?
Nel nostro midrash finora Mosè è stato zitto. Cerchiamo di entrare dentro il suo cuore, ove ronzano mille pensieri. Cosa avrebbe potuto fare Mosè? Secondo me aveva quattro possibilità fondamentali.
Le scelte possibili
- La prima possibilità era quella di svignarsela, dicendo: «Fratelli, eiò che avete detto è molto importante e degno di attenta considerazione. Tornate alle vostre tende, datemi un'ora di tempo e poi ci ritroveremo ». Nel frattempo poteva partire e ritornarsene nel deserto. Questo è ciò che fanno alcuni uomini politici, quando hanno portato il popolo sull'orlo del disastro: escono dalla scena, ammazzandosi. Questa del suicidio, d'altra parte, è una tentazione non così rara come si penserebbe.
- La seconda possibilità era quella di armare il popolo conformemente al consiglio di alcuni: «Armiamoci e moriamo da eroi! ». È la scelta del Vangelo interpretato falsamente come eroismo: il Vangelo ci chiama a batterei in maniera spasmodica, a resistere con le nostre forze fino in fondo, lasciando così un nome di gloria, ma di gloria mondana e faraonica . . .
- La terza possibilità, anch'essa faraonica, era quella di organizzare il ritorno, dicendo: «Fratelli, avete ragione. lo sono l'unico che posso proporre questo agli Israeliti ed essi mi ascolteranno: mandiamo un'ambasceria e trattiamo ».
- La quarta possibilità infine consisteva nel fidarsi di Dio, dicendo: «Signore, tu mi hai portato qui; tu agirai ». Una possibilità quasi pazzesca, perché consiste nel non far niente. «E se Dio avesse deciso - poteva pensare Mosè - di non aiutarmi? Tutto mi crollerebbe addosso! ». Proprio qui sta la scelta di fede che viene chiesta a Mosè: si tratta di affrontare l'incognita di Dio. Notate la drammaticità di quest'ultima possibilità, penosa soprattutto quando sono coinvolti altri, che reclamano decisioni di tipo faraonico, concrete e immediate. D'altronde la fede richiede altre decisioni, ma si ha paura di prenderle. In realtà, se Mosè avesse deciso di armare tutti, è vero che sarebbe stato un disastro, ma almeno si sarebbe fatto qualcosa e l'angoscia sarebbe stata vinta. Quanto più terribile, invece, in quella situazione di angoscia insopportabile, il dire: «Il Signore ha parlato, il Signore si mostrerà ». Lo stesso darsi da fare per organizzare il ritorno al faraone, per quanto umiliante potesse essere, sarebbe stato sempre meno angoscioso di una situazione di abbandono nella fede. E qui ricorderei, con tutte le dovute analogie e differenze, l'angoscia di Gesù nell'orto. Anche Gesù avrebbe potuto dire:« Me ne vado; lascio questa situazione; non ce la faccio; non la voglio ». Oppure poteva seguire il consiglio di Pietro: armarsi e morire con i discepoli. Invece Gesù sceglie l'agonia, lasciando che l'opera di Dio si manifesti.
Mosè diviso
Che cosa sceglie dunque Mosè? Sceglie quello che può, barcamenandosi. . . Secondo me Mosè ha due facce in questa scelta, come ogni altro uomo. La prima è quella del coraggio, la seconda quella della paura. Egli le interpreta tutte e due.
La prima, la faccia del coraggio, è quella che egli, con la grazia di Dio, interpreta di fronte al popolo, perché il Signore gli mette in cuore delle parole coraggiose. Quando la gente grida: «Forse non c'erano sepolcri in Egitto e ci hai portato a morire nel deserto. Non ti dicevamo: ' Lasciaci stare, serviremo gli Egiziani; è meglio per noi servire l'Egitto che. morire nel deserto?' », Mosè risponde: «Non abbiate paura! Non lasciatevi tra. volgere dall'angoscia; siate forti e vedrete la salvezza che il Signore oggi opera per voi. Perché gli Egiziani che voi vedete oggi non li rivedrete mai più ». E poi la bellissima conclusione: «Il Signore combatterà per voi e voi state tranquilli» (Es. 14, 11-14 ).
D'altra parte, è innegabile che anche Mosè avesse la sua paura; infatti, subito dopo queste parole coraggiose, il racconto biblico prosegue dicendo: «Il Signore disse a Mosè: ' Perché gridi verso di me? ' » (14, 15). Ciò significa che mentre Mosè diceva alla gente di starsene tranquilla, dal canto suo egli stesso gridava al Signore. E la sua paura non doveva essere piccola, come leggiamo in un altro passo dell'Esodo, dove Mosè invoca l'aiuto del Signore dicendo: «Che farò io per questo popolo? Ancora un poco e mi lapideranno» (17,4). Da una parte dunque Mosè segue l'istinto dello Spirito, che lo spinge verso il coraggio della fede, ma dall'altra
anche lui è preso dall'angoscia, che lo trascina verso la disperazione. Mosè è dunque diviso.
3. Il passaggio del Mar Rosso
Ma ecco che, nel suo gridare verso il Signore, la fede di Mosè si purifica, finché il Signore stesso interviene: «Ordina agli Israeliti di riprendere il cammino. Tu intanto alza il bastone e stendi la mano sul mare e dividilo, perché gli Israeliti entrino nel mare all'asciutto» (14, 15s.). Viene poi descritta la scena del passaggio del Mar Rosso: tutto si svolge in modo dignitoso e solenne, come se si trattasse di una processione regale. Israele avanza nella notte, quasi per dire come Dio fa le cose facili quando ci si abbandona a lui, quando ci si abbandona totalmente e gli si dice: «Eccomi, Signore, per fare la tua volontà; non capisco niente, ma avrà certo un senso questa prova che tu mi mandi; ti offro la mia vita, desiderando seguirti in povertà, cioè nell'assenza di mezzi umani e nell'assenza di successo umano». Allora le cose si svolgono con esemplare semplicità, senza quell'affanno frenetico, o spasmodico, degli Israeliti: «Combattiamo fino alla morte », oppure « Mandiamo un'ambasceria » . . . La notte del terrore diventa la notte della pace e della tranquillità.
Fanno fiducia a lui
Dice san Paolo che gli Israeliti « sono stati battezzati in Mosè ». Che cosa vuol dire questo? Vuol dire che hanno avuto fiducia in lui, fino ad entrare nell'acqua del mare, fiduciosi in Mosè: Dio gli ha parlato, e quindi avanti! È terribile inoltrarsi, nell'oscurità della notte, lungo una striscia di terra, lambita dalle onde ai due lati; eppure noi ci lasciamo guidare da Mosè, perché facciamo fiducia a lui. « Essere battezzati in Mosè » significa per gli Israeliti prendere su di sé il rischio di Mosè, accettare l'insicurezza di Mosè. Allo stesso modo, per noi «essere battezzati in Gesù» significa prendere su di noi il rischio di Gesù, e dirgli: «Signore, ti seguirò dove tu andrai; voglio vivere come tu vivi, mangiare come tu mangi, dormire come tu dormi, affrontare le tue stesse contrarietà ». Ciò vuol dire decidersi a vivere una vita pasquale, una vita secondo lo Spirito: decidere di lasciarsi salvare dallo Spirito di Gesù.
Gli Israeliti, seguendo Mosè, non fanno niente se non decidere di lasciar fare a Dio: si lasciano portare come « su ali di aquila ». E noi, seguendo Gesù, decidiamo di lasciarci salvare da lui: facciamo fiducia alla sua potenza infinita, alla sua sapienza, alla sua capacità di guidarci; ci lasciamo immergere in lui, prendendo volentieri i suoi rischi e le sue insicurezze, giorno per giorno. Accettiamo quel rischio che ci espone all'eventualità di realizzarci come uomini, affettivamente e culturalmente, oppure a quella di essere schiacciati in situazioni piccole e meschine. Corriamo il rischio di Gesù, senza cercare la nostra realizzazione, che sarebbe di nuovo un'opera faraonica. Comprendiamo allora l'importanza della frase «il Signore combatterà per voi e voi starete tranquilli»: la decisione fondamentale è presa dal Signore; l'opera è sua; essere battezzati in lui vuol dire lasciarsi invadere dalla potenza dello Spirito.
4. Il canto pasquale dei battezzati
Il cantico che si legge nel cap. 15 è una delle più antiche composizioni bibliche. Lo possiamo chiamare il «canto pasquale dei battezzati », cioè di tutti coloro che, avendo accettato di prendere su di sé il rischio di Gesù e scommettendo la propria vita sul Vangelo contro l'evidenza mondana, dicono: «Ma come è stato tutto così semplice: il Signore ci ha preso senza che nemmeno ce ne accorgessimo. Abbiamo visto cadere gli Egiziani; avevamo una paura matta di loro, che erano il popolo più potente del mondo, e invece sono là che galleggiano sul mare» . . . Insomma, tutti i condizionamenti per i quali si aveva tanta paura, una volta presa la decisione totale di lasciarci invadere dallo Spirito del Signore, si rivelano gradualmente per dei giochi da bambini. Allo stesso tempo appare che la vita evangelica è una cosa semplice, facile e bella.
Ascoltiamo il canto di Mosè: «Voglio cantare perché mirabilmente ha trionfato, gettando in mare cavallo e cavaliere». lo avevo paura dei cavalli, che corrono più di me, e dei cavalieri, che sono armati di lancia; e invece: «Mia forza e mio canto è il
Signore. Egli mi ha salvato. È il mio Dio, il Dio dei nostri padri, lo voglio esaltare ». I carri del faraone e tutto il suo esercito, tutta quella potenza che mi atterriva, tutti quegli ostacoli che mi sorgevano davanti («Ma non ce la farai; sarà una vita impossibile; dovrai andare contro le idee moderne; la tua vita non sarà più autentica»), tutte quelle inquietudini che spesso si ammantavano di psicologia o di sociologia («Ma vivere così non ha senso; la personalità non si sviluppa. . . »), tutto ciò è ormai sommerso nel Mar Rosso: «Gli abissi li coprirono e sprofondarono come pietra». E io non ho fatto niente. « La tua destra, Signore, terribile per potenza; la tua destra, Signore, annienta il nemico ». È questo il canto del battezzato, che si riconosce salvato e dice: «Dio veramente ha combattuto per me; io ho detto di sì allo Spirito e il Signore ha fatto tutto» .
Chiediamo al Signore che ci faccia comprendere questa semplicità della scelta evangelica, che ogni giorno ci è chiesto di rinnovare. 


quinta meditazione
Mosè: servo di Dio
Nel libro dei Numeri (12, 7\ Mosè è chiamato « servo ». Dice il testo: «Non così per il mio servo Mosè: egli è l'uomo di fiducia in tutta la mia casa ». Questo titolo di « servo» è ripreso in Dt. 34, 5, al momento della morte di Mosè: «Mosè servo di Jahvé, morì in quel luogo ». Esso è dunque il titolo onorifico che gli viene attribuito al termine della sua vita. La lettera agli Ebrei (3, 5), poi, cita quasi testualmente il libro dei Numeri, ma per affermare che Mosè, pur essendo giunto alla dignità di «servo », non è niente di fronte a Gesù, che è «Piglio»: «In verità fu fedele Mosè in tutta la sua casa come servo, per rendere testimonianza di ciò che doveva essere annunziato più tardi ».
Un commento di san Gregorio Nisseno
Su questa rappresentazione di Mosè come servo fedele, come «uomo di fiducia », c'è un magnifico commento di Gregario Nisseno, verso la fine della Vita di Mosè. Gregario, che conosceva tutte le tecniche dell'arte oratoria, in un periodo lungo una pagina e mezza, ci dà un vero saggio di tutte le sue capacità. Leggiamone qualche brano: «Noi impariamo dal fatto che, essendo passato per tante fatiche, Mosè sia giudicato alla fine degno di essere chiamato con il nome sublime di servo di Dio, ciò che equivale ad essere superiore a tutto ». Poi continua:« Che cosa impariamo noi da ciò? A non avere se non uno scopo in questa vita: di essere chiamati servi di Dio a causa delle nostre azioni». Ed è proprio in funzione di tale appellativo che allora riassume tutta la storia di Mosè, applicandola « a te che leggi »: «Infatti - dice Gregario allettare -, quando tu avrai trionfato di tutti i tuoi nemici, l'Egiziano, l'Amalecita, l'Idumeo, il Madianita; quando tu avrai attraversato l'acqua; quando tu sarai stato illuminato dalla nube; quando tu avrai reso potabili le acque col legno; quando avrai bevuto alla roccia; quando avrai gustato il nutrimento dall'alto; quando avrai fatto la strada che ti porta alla montagna; o quando sarai stato istruito sui misteri divini. . . (e qui tutta la vita di Mosè viene applicata a colui che legge) . . . quando tu avrai ridotto al niente tutto ciò che si eleva contro la tua dignità come Datan, consumandolo col fuoco come Core (sono gli ultimi episodi di rivolta che Mosè ha domato); allora tu ti avvicinerai al termine, e io intendo con questa parola' termine' ciò in vista di cui tutto avviene: così, il termine della coltivazione dei campi è gustarne i frutti, il termine della costruzione di una casa è abitarvi, il termine del commercio è arricchirsi, infine, il termine delle fatiche dello stadio è essere coronati: così, il termine della vita spirituale è essere chiamati servi di Dio ». Questo è dunque il culmine a cui giunge la vita di Mosè: il servizio.
Centralità di questa idea anche per noi
Vorrei suggerirvi qualche riflessione proprio su questo tema, che mi pare fondamentale, anche perché ciò che caratterizza gli Esercizi Spirituali non sono una preghiera prolungata, o una qualunque esperienza di Dio - anche se bellissima -, ma sono preghiera ed esperienza di Dio in vista di un discernimento per una scelta circa il miglior modo di servire. Si tratta, quindi, di imparare come poter servire meglio, cioè come essere più disponibili, accorgendosi di più delle vere necessità degli uomini nostri contemporanei e della Chiesa. Insomma, se dovessi riassumere in una domanda il tema di questa meditazione, mi chiederei: «A che cosa ci porta il passaggio del Mar Rosso? ». Non ci porta certo ad un'esistenza facile e sicura, bensì ci porta alla vera vita evangelica. « E cos'è la vera vita evangelica? ». Vedremo come essa è vita di servizio, esistenza diaconale: esistenza spesa per i fratelli.
E qui vorrei ricordare anche la sapienza rabbinica, che ha intravisto tutto questo. Già ho citato il detto circa i tre periodi della vita di Mosè, di Hillel l'anziano, di Rabban Johnatan Ben Zakai, di Rabbi Akiba. Se ricordate, questi uomini hanno trascorso i primi quarant'anni della loro vita in varie attività; hanno poi speso il secondo quarantennio in un'attività che è definita « servizio dei saggi », consistente nell'imparare la Torah per crescere nella propria cultura e diventare un buon rabbino; infine, per il terzo quarantennio di tutti e tre si dice: «Servì Israele per quarant'anni». Questo è dunque il termine di tutta la loro formazione e il culmine della loro carriera.
In questa meditazione ho cercato di ricavare dai
molti testi del Pentateuco alcuni suggerimenti, che vorrei ordinare in tre riflessioni, o punti.
La prima riflessione consiste in un'indagine, attraverso le pagine dell'Esodo, dei Numeri e del Deuteronomio, circa i diversi servizi resi da Mosè al suo popolo, dal passaggio del Mar Rosso in poi. La seconda riflessione consiste in un'analisi dell'esistenza cristiana come esistenza diaconale.
La terza riflessione, che sarà molto breve, prende in considerazione i diversi momenti successivi e i diversi gradi di questa esistenza diaconale.
1. I servizi resi da Mosè
Ho cercato di mettere insieme i vari episodi raccontati nel Pentateuco e ho pensato di sintetizzarli - in modo del tutto approssimativo - in cinque tipi di servizi, o diaconie, che Mosè ha esercitato. Li presento in un certo ordine, che mi sembra progressivo dal meno al più, anche se il meno è già importantissimo e fondamentale. Viene al primo posto il servizio dell' acqua e del pane; al secondo il servizio della responsabilità; al terzo il servizio della preghiera e dell'intercessione; al quarto il servizio della consolazione; infine al quinto il servizio della parola.
Il servizio dell' acqua e del pane
Appena cantato il cantico, appena finito l'entusiasmo per il passaggio del Mar Rosso, la gente comincia a mormorare perché non si trova l'acqua (cfr. Es. 15, 22ss.). Bisogna, quindi, che Mosè cominci di n. Il poveretto non aveva mai pensato di dover diventare un economo e invece deve buttarsi proprio in questo tipo di problemi. Subito dopo, neanche a farlo apposta, il racconto continua dicendo che poi manca il pane (cfr. 16, 1 ss.) e quindi Mosè deve preoccuparsi anche di questo. Poi manca la carne, e poi di nuovo l'acqua (cfr. 16,8-17,7). Qui sta appunto il primo elementare servizio che Mosè deve rendere: il servizio dell'acqua, del pane e della carne. Probabilmente, quando la voce del Signore gli aveva detto: «Va' a liberare il mio popolo », mai avrebbe pensato di dover fornire anche un servizio di questo tipo; ma ora vede che bisogna immediatamente provvedere anche a quelle necessità.
Anche noi forse potremmo rivolgere a Mosè il rimprovero che gli farà il suocero Jetro nel cap. 18, e dirgli: «Mosè, tu ti preoccupi proprio di tutto e a tutto vuoi provvedere: all'acqua, al pane, alla carne! Ma perché ti occupi di tutte queste cose? Sei forse un faraone anche tu? Sei forse uno che vuol dominare tutto e tutto tenere sotto il proprio controllo? Guarda che sarai schiacciato da questa fatica ».
Difatti, il suocero, che era un uomo saggio, gli dirà:
« ' Che cosa è tutto questo lavoro che vai svolgendo per il popolo? Perché siedi tu solo, mentre il popolo sta presso di te dalla mattina .alla sera? ' (si trattava del compito di rendere giustizia). Mosè rispose al suocero: ' Ma il popolo viene da me per consultare Dio. . .' (cioè vengono da me per le loro vertenze). E il suocero gli disse: ' Non va bene quellò che fai! ,Finirai per soccombere, tu e il popolo che è con te, perché il compito è troppo pesante per te. Tu non puoi attendervi da solo. Ora ascoltami: ti voglio dare un consiglio e Dio sia con te ' » (18, 14-19). Allora Jetro gli insegna il principio di sussidiarietà . .., suggerendogli di scegliersi degli anziani onesti e di costituirli come capi di migliaia, di centinaia, di cinquantine e di decine, cosicché arrivino fino a lui soltanto le questioni più importanti. « Se fai questa cosa - e Dio te la comanda -, potrai resistere e anche questo popolo arriverà in pace alla sua meta» (18, 23). Quello fu un momento assai importante nella vita di Mosè: anche lui doveva imparare a comandare. All'inizio, nella sua incompetenza, credeva di dover fare tutto; poi ha imparato. Infatti, quando il Deuteronomio riprenderà la storia della sua vita, fin dal cap. 1 ricorderà quel momento come assai importante (cfr. Deut. 1, 9-18).
In ogni caso, per quanto Mosè a un certo punto abbia imparato che non poteva fare tutto da sé, resta vero che non senza provvidenza di Dio egli ha dovuto imparare a fare un po' di tutto, rendendosi conto di persona di tutti i bisogni della gente e imparando che ci sono bisogni essenziali e servizi necessari, fino a diventare così molto realista. In tal modo ha perso forse un po' del suo idealismo: quel certo intellettualismo a cui poteva essere tentato dopo 40 anni di deserto, spesi a parlare con le stelle; ma ora si è accorto che ci sono bisogni urgenti, a cui bisogna provvedere subito, che la gente grida, che la gente ha fame. È quindi molto importante, nell'educazione diaconale di Mosè, che il Signore lo abbia fatto passare attraverso questo tipo di servizio. D'altra parte, anche i dodici apostoli, che a Gerusalemme - come ci raccontano gli Atti degli Apostoli al cap. 6 - a un certo punto diranno: «Non possiamo far tutto, perciò creiamo i diaconi », in realtà erano passati attraverso l'educazione a loro imposta dal prolungato servizio delle mense.
Il servizio della responsabilità
Questo secondo servizio è per Mosè, che lo sente molto, come un peso: è un po' come portare sulle spalle i propri fratelli, con tutti i loro difetti e le loro immaturità. Mosè ha gradualmente capito che bisogna prendere la gente così com'è, con tutte le mormorazioni, le inquietudini e le ire che ne vengono fuori. È quanto dice chiaramente lui stesso nella sua autobiografia, in Deut. 1, 9s.: « In quel tempo vi ho detto: lo non posso da solo sostenere il carico del popolo. Il Signore vostro Dio vi ha moltiplicati ». Mosè è dunque convinto di dover sopportare il carico del popolo. E ancora aggiunge: «Come posso io da solo portare il vostro peso, il vostro carico e le vostre liti? » (1, 12).
Mosè sa bene che, anche se non da solo, deve portare «il peso, il carico e le liti» della gente così com'è: gente che litiga. ..; con tanti problemi che già ci sono nel deserto magari contendono per un pezzo di tenda, o un pezzetto di terreno, ed esigono l'intervento di Mosè. Egli ha così imparato ad assumere il servizio della responsabilità, che - come sappiamo bene - non è soltanto il servizio di coloro che hanno una qualche responsabilità ufficiale, ma è il servizio di ciascuno di noi, in quanto è responsabile. dei fratelli. Ciascuno di noi è responsabile di coloro che conosce, dei loro problemi, dei loro pesi: ci sosteniamo a vicenda. È questo il servizio che Mosè ha praticato fino all'estremo, in maniera esemplare per noi.
Il servizio della preghiera e della intercessione
Anche questo terzo servizio Mosè lo compie a proprie spese. Non si tratta semplicemente dell'intercessione di chi dice delle parole per gli altri. Mosè è sempre coinvolto di persona nelle parole che dice. Come esempio tipico di preghiera e d'intercessione vi cito l'episodio in cui Mosè alza le mani nel combattimento contro Amalek: «Quando Mosè alzava le mani, Israele era il più forte, ma quando le lasciava cadere era più forte Amalek. Poiché Mosè sentiva pesare le mani dalla stanchezza (infatti è faticoso il servizio della preghiera), presero una pietra, la collocarono sotto di lui ed egli vi si sedette, mentre Aronne e Cur, uno da una parte e uno dall'altra, sostenevano le sue mani. Così le sue mani rimasero ferme fino al tramonto del sole» (Es. 17, 11s.). :E. bellissima questa immagine di Mosè che prega fino al tramonto: è l'immagine dei grandi intercessori della Chiesa, l'immagine a cui si ispirano le anime contemplative, che intercedono per l'umanità.
Nel suo ministero di intercessione, Mosè osa molto:
d'altronde egli aveva una tale conoscenza di Dio, da potersi permettere parole che a noi sembrano quasi bestemmie. Quando il Signore si adira con il suo popolo a causa del vitello d'oro, Mosè dice al Signore: «Questo popolo ha commesso un grande peccato: si sono fatti un dio d'oro (quindi riconosce come stanno le cose, senza cercare di coprirle con una bugia, al modo di Adamo). Ma ora, se tu vuoi, perdona il loro peccato; se no, cancellami dal tuo libro che hai scritto!» (32, 31s.). Mosè vive l'esperienza del suo popolo dal di dentro, al punto di volersi imporre a Dio stesso, pur di intercedere per i suoi. Evidentemente questo è un caso limite, come quando Paolo dice: «Vorrei essere anatema da Cristo per i fratelli»; tuttavia esso esprime bene il grado di coinvolgimento, che Mosè porta nella sua preghiera.
Su questo coinvolgimento hanno scritto e hanno forse un po' scherzato i rabbini. Tra le leggende rabbiniche su Mosè c'è una pagina particolarmente provocante. Dice il midrash: '« Solo litigando per il suo popolo e litigando anche contro Dio, Mosè divenne uomo di Dio. Svolgeva infatti (e qui è un po' l'autore moderno che parla) due ruoli veramente difficili: rappresentava Dio presso Israele e Israele presso Dio. Bastava che gli angeli si pronunciassero contro Israele, e accadeva spesso, perché Mosè li facesse tacere. Quando Dio decise di fare dono ad Israele della Legge, gli angeli gli si opposero e Mosè li strapazzò: 'Ma allora chi la osserverà, voi? Solo gli uomini possono accettare la Legge e v\vere .8econdo i suoi dettami! '. E quando il popolo toccò il fondo dell'abisso, ballando intorno al vitello d'oro, Mosè trovò .ancora il modo di difenderlo: ' È colpa sua o tua, o Signore? Israele ha vissuto così a lungo in esilio fra adoratori di idoli che ne è stato avvelenato. È colpa sua se non riesce a dimenticare così facilmente? '. Di fronte alla minaccia divina pone un ultimatum: 'O perdoni tutto, o cancelli il mio nome dal tuo libro '. E quando Dio gli disse: ' Il tuo popolo ha peccato ', Mosè replicò: ' Quando Israele osserva la tua Legge è il tuo popolo e quando la viola sarebbe il mio? ' ». Vediamo così come Mosè davvero si identifichi con il suo popolo.
Il servizio della consolazione
Un tipico caso di servizio della consolazione ci è presentato in occasione dell'uscita dall'Egitto. Quando la gente protesta:« Lasciateci stare; lasciateci servire l'Egitto, perché non vogliamo morire nel deserto », Mosè risponde: «Non abbiate paura! Siate forti e vedrete la salvezza che il Signore oggi opera per voi; perché gli Egiziani che voi oggi vedete, non li rivedrete mai più! » (14, 12s.). Si potrebbe qui riflettere a lungo su questo intervento consolatorio, che non è un vago «andate in pace, state tranquilli, fatevi coraggio », ma è una parola precisa, che veramente incoraggia in nome di Dio. Si tratta di un servizio per la fede, non di semplice simpatia umana.
Il servizio della parola
Il servizio della parola è quello che principalmente qualifica Mosè, uomo della Parola di Dio, anche se noi non mediteremo la alakà di Mosè (tutte le prescrizioni, le leggi e i precetti, di cui sono pieni l'Esodo e il Levitico). Tuttavia sappiamo che gran parte della missione di Mosè consiste nell'annunciare 'al popolo la parola. Questa è la sua missione fondamentale, quella che senz'altro lo qualifica secondo il Siracide: «Dio gli fece udire la sua voce; lo introdusse nella nube oscura. Dio gli diede faccia a faccia i comandamenti, legge di vita e d'intelligenza, perché spiegasse a Giacobbe la sua alleanza, i suoi decreti ad Israele» (Sir. 45, 5s.). Qui si potrebbe citare anche Es. 19, 3, dove comincia il grande servizio della parola: «Mosè salì verso Dio e il Signore lo chiamò dal monte e gli disse: ' Questo dirai alla casa di Giacobbe e annuncerai agli Israeliti ' ». Si tratta del Decalogo e di tutta la Legge: d'ora in poi Mosè vivrà al servizio della Parola che Dio gli affida perché sia portata al popolo.
2. La vita cristiana è vita di servizio
Che cosa significa quando diciamo che la vita pasquale secondo il Vangelo - cioè la vita di coloro che hanno passato il Mar Rosso - è una vita data per il servizio dei fratelli, un'esistenza diaconale? Cercheremo una risposta a tale domanda, confrontandoci con le due figure di Mosè e di Gesù e tirando poi le debite conseguenze.
Diventare come Mosè
La vita cristiana - come dice molto bene Gregorio Nisseno - consiste nel diventare come Mosè. E tutto ciò che Mosè è stato si trova riassunto nella frase della lettera agli Ebrei, che ci è già nota: therapon pistos en olo to oiko autou (Ebr. 3, 5). Vediamo ora di comprendere il significato di questa frase, parola per parola.
Therapon vuol dire « servo », nelle varie forme di cui già abbiamo precedentemente parlato. Fermiamoci piuttosto sulle parole che seguono.
Pistos non vuol dire tanto che Mosè è servo «fedele », nel senso che ha svolto fedelmente la sua opera, bensì che è «degno di fede », nel senso che ci si può fidare di lui, perché - come abbiamo visto - è tutt'uno con Israele. Se Mosè avesse avuto dei progetti propri, dei ghiribizzi personali, si poteva diffidare di lui; ma egli è tutt'uno con Israele, e quindi il Signore gli può ben affidare Israele! Qui pensiamo soprattutto a quelle persone che nella Chiesa emergono per la loro disponibilità al servizio, in quanto, non avendo progetti propri, si rendono disponibili ai progetti che inventerà per loro il Signore. Prendiamo Giovanni XXIII con il suo motto Oboedientia et Pax: l'uomo che fa quello che la Chiesa gli dice di fare, l'uomo che ormai ha un solo progetto, quello del Regno di Dio con le sue esigenze quotidiane. Pensiamo a queste figure che ciascuno di noi può aver conosciuto, o conosce, nella Chiesa: gente a cui si può affidare qualunque cosa, perché si identificano con ciò che a loro è stato affidato. Anche Mosè era così: degno di totale confidenza, perché ormai aveva identificato il suo progetto con il progetto di Dio.
E tale fiducia se la meritava en olo to oiko, «in
tutta la casa »; infatti, era adatto per ogni genere di servizio: da quello dell'acqua a quello del pane, a quello della carne, a quello della parola. Anche lui avrà avuto le sue qualità personali, e sappiamo che probabilmente era poco adatto all'uso della parola, eppure ha fatto anche questo, quando il Signore gliela ha chiesto.
Inserito nel piano di Dio
Inoltre il testo dice: en to oiko, «nella casa »; ciò significa che egli considerava il popolo non come una struttura, né come un organismo burocratico, ma come una casa, una famiglia. Anzi, egli era di casa e viveva nel progetto di Dio come in un ambiente a lui familiare, con quei rapporti di fiducia che vanno al di là delle etichette. È vero che anche le etichette hanno una loro funzione ma è certo che nessuno avrebbe mai potuto etichettare Mosè.
Se qualcuno gli avesse chiesto: «Sei un profeta,
sei un capo del popolo, un veggente, un leader? », avrebbe risposto: «Non lo so: io faccio quel che Dio mi chiede ». È impossibile dare un'etichetta a Mosè, perché egli è inserito nel piano di Dio, così come il piano di Dio è. Dico questo non perché non ci voglia ordine e regolarità nelle cose, ma perché certe volte noi siamo portati a chiuderci: io svolgo questo compito e degli altri non me ne importa. Tale discorso potrebbe ancora avere un senso, se volesse dire non invadere il campo degli altri. Però il fondo della nostra anima deve essere caratterizzato dalla disponibilità a tutto ciò che l'umanità e la Chiesa ci chiedono. Non è possibile un discernimento spirituale delle nostre vocazioni cristiane, se tutti non abbiamo nel fondo dell'anima questo senso di corresponsabilità per i bisogni di tutti gli altri.
Ma ancora: en to oiko autou, la casa di Dio, non la casa di Mosè. Questo è importante. Il primo Mosè voleva farsi una sua casa e diceva: «Questo èil popolo di cui farò una grande potenza ». Il secondo Mosè si identifica con il popolo, tanto da rischiare la scomunica da parte di Dio. Però è talmente convinto che l'opera è di Dio e non sua, che può anche rischiare tale scomunica. Egli è entrato nella opera di Dio come opera di Dio, e non come opera sua. Tanto è vero, come vedremo meditando la morte di Mosè, che quando Dio gli dice: «Adesso muori », Mosè di fatto muore. Il Signore ha detto che non deve più continuare, poiché ha finito il suo compito: andranno avanti gli altri e il Signore li condurrà al di là del Giordano (cfr. Deut. 34). Questo vuol dire che Mosè si identifica con il popolo come popolo: non cercava la sua gloria, ma la gloria di Dio.
Noi, come Gesù, siamo chiamati al servizio
La vita cristiana, dunque, consiste nel diventare come Mosè: con Mosè e al modo di Mosè protagonisti di un'esistenza diaconale. In realtà, coloro che seguiranno l'esempio di Mosè si troveranno ad essere come Gesù, che è il «servo» per eccellenza. E qui cito qualche testo per far vedere che l'esistenza di Gesù è concepita dal Nuovo Testamento come esistenza di servizio. Ne cito due: uno in cui gli altri parlano di lui e un secondo in cui egli parla di se stesso. Il primo:« Tu non hai voluto né sacrificio né offerta. Un corpo invece mi hai preparato. Non hai gradito né olocausti, né sacrifici per il peccato. Allora ho detto: ' Ecco, io vengo, perché di me sta scritto nel rotolo del libro, per fare, o Dio, la tua volontà ' » (Ebr. 10, 5-7). E l'autore conclude: «È appunto per quella volontà (di sacrificio e di servizio fino in fondo) che noi siamo stati santificati per mezzo dell'offerta del corpo di Cristo» (10, 10). Il secondo testo è un passo '« teologico» di Marco, nel senso che di solito Marco fa operare Gesù, ma raramente gli fa dire parole grandiose, o programmatiche, quali invece si trovano in Matteo e Luca. Eppure qui Marco non ha rinunciato a queste parole di Gesù: «Il Piglio dell'uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Mc. 10, 45). Gesù dice queste parole per ammonire gli apostoli: anche loro debbono essere servitori. Casi l'esistenza diaconale di Gesù diventa la esistenza diaconale del cristiano: essere come Mosè ed essere come Gesù significa essere chiamati al servizio.
Ma che cosa vuol dire concretamente essere chiamati
al servizio? Vuol dire passare apertamente e coraggiosamente dal faraone a Mosè. Il faraone rappresenta in questo caso la possessività, il proprio progetto centrato su di sé. Mosè invece è l'umile servo che si preoccupa di rendersi utile agli altri, dimenticando se stesso; come dice Gesù: chi non muore non vivrà.
Ecco allora la diaconia cristiana, che è una diaconi a totale e di tutto l'uomo, di tutti gli uomini. Diaconia totale perché impegna tutta la personalità, e quindi non c',è posto nella diaconia cristiana per il professionalismo. D'altra parte la mentalità diaconale è, come dice Paolo, pensare giorno e notte quali siano i veri bisogni dell'umanità, e che cosa bisognerebbe fare per essere più utili al prossimo. Ciò significa che non possono esistere dei cristiani i quali prescindano da questa diaconia di tutto l'uomo, che cioè si rivolge a tutto l'uomo e a tutti i bisogni degli uomini e delle donne di questo mondo, dal pane alla carne, alla consolazione, all'intercessione, alla parola. È chiaro che qui parlo in termini generali della diaconi a cristiana, che poi si specifica secondo i carismi diversi, come insiste Paolo. Resta il fatto però che la Chiesa, come assemblea diaconale di battezzati, deve essere aperta a tutti i generi di necessità di tutti gli uomini, a partire da quelle più evidenti e più urgenti, fino a quelle più profonde, forse meno dichiarate, eppure più gravi.
3. I momenti e i gradi dell'esistenza diaconale
Come ho detto, l'esistenza diaconale, sul piano dell'apertura di coscienza, è totalizzante. Però lo sbaglio nostro è che spesso vogliamo fare tutti tutto; questa, nei fatti, è pura presunzione: è come Chiesa, infatti, che siamo chiamati a servire.
Bisogna quindi immergersi nel tessuto della Chiesa
e nella Chiesa gradualmente discernere i momenti e i gradi diversi del nostro servizio. Qualche volta pensiamo che tutto il mondo ha bisogno di noi, mentre ciascuno di noi, in realtà, potrà fare solo una minima parte. Ma sarebbe assurdo pensare di poter fare anche solo questa minima parte, se non ci si inserisce nel tessuto di una Chiesa che vive un'esistenza diaconale e se non si partecipa ad un certo ritmo di formazione, di preparazione, di scelta e di distribuzione dei lavori. Altrimenti faremo anche noi l'errore di Mosè, che voleva fare tutto. Ci sono tanti altri insieme con noi: vediamo dunque ciò che ognuno può fare.
Chiudiamo questa nostra riflessione, chiedendo al Signore di darci il vero spirito di servizio.


sesta meditazione
Mosè: 'Propheta traditus '
Il tema fondamentale di questa meditazione sarà quello della cosiddetta « passione» di Mosè. A questo proposito terremo presente il rapporto tipologico che il Nuovo Testamento rivela tra Mosè e Gesù: al coinvolgimento di Mosè fino alla sofferenza corrisponde il coinvolgimento di Gesù fino alla morte, nella loro opera profetica; al servo sofferente Mosè corrisponde il servo sofferente Gesù. D'altronde, già sappiamo che Mosè è chiamato il «servo di Jahvé »; e probabilmente i famosi quattro canti del servo di Jahvé nel Deuteroisaia sono stati scritti ispirandosi proprio a Mosè e puntando lo sguardo verso un misterioso personaggio messianico. Abbiamo allora tre figure davanti a noi: il Mosè sofferente, il servo di Jahvé - di cui non potremo parlare a lungo -, infine Gesù di fronte alla sua passione.
L'uso di un'espressione latina (propheta traditus) nel titolo di questa meditazione dipende dal fatto che non credo sia possibile trovare in italiano un verbo che, al pari del tradere latino, corrisponda ai tre significati dello stesso verbo greco paradidonai, che il Nuovo Testamento usa in tre accezioni diverse, in riferimento a Gesù. Vediamo un esempio per ciascuno di questi significati.
Nel suo discorso presso il portico di Salomone Pietro dice: «Il Dio di Abramo di Isacco e di Giacobbe, il Dio dei nostri padri ha glorificato il suo Figlio Gesù, che voi avete tradito (paredokate)»(At. 3, 13). Voi, dice Pietro, lo avete consegnato e rinnegato di fronte a Pilato. Quindi Gesù è « tradito» dagli uomini, tradito da noi.
In Rom. 8, 32 lo stesso verbo indica l'azione del Padre: «Che cosa diremo: se Dio è in nostro favore, chi sarà contro di noi? Colui che non ha risparmiato il suo Figlio, ma per noi tutti lo ha consegnato (paredoken auton) ». Quindi Gesù è stato dal Padre consegnato nelle nostre mani, perché ne facessimo «quello che volevamo»: lo accogliessimo, lo adorassimo, lo amassimo; con la nostra libertà, però, eravamo in grado anche di non amarlo, di non accoglierlo, di respin
gerlo, di contestarlo, addirittura di ucciderlo. E il Padre lo ha comunque consegnato all'umanità.
Il terzo significato del nostro verbo compare in
Gal
. 2, 20, ove esso ha per soggetto il Cristo stesso. Dice Paolo: «Vivo non più io, vive in me Cristo; ciò che ora vivo nella carne lo vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e si è consegnato per me (kai paradontos eauton upèr emou) ». Qui è Gesù stesso che si è consegnato per noi. Mediante l'incrocio di questi tre significati dello stesso verbo, noi possiamo contemplare il mistero della croce, lo svelamento del segreto del roveto ardente: il Padre che consegna il Figlio liberamente agli uomini, il Figlio che si consegna per la nostra salvezza e l'umanità che lo tradisce. Queste realtà saranno l'oggetto della nostra meditazione, che però noi concentreremo sulla figura di Mosè, in quanto tipo di Gesù; Mosè, infatti, è il profeta consegnato nel senso indicato: il profeta che Dio consegna al suo popolo, che consegna se stesso al suo popolo, che il popolo fa soffrire. Mosè non andrà fino alla morte, non darà la vita. È Gesù che dà la vita. Però Mosè soffrirà' nella sua carne il rigetto da parte del popolo. La prima parte della meditazione, dunque, consisterà nell'esaminare alcune situazioni di sofferenza di Mosè; nella seconda. parte, poi, richiamerò alcune situazioni analoghe, o diverse ma pur sempre corrispondenti, di sofferenza di Gesù: la sofferenza di Mosè ci aiuterà a contemplare e ad intendere meglio la profondità dell'amore di Gesù. La nostra sarà allora davvero contemplazione del mistero del Padre che dona il Figlio e del Figlio che gratuitamente si dona, malgrado il tradimento nostro, e che continua a donarsi nonostante il rifiuto.
1. Le sofferenze di Mosè
Tra i molti episodi narrati nei libri dell'Esodo e dei Numeri, che ci descrivono i vari guai patiti da Mosè, ne ho scelti quattro, che ho intitolato cosi: a) la leggerezza di Mosè; b) le paure di Mosè; c) l'insicurezza di Mosè; d) la pazienza di Mosè.
Come introduzione a questi episodi, vorrei leggere qualche brano di André Neher, un autore ebreo che è un classico in materia. Egli ha pubblicato nel 1955 un libro dal titolo L'essenza del profetismo, nel quale tenta di formulare la fenomenologia dell'esperienza profetica in un quadro di storia delle religioni; e non gli mancano le intuizioni acute. A proposito di Mosè, dice cosi: «Un'esperienza nuova caratterizza Mosè come profeta, che Abramo non aveva conosciuto. È un'esperienza che introduce nel profetismo biblico un dato capitale: Mosè è il primo che prova la sofferenza della vocazione profetica. Abramo accetta tutte le offerte divine con lo stesso cuore: esce dal paese dei Caldei, fa i viaggi che il Signore gli fa fare, affronta le difficoltà; perfino quando si descrive il sacrificio del figlio non c'è una parola sui suoi sentimenti, quasi che egli vivesse tutto con fede assoluta. Egli è il profeta della certezza. Mosè invece è il profeta del dubbio, del rifiuto, della rivolta, ed è a lui che noi ritorniamo incessantemente, quando cerchiamo l'esempio di una profezia nel dolore ». Quindi Neher contrappone direttamente Abramo a Mosè: «Abraham est un prophète abrité, Moïse est un prophète livré; Abramo è un profeta protetto, Mosè è un profeta consegnato ». Ecco la differenza fra i due: «Con Mosè la rivelazione prende un carattere più tragico ». Poi l'autore si domanda perché questo aspetto tragico del servizio della parola, della profezia, venga sottolineato con Mosè e non con Abramo. E dà questa risposta: «Ciò deriva dal fatto che il profeta secondo Abramo è un individuo, il profeta secondo Mosè è inserito nella storia di un popolo. Abramo è il profeta da solo, è da lui che nasce il popolo; la missione di Mosè, invece, lo introduce nell'ambiente di una comunità umana. E allora necessariamente si crea il conflitto, la lotta concreta, il dialogo con gli uomini. Ed è un dialogo molto più difficile e molto differente dal semplice dialogo con Dio, perché è molto più sottomesso al rischio dello scacco». Finché uno tratta col suo Dio, lo scacco è soltanto in lui; se accetta, è in pace con Dio; ma se deve essere profeta per gli altri, allora tutto il suo profetare è sottomesso all'accettazione o al rifiuto, alla pigrizia o alle resistenze degli altri. Mosè è al centro di questo dramma. Questo è tanto vero, dice l'autore, che talora, « quando lo scacco sembra vicino (cioè quando Israele è tutto in rivolta e la sua storia sembra che stia per finire), Dio permette a Mosè di scegliere di diventare un nuovo Abramo, un profeta-patriarca: ' Io farò di te un nuovo popolo ' ». Mosè, come sappiamo, allora reagirà: «No, voglio continuare con il mio popolo ». E Neher conclude: «La realizzazione della rivelazione fatta a Mosè dipende congiuntamente sia dalla fede di lui che dalla fede del popolo ».
Mi pare molto profondo questo concetto, perché mostra anche quello che è il dramma di Gesù. Gesù può essere accolto o respinto. Non è semplicemente il Gesù che passa glorioso proclamando la parola; l'opera di Gesù è il seme che cade nella terra e che viene o calpestato o mangiato o soffocato, oppure produce frutti. Ma questa alternativa non riguarda soltanto il servizio della parola, bensì anche tutti gli altri servizi, nel senso che essi non dipendono solo da noi che li prestiamo, ma P-\lre da coloro che dovrebbero riceverli. Tante volte pensiamo, ad esempio, che il servizio del pane e dell'acqua, il più umile e il più semplice, viene sempre e comunque ben
accolto. Ma noi sappiamo che non è così: molti missionari e missionarie che facevano servizio nei lebbrosari sono stati mandati via. Perché? Perché si è ragionato come se tutto dipendesse soltanto da coloro che intendevano prestare quel certo servizio; non ci si è chiesto che cosa ne pensavano i destinatari di esso, se lo volevano davvero, se era veramente il servizio che in quel momento fosse più utile. Di qui il dramma di servizi offerti con tanto coraggio e fiducia, ma non accettati. Non accettati per molti motivi: talora per gli sbagli di chi li offre, ma talora anche per il rifiuto sbagliato di chi non li accetta. Ad ogni modo l'interpretazione proposta da Neher mi pare molto valida: Mosè soffre perché vuole vivere con la gente; se si contentasse del dialogo con Dio, potrebbe starsene tranquillo, ma il suo coinvolgimento ad un certo punto lo stritola. Ugualmente, il coinvolgimento di Gesù con la gente farà sì che ad un certo punto egli resti schiacciato.
Cercheremo allora di meditare su questa dimensione della sofferenza di Mosè e di Gesù. Vediamo dunque dapprima i quattro episodi della vita di Mosè, su cui vi invito a riflettere.
a) La leggerezza di Mosè
Il primo episodio (Bs. 4, 18-26) consiste in una scena molto misteriosa.
Mosè, obbediente alla volontà di Dio, «partì e tornò da
Jetro suo suocero e gli disse: 'Lascia che io parta e torni dai miei fratelli che sono in Egitto per vedere se sono ancora vivi! ' ... Jetro disse a Mosè: ' va ' pure in pace! '... Mosè prese la moglie e i figli (notate qui la stessa frase ripresa da Matteo per descrivere il ritorno di Gesù dall'Egitto), li fece salire sull'asino e tornò nel paese d'Egitto. Mosè prese in mano il bastone di Dio ». Mosè, pieno di fiducia e d'abbandono al Signore, con la moglie e i figli si mette in viaggio verso l'Egitto. Però, « mentre si trovava in viaggio, nel luogo dove pernottava, il Signore gli venne incontro e cercò di farlo morire. Allora Zippora prese una selce tagliente, recise il prepuzio del figlio e con quello gli toccò i piedi e disse: ' Per me tu sei uno sposo di sangue! '. E (il Signore) si ritirò da lui. Essa aveva detto ' sposo di sangue ' a causa della circoncisione ».
Questo episodio ci spaventa, tanto è misterioso.
Anche gli esegeti si chiedono quali tradizioni vi si siano raccolte. Noi cerchiamo di interpretarlo così come ci appare nel suo contesto attuale. In fondo, Mosè ha pensato che la chiamata ricevuta si ponesse più o meno al livello delle cose che faceva prima: tornare in Egitto col gregge, la moglie e i figli e ricominciare un certo lavoro. Il Signore invece gli vuol far capire che le cose sono cambiate e che lui ha preso alla leggera le sue parole, quando ha concepito la missione alla maniera borghese. . . E qui, anche se non riusciamo a capire tutto, capiamo però come Dio gli preannuncia che non si tratterà affatto di un'impresa tranquilla, bensì di qualcosa che lo coinvolgerà fino alla morte.
L'episodio, proprio perché misterioso, può risultare particolarmente ricco di insegnamenti. Il fatto è che seguire la vita evangelica, dandosi ad un apostolato non faraonico, ma di servizio, non comporta soltanto qualche piccolo cambiamento di metodo, qualche aggiustamento nel linguaggio, ma implica un atteggiamento totalmente diverso. Noi siamo sempre tentati di ridurre la novità del Vangelo, con la sua
sconvolgente capacità di travolgerci, ad un discorso circa le modalità operative: ma il Signore ci dice che si tratta di ben altro: «Non vi immaginate nemmeno a che cosa vi ho chiamati! ». Mosè, dal canto suo, ora si rende conto che l'impresa cui Dio lo ha chiamato è davvero cominciata, anche se lui non l'aveva capita: l'aveva ridotta alla sua piccola misura, ma Dio glielo impedisce, ricorrendo anche a gesti clamorosi, come quello capitato quella notte.
b) Le paure di Mosè
Fermiamoci ora a riflettere sulle « paure» di Mosè. Mosè ha avuto spesso paura: in particolare quando vede che non può esercitare la sua missione stando dall'altra parte del tavolo, ma deve buttarcisi 'dentro e correre gli stessi rischi del popolo, anzi più rischi ancora...
Fin dall'inizio Mosè: ha intravisto come si sarebbero messe le cose; perciò cerca di difendersi. In Es. 4, 10 dice: «Mio Signore, non sono un buon parlatore; non lo sono stato mai prima e neppure da quando tu hai cominciato a parlare al tuo servo; sono impacciato di bocca e di lingua ». E poi, al v. 13, dopo il dialogo in cui Dio cerca di aiutarlo, quando Mosè capisce che le cose che gli sono chieste sono superiori alle sue forze fisiche - si sente intimorito di fronte a ciò che lo aspetta, allora dice quello che veramente ha nel cuore: «Perdonami, mio Signore, manda chi vuoi mandare! », cioè «manda un altro». Queste parole sono le stesse che dirà il profeta Isaia (cfr. Is. 6, 4-8). Ma Isaia è un altro tipo e le sue parole hanno tutt'altro significato: «Manda chi vuoi mandare », cioè « manda me ». Mosè invece diceva: «Non ci riesco ». Allora la collera del Signore si accende contro di lui: le esigenze della sua chiamata, infatti, non sono qualcosa da cui Mosè può ritirarsi quando vuole; ormai ha preso l'impegno e deve starci fino in fondo.
Un altro momento della paura di Mosè si manifesta nel suo lamento in Es. 5,22-23: «Mio Signore, perché maltratti questo popolo? Perché dunque mi hai inviato? Da quando sono venuto dal faraone per parlargli in tuo nome, egli ha fatto del male al tuo popolo e tu non hai fatto nulla per liberare il tuo popolo ». Mosè si era immaginato una liberazione facile, mentre le cose vanno molto diversamente; allora comincia ad avere paura e si chiede:
« Ma che cosa mai vorrà da me? Attraverso quali vie mi vuole portare? ».
Un altro aspetto ancora della paura di Mosè si esprime in Es. 17, 4: «Mosè invocò l'aiuto del Signore, dicendo: 'Che farò per questo popolo? Ancora un poco e mi lapideranno! ' ».
Mosè è passato attraverso esperienze difficili, nelle quali ha sentito tutta la sua debolezza. Se vogliamo poi trovare nel Nuovo Testamento un testo che ci aiuti a capire la paura di Mosè, possiamo leggere Mc. 10, 32, ove ci viene presentata la paura degli apostoli: «Mentre erano in viaggio i Dodici con Gesù per salire a Gerusalemme, Gesù camminava davanti a loro, ed essi erano stupiti: coloro che venivano dietro erano pieni di timore ». Gesù corre avanti e gli altri seguono impauriti: «Dove andiamo? Dove ci porta? Ma perché andare a Gerusalemme dove la gente è maldisposta? ». Ecco la paura che il Signore non ha risparmiato ai suoi profeti. Diventare profeta, diventare servo del Vangelo non vuol dire andare allegramente avanti con l'animo pieno di entusiasmo: vuol dire soffrire tutta l'angoscia di situazioni nelle quali non si vede apparentemente una via d'uscita. È così che il Signore ci chiama alla fede nella sua parola.
c) L'insicurezza di Mosè
Malgrado i molti colpi che subisce, Mosè resiste; ad un certo punto, però, la sua psicologia sembra venir meno ed egli attraversa una grave crisi, che è descritta nella Bibbia, anche in questo caso, con parole misteriose e velate, tali però da farci capire che qualcosa di grave è successo nell'animo di Mosè.
Si tratta dell'episodio avvenuto presso le acque di Meriba, che ci è raccontato in Num. 20, 3-13: «Il popolo ebbe una lite con Mosè, dicendo: 'Magari fossimo morti quando morirono i nostri fratelli davanti al Signore! Perché avete condotto la comunità del Signore in questo deserto per far morire noi e il nostro bestiame? E perché ci avete fatti uscire dall'Egitto, per condurci in questo luogo inospitale? Non è un luogo dove si può seminare, non ci sono fichi, non vigne, non melograni e non c'è acqua da bere ». Tutta l'amarezza del popolo si sfoga qui contro Mosè e Aronne. Allora questi due poveretti si allontanano e si prostrano per pregare: quindi il Signore dice a Mosè: «Prendi il bastone ... convocate la comunità... parlate alla roccia ». Perciò, Mosè prende il bastone, alza la mano e dice: «' Ascoltate, o ribelli: vi faremo noi, forse, uscire acqua da questa roccia? '. Mosè alzò la mano e percosse la roccia con il bastone due volte e ne uscì acqua in abbondanza; ne bevvero la comunità e tutto il bestiame... Ma il Signore disse a Mosè e ad Aronne: ' Poiché non avete avuto fiducia in me, per dar gloria al mio santo nome agli occhi degli Israeliti, voi non introdurrete questa comunità nel paese che io le do ' ».
Qui veramente siamo un po' sconcertati. Questo Mosè che ha obbedito in tutto fino a questo punto, ora è preso da una crisi interiore, che prende corpo in una « mancanza », di cui resta per noi misterioso il significato. Mosè avrebbe forse mancato di fede colpendo due volte la roccia? Secondo un'altra tradizione, invece, Mosè verrebbe punito a causa del popolo che si era rifiutato di salire da Cades verso Canaan. In Deut. 1, 37s., Mosè dice: «Contro di me si adirò il Signore per causa vostra e disse:
'Neanche tu vi entrerai, ma vi entrerà Giosuè figlio di Nun che sta al tuo servizio '». Questo testo e altri passi paralleli (cfr. Deut. 3, 26; 4, 21) sembrerebbero attribuire il castigo di Mosè non tanto all'episodio delle acque, quanto all'aver consentito che la gente non entrasse dal sud e che invece prendesse la strada dell'est, del Giordano. In quell'occasione, Mosè aveva avuto pietà del suo popolo, che si era spaventato alla notizia dei giganti che abitavano in quella terra; in tal modo aveva mancato di fiducia verso Dio. Non so quale spiegazione preferire. Ma certo è molto umano tutto questo. Noi crediamo di ascendere di virtù in virtù, ma certe volte improvvisamente c'è un crollo, o un momento difficile: non si regge più a quel peso che forse si era retto bene per anni. È un fatto a cui anche Mosè ha dovuto soggiacere. Egli ha avuto un momento di grave crisi interiore, che poi avrà le sue conseguenze, accettate da Mosè con molta dignità, con molta umiltà, con molta semplicità di cuore. Mosè si rimprovererà di aver avuto troppa compassione del suo popolo, fino al punto che per proteggerlo si. è staccato dalla Parola di Dio.
Questo capita quando ci si lascia coinvolgere con la gente! E il Signore non ci promette l'indefettibilità né ci risparmierà le conseguenze dell'aver agito in maniera sbagliata; ci promette bensì il perdono e la misericordia.
d) La pazienza di Mosè
L'ultimo aspetto che caratterizza il coinvolgimento doloroso e umiliante di Mosè nel servizio del suo popolo è quello della « pazienza». Anche a questo proposito la figura di Mosè appare grande per il rapporto che c'è in lui tra fragilità, dedizione e fiducia in Dio, che ne fa un'anima complessa, un uomo sofferente. Prendiamo in considerazione un episodio molto interessante, specialmente per la psicologia di Mosè: «Maria ed Aronne parlarono contro Mosè a causa della donna etiope che aveva sposata. Infatti aveva sposato un'Etiope (cioè una donna straniera), E dissero: ' Il Signore ha forse parlato soltanto per mezzo di Mosè? Non ha parlato anche per mezzo nostro? ' » (Num. 12,1-2).
Il motivo che li fa parlare cosi, in fondo, è l'invidia:
un'invidia assai umiliante per Mosè, Aronne e Maria, che costituiscono l'équipe dirigente d'Israele e che non vanno d'accordo tra loro. La situazione è pure assai umiliante, perché Maria è colei che ha salvato Mosè dalle acque, e quindi si sente un po' la sua protettrice. Fatto sta che «il Signore disse: '... Come non avete temuto di parlare contro il mio servo Mosè? " E l'ira del Signore si accese contro di loro ed egli se ne andò; la nuvola si ritirò di sopra la tenda; ed ecco che Maria era lebbrosa, bianca come neve. Aronne guardò Maria ed ecco era lebbrosa» (12, 6-10). Mosè, però, ormai sa pazientare; perciò pregherà perché sia guarita e così ritornerà la pace in famiglia.
Qui noi vediamo .Mosè, l'uomo paziente, che ha imparato a tacere e a lasciar fare al Signore, sopportando anche la sofferenza più intima, quella di non
essere capito nel suo rapporto con Dio dagli stessi familiari.
2. Gesù: il servo sofferente
La seconda parte di questa meditazione è dedicata alla figura di Gesù, al quale si applicano, punto per punto, le considerazioni fatte in precedenza. Anche qui suggerisco molto brevemente quattro considerazioni, che per contrasto o per analogia ci consentono di cogliere quale sia stato il coinvolgimento di Gesù con la gente.
Il primo elemento è quello della chiaroveggenza di Gesù. Mentre Mosè comincia con una certa faciloneria la sua missione (l'asinello, la moglie, i figli, il proposito di passare la vita in campagna, ecc.), Gesù fin dall'inizio sa dove andrà (Lc 9, 21-22). Quando la gente lo acclama per i miracoli e grida al successo, Gesù dice: «Il Figlio dell'uomo dovrà essere tradito ». Gesù ha visto chiaramente che il suo coinvolgimento con la gente doveva essere pagato fino in fondo, e non siè tirato indietro.
Il secondo elemento è quello della paura di Gesù, È questa un'espressione terribile che noi non avremmo mai usata, se essa non comparisse nel Vangelo. In Mc. 14, 33s., Gesù ,« sente paura» e dice: «La anima mia è triste fino alla morte », quasi .come Elia, il quale dice: «Signore, non ne posso più» (cfr. 1 Re 19, 4). E qui vediamo anche un parallelo fra Mosè e Gesù: Mosè ha avuto paura e anche Gesù ha voluto aver paura, mostrando così che il servizio del Vangelo non esime dall'angoscia di fronte alle situazioni catastrofiche che talora ci possono cascare addosso.
Il terzo elemento, che farei corrispondere all'insicurezza di Mosè presso le acque di Meriba, è quello della decisione di Gesù. In Gv 10, 11 ss., dice: «Io do la mia vita per le mie pecore ». Si tratta di un amore totale, insieme con un ascolto pieno del Padre. Mentre Mosè, posto fra il popolo e Dio, perde l'equilibrio emotivo e si butta sul popolo, Gesù offre la sua vita per amore nostro, ma in obbedienza alla parola del Padre. Qui potremmo
meditare anche su Lc. 23, 46: «Padre, nelle tue mani affido il mio spirito ». Mentre Mosè non è riuscito ad affidare il suo spirito nel giorno di Meriba, come pure di fronte al tumulto sollevatosi all'arrivo degli esploratori, Gesù, l'artefice della nostra fede, si è affidato nelle mani del Padre per noi.
Infine, l'ultimo elemento da contemplare è quello della pazienza di Gesù. Tra i tanti episodi che si potrebbero citare ho scelto Gv. 18, 22-23: Gesù viene schiaffeggiato in casa di Anna. Mi sembra che ci sia un parallelismo con l'episodio di Mosè schiaffeggiato moralmente da Maria ed Aronne. Mosè non risponde niente a Maria e ad Aronne, e lascia la sua causa a Dio; Gesù invece risponde:
« Se ho parlato male, dimostrami dov'è il male; ma se ho parlato bene, perché mi percuoti? ». Gesù, quindi, non si è contentato di accettare, ma ha voluto evangelizzare e proporsi come segno di autenticità a quel povero funzionario, forse mal pagato, pieno di frustrazioni e sempre sottomesso, come è proprio degli inferiori posti tra un capo tirannico e i sudditi scontenti: un uomo amareggiato, che a un certo punto non trova di meglio che sfogare la sua ira contro un debole qualunque, magari per guadagnarsi un po' di favore. Ebbene, Gesù potrebbe accettare in silenzio; invece preferisce fare qualcosa di più, e dice: «Guarda in te stesso. Perché mi hai colpito? Quali sono le radici del tuo atto? Se sono buone, io sono pronto a lasciarmi colpire; ma se non hai una ragione fondata, perché fai cosi? Perché questa scontentezza, perché questa amarezza e questa frustrazione? Che cosa c'è in te che non va? ». Insomma, Gesù colpito compie opera di evangelizzazione e di liberazione nei confronti di un uomo che non aveva mai visto, né rivedrà mai più: l'uomo che l'ha offeso, umiliandolo pubblicamente. Gesù non reagisce con un silenzio sdegnato, ma con una pazienza attiva, che lo fa « essere Vangelo », che lo fa «essere Parola di Dio », data a quell'uomo fino in fondo, senza riserve: Gesù è davvero il profeta che si consegna totalmente agli uomini!


settima meditazione
Morte di Mosè e morte di Gesù
Pasqua di Maria e Pasqua del cristiano
In questa meditazione ci occuperemo di quelli che furono gli ultimi fatti della vita di Mosè; tali fatti ci aiuteranno a illuminare e a capire meglio il senso della morte di Gesù, quindi della morte di Maria e della nostra stessa morte. Sono questi i quattro livelli della nostra meditazione, a cui corrispondono quattro punti, per ciascuno dei quali ci soffermeremo su una serie di testi. In un primo tempo avevo intitolato questa meditazione: «Morte di Mosè e morte di Gesù. Morte di Maria e morte del cristiano». Poi ho preferito parlare di «Pasqua di Maria», del suo passaggio. E così mi è sembrato opportuno mettere anche « Pasqua del cristiano», il nostro passaggio. In ogni caso il tema pasquale attraversa per intero questa nostra meditazione.
Accostiamoci al nostro lavoro recitando la preghiera che sempre ci ricorda, quando la diciamo, « l'ora della nostra morte ». Recitiamo lentamente il saluto dell' Angelo a Maria:
Ave, o Maria, piena di grazia, il Signore è con te, tu sei benedetta fra le donne e benedetto è il frutto del tuo seno: Gesù. Santa Maria, Madre di Dio, prega per noi peccatori, adesso e nell'ora della nostra morte. Amen.
1. La morte di Mosè
Rivolgiamo dunque la nostra attenzione alla morte di Mosè, così com'è descritta nei capitoli 31, 32 e 34 del Deuteronomio. È interessante notare quanto. spazio venga dato alla descrizione di questa morte: molto più di quanto non avvenga per altri profeti, della cui morte non sappiamo niente. Non sappiamo niente di come sia morto Isaia, o Geremia; invece sappiamo molto della morte di Mosè.
Leggiamo alcuni versetti in Deut. 31, 1-8: «Mosè andò e rivolse ancora queste parole a tutto Israele. Disse loro: ' Io oggi ho 120 anni; non posso più andare e venire. Inoltre il Signore mi ha detto:
Tu non passerai questo Giordano. Il Signore tuo Dio passerà davanti a te, distruggerà davanti a te quelle nazioni e tu prenderai il loro posto. Quanto a Giosuè, egli passerà alla tua testa, come il Signore ha detto. Il Signore tratterà quelle nazioni come ha trattato Sikhon e Og, re degli Amorrei, e come ha trattato il loro paese, che egli ha distrutto. Il Signore le metterà in vostro potere e voi le tratterete secondo tutti gli ordini che vi ho dato. Siate forti, fatevi animo, non temete e non vi spaventate di loro, perché il Signore tuo Dio cammina con te; non ti lascerà e non ti abbandonerà! Poi Mosè chiamò Giosuè e gli disse alla presenza di tutto Israele: ' Sii forte e fatti animo, perché tu entrerai con questo popolo nel paese che il Signore ai loro padri giurò di darvi. Tu gliene darai il possesso. Il Signore stesso cammina davanti a te. Egli sarà con te,non ti lascerà e non ti abbandonerà; non temere e non ti perdere d'animo' ».
Un Mosè non indispensabile
Come ci appare qui Mosè? In primo luogo mi colpisce .l'onestà con cui Mosè riconosce che il tempo della passività per lui è venuto: «Non ce la faccio più, non posso più entrare e uscire, non posso più governare ». E sapendo che non ce la fa più, si spoglia delle sue prerogative con grande libertà: « li Signore vi guiderà; Giosuè vi guiderà».
Come avrebbe potuto agire Mosè? Avrebbe potuto dire: «In fondo sono ancora forte, ancora me la sento e ce la faccio; inoltre, se non ci sono io, cosa farà questo popolo? Voglio stare con loro, voglio seguirli: grandi pericoli li minacciano... ». Mm:è invece è libero e distaccato. Egli dice: «Io non ci sarò più, ma voi andrete avanti benissimo senza di me; il Signore vi guiderà e avrete grandi vittorie, più grandi di quelle che avete avuto con me: quest'uomo che vi lascio, Giosuè, è un uomo forte, buono e coraggioso; abbiate. fiducia in lui ». Notate che non dice di Giosuè, come spesso si fa: «Non è capace, non ha esperienza; come farà? Devo stargli vicino... ». Mosè, che è stato pazientemente educato a considerare l'opéra come opera di Dio, adesso volentieri vede quest'opera procedere senza di lui, realizzandosi ancora meglio come opera di Dio. Anche in questa occasione, poi, Mosè è il servitore del popolo, in quanto è colui che svolge un ministero di consolazione: «Fatevi coraggio, state tranquilli e tutto andrà bene; il Signore sarà con voi»
.
Leggiamo
ora un brano in cui si descrivono più da vicino le modalità della morte di Mosè: «In quello stesso giorno il Signore disse a Mosè: ' Sali su questo monte degli Abarim, sul monte Nebo, che è nel paese di Moab, di fronte a Gerico, e mira il paese di Canaan, che io do in possesso agli Israeliti. Tu morirai sul monte sul quale stai per salire e sarai unito ai tuoi antenati, come Aronne tuo fratello, che è morto sul monte Hor ed è stato riunito ai suoi antenati, perché siete stati infedeli verso di me in mezzo agli Israeliti, alle acque di Meriba di Cades, nel deserto di Sin, perché non avete manifestato la mia santità. Tu vedrai il paese davanti a te, ma là, nel paese che io sto per dare agli Israeliti, tu non entrerai! » (Deut. 32, 48-52).
Poi, dopo la lunga benedizione di Mosè, uomo di Dio, a tutte le tribù d'Israele, una per una (cfr. cap. 33) viene finalmente la descrizione definitiva della morte:« Mosè salì dalle steppe di Moab sul monte Nebo, cima del Pisga, che è di fronte a Gerico. Il Signore gli mostrò tutto il paese: Galaad fino a Dan, tutto Neftali,
. .. n Signore gli disse: 'Questo è il paese per il quale io ho giurato ad Abramo, ad Isacco e a Giacobbe dicendo: Lo darò alla tua discendenza. Te l'ho fatto cosi vedere con i tuoi occhi, ma tu non vi entrerai ' Mosè, servo del Signore, morì in quel luogo, nel paese di Moab, secondo l'ordine del Signore; fu sepolto nella valle, nel paese di Moab, di fronte a Bet-Peor. Nessuno fino ad oggi ha saputo dove sia la sua tomba. Mosè aveva 120 anni quando mori: gli occhi non gli si erano spenti e il vigore non gli era venuto meno» (34, 1-7).
Una morte scandalosa
In questa descrizione della morte di Mosè colgo almeno tre aspetti fondamentali: si tratta di una morte in solitudine, di una morte in obbedienza e di una morte nella sofferenza.
Essa è senz'altro una morte in solitudine; infatti Mosè non muore in mezzo al popolo, bensì lontano da quel popolo che aveva tanto amato, per il quale si era addirittura consumato davanti a Dio. Adesso è là, tutto solo sulla montagna, senza testimoni, e muore solo, logorato, per così dire svuotato, dal servizio che ha compiuto.
Mosè, poi, muore in obbedienza, come il testo dice con tanta semplicità: «Mosè, servo del Signore morì in quel luogo, secondo l'ordine del Signore
». Egli è l'unica persona nella Bibbia di cui si dica che è morto così:il Signore ha ordinato e lui è morto!
Infine egli muore nella sofferenza. Notate che insistentemente il testo ripete: «Tu non vedrai; tu non entrerai ». E Mosè, con estrema umiltà, e anche con dolore, deve accettare questa sua situazione. In un certo senso, si sacrifica per tutti gli altri: gli altri vedranno, mentre lui porta il loro peccato. Infatti, come abbiamo visto, il peccato era probabilmente più altrui che suo: erano gli altri che l'avevano soggiogato a non avere fiducia in Jahvé e ad avere misericordia e compassione di loro; e lui si era lasciato trasci1)are. Ora questo peccato degli altri Mosè lo porta con sé e accetta di espiarlo.
Mosè, dunque, muore solo, obbediente, sofferente, al punto che non si conosce nemmeno il luogo della sua sepoltura, a cui possano venire i parenti a piangere, come è desiderio di tutti gli Ebrei. Questa morte è scandalosa: Mosè non ci lascia in pace neppure nel modo di morire. Noi non avremmo mai im
maginato un condottiero così, che muore nel distacco e nell'abbandono così completi.
La scomparsa di Mosè
Ma c'è qualcos'altro da dire: il fatto è che, oltre alla morte di Mosè, colgo in questi testi quella che chiamo la scomparsa di Mosè. Stando alla narrazione biblica,è possibile constatare che Mosè non soltanto è scomparso dalla terra, nel senso che è stato sepolto in terra straniera (cosa abominevole per un Ebreo) e che non ha un sepolcro conosciuto (cosa anch'essa dolorosissima 'per un membro di Israele), ma che addirittura è scomparso per il suo stesso popolo. È curioso infatti che, terminati i libri del. Pentateuco, di Mosè nella Bibbia quasi non si parla più. In un certo senso Mosè scompare anche dalla Scrittura: si lascia cancellare, come il servo che ha compiuto il suo servizio, ora trasmesso ad altri, e che non ha bisogno di gloriose commemorazioni. V alla pena di notare che i profeti non citano quasi mai Mosè; d'altronde, anche gli altri libri storici ne parlano rarissimamente. Posso dirvi che ho fatto il conto di tutte le volte in cui se ne parla: malgrado l'importanza enorme che noi daremmo a quest'uomo, sembra quasi scomparso dalla memoria di Israele. Anche i Salmi, che parlano di tanti personaggi di Israele, nominano molto raramente Mosè. Il libro della Sapienza, che fa tutta la storia dell'esodo dall'Egitto, non nomina neanche una volta Mosè; lo richiama una volta indirettamente, senza farne il nome. L'unico libro che lo nomina è il Siracide, un deuterocanonico molto vicino al tempo di Cristo, il quale dedica alcune righe, molto belle, a Mosè. Però con nostro grande stupore, questo stesso libro del Siracide dedica almeno il triplo o il quadruplo di spazio ad Aronne, che noi finora non abbiamo tenuto in grande considerazione. Mosè ha accettato di essere cancellato dalla memoria del suo popolo!
È interessante constatare come anche nell'aggadà di Pasqua, cioè nel rito pasquale degli Ebrei, dove si parla continuamente dell'Egitto e dell'esodo, Mosè viene nominato forse una volta. Avviene qualcosa che non può essere definito come una damnatio memoriae, ma piuttosto come una cancellatio memoriae. Esemplare, a questo riguardo, è quanto si legge nel salmo 135, la grande litania di ringraziamento: «Lodate il Signore perché è buono, perché eterna è la sua misericordia». Il salmo elenca tutte le grandi imprese della creazione e della Storia della Salvezza:« Ha compiuto meraviglie; ha creato i cieli... Percosse l'Egitto nei suoi primogeniti ... con mano potente e braccio teso. Divise il Mar Rosso in due parti; in mezzo fece passare Israele. Travolse il faraone e il suo esercito. Guidò il suo popolo nel deserto... ». Di Mosè niente. Mosè non c'è; è Dio che ha fatto tutte queste cose. Mosè è ormai nascosto nel braccio di Dio.
Però Mosè rimane
Tuttavia c'è una terza cosa da dire, a proposito di questo primo punto. Il fatto è che ci sono anche aspetti del testo biblico che indicano una misteriosa permanenza di Mosè. Vediamone alcuni, dai più facili ai più sottili.
C'è, per esempio, la permanenza dei suoi libri, i libri di Mosè, la Legge, il Pentateuco. In questo senso Mosè rimane, perché rimangono i suoi libri.
Anche oggi il giudaismo, che attribuisce un valore sacro a tutti i libri della Scrittura, di fatto distingue tra i libri di Mosè e gli altri: in ogni sinagoga ad esempio, nell'armadio in fondo, dietro il velo, ci sono solo i libri di Mosè, non ci sono le altre Scritture. Questi libri sono considerati i libri sacri per eccellenza. Ciò fa si che di Mosè ci sia una permanenza oggettiva: non personale, non trionfalistica, non faraonica, ma legata ai fatti, alle cose, al tipo di servizio che egli ha reso e per cui rimane in Israele
- e, se volete, rimane anche presso i cristiani -.
Ma c'è un aspetto più sottile, che io non avrei notato, se non me lo avesse fatto notare Gregario Nisseno. Gregario si chiede cosa vogliano dire quelle parole che avete ascoltato: «Mosè aveva 120 anni quando mori. Gli occhi non gli si erano spenti e il vigore non gli era venuto meno ». Egli osserva:
« Dunque stava benissimo. Ma allora cosa vuol dire un morto che non chiude gli occhi, un morto il cui vigore rimane? ». Anche i rabbini si son posti questo problema; le loro risposte si potrebbero riassumere come segue: Mosè non voleva morire, perché stava benissimo, ma il Signore gli avrebbe detto: «Devi morire »; lui però ha resistito. Allora, Dio gli avrebbe detto: «Tu resterai in vita, però Giosuè diventerà maestro tuo e di tutto il popolo». Mosè accetta, ma subito dopo ci ripensa e dice: «Lasciami morire, perché meglio morire mille volte che vivere un istante di gelosia». Mosè non avrebbe mai sopportato quella situazione. Così i rabbini. Debbo dire che la risposta di Gregorio Nisseno mi sembra assai più profonda: egli legge questi testi, infatti, in una luce cristiana e casi si esprime: «Che cosa dice la storia? Che Mosè, servo di Dio, mori per ordine di Jahvé, che nessuno conobbe la tomba e che i suoi occhi non si velarono, né il suo volto fu corrotto ». E continua: «Noi impariamo di là che, essendo passato per tante fatiche, fu giudicato degno di essere chiamato col nome sublime di 'servo di Dio'; ciò che equivale a dire che è stato superiore a tutto. Nessuno infatti saprebbe servire Dio senza essersi elevato al di sopra di tutte le cose del mondo. E quello è anche per lui il termine della vita virtuosa. Il fine raggiunto della vita virtuosa, operato dalla Parola di Dio, quello che la storia chiama morte, in realtà è una morte vivente (e qui usa l'espressione teleuten zonta), a cui non segue il seppellimento, sulla quale non si eleva una tomba e che non porta la cecità sugli occhi né la decomposizione sul viso».
Insomma Mosè muore, ma, essendo servo di Jahvé, muore in modo tale da far capire che vive: in lui lo spirito della resurrezione si manifesta misteriosamente. Sembra che Gregorio voglia dire: '« Chi è servo di Dio, sì muore, ma in lui la vita si manifesterà ». C'è una misteriosa permanenza di Mosè, che non possiamo ancora chiamare «resurrezione», ma che orienta verso la resurrezione del Servo di
Jahvé.
2. La morte di Gesù
Fermiamoci ora un momento sulla morte di Gesù, semplicemente sottolineando gli aspetti che la rendono simile e diversa da quella di Mosè.
Innanzi tutto, Gesù è abbandonato alla solitudine. Se prendiamo Mc. 14, 50, vediamo che, quando i soldati si avvicinano per prenderlo, « tutti, abbandonatolo, fuggirono ». Una solitudine molto più amara di quella di Mosè, perché mentre Mosè si al
lontana lui stesso dal popolo, di sua volontà, qui sono i discepoli che vergognosamente lo abbandonano nell'istante decisivo. Gesù rimane solo, o meglio isolato.
Questa solitudine Gesù la vive nell'obbedienza, come Mosè, fino a morire divorato dal servizio, « svuotato» dal servizio, come dice Paolo in Filip. 2, 8: «Si è svuotato, fatto obbediente fino alla morte di croce ». Gesù è l'immagine dello svuotamento del servo, che si è consegnato a Dio senza riserve.
Ma Gesù muore anche sofferente, non soltanto come Mosè che non può entrare nella terra (tra l'altro i rabbini hanno interpretato il fatto che Mosè non entrò nella Terra Promessa come un tratto della misericordia di Dio, perché i tanti guai che lo aspettavano lo avrebbero deluso; per questo il Signore pensò di farlo morire quando ancora guardava la terra da lontano), bensì nel dolore di chi è respinto da coloro a cui si era avvicinato con animo disponibile, pronto a dare tutto. Possiamo riprendere le parole di Gv. 1, 11: «È venuto tra i suoi, e i suoi non l'hanno ricevuto ».
Ecco quindi come la morte di Gesù è presentata in parallelo alla morte di Mosè. Ma quanto più tragica, quanto più dolorosa e umiliante, quanto più dipendente dalla malvagità umana, dall'incapacità dell'uomo di amare l'amore!
La scomparsa di Gesù
Possiamo anche parlare di una scomparsa di Gesù, di una cancellazione di Gesù, analogamente a quanto avviene per Mosè. È vero che noi siamo abituati a mettere insieme la morte di Gesù con la resurrezione. Ma la resurrezione non è una scappatoia alla morte, bensì è la potenza di Dio che si riversa su colui che è entrato totalmente nella morte, subendone, come ognuno di noi, il potere di annientamento; è la fine di tutto: sogni, speranze, amicizie, possibilità di vivere.
Io penso che ciascuno di noi, anche quando affronta la morte nella fede, nella speranza e nell'amore, la subisce dal di dentro della propria esistenza psichica. L'esistenza pneumatica dello Spirito ci dà la speranza; ma l'esistenza psichica ci dà l'evidenza della fine. Gesù ha accettato che l'evidenza della fine fosse in lui patente; perciò, ha vissuto la sua morte come vera morte, non soltanto come!: passaggio, ma come fine, come distruzione, come annientamento della vita. Anche per questo Gesù è il primo fra i morti, è colui che per noi è entrate per primo nella morte, perché potessimo vincere la paura della morte. La morte di Gesù, dunque, è una morte reale e, in quanto morte, inconsolabile. Ma la fede ci proclama che Gesù, il quale si è buttato in questa morte fidandosi della parola del Padre, vive nella gloria.
In conclusione, alla debole permanenza di Mosè
appena indicata con quegli accenni agli occhi che non si chiudono, all'assenza di tomba, al vigore del viso - si oppone ora Gesù che, risorto e vivo, si presenta 'ai discepoli dicendo: «Non temete, sono io». L'esperienza di Mosè lascia il posto ad un'esperienza del tutto nuova, imprevedibile, totalmente altra, che è l'esperienza della resurrezione; di essa la Scrittura ci dice qualcosa in rapporto a Mosè, ma con una timidità che soltanto la potenza di Cristo può esaltare.
3. La Pasqua di Maria
Vorrei ora dedicare un pensiero alla Pasqua (li Maria. Maria è la prima che ha vissuto dopo Gesù l'esperienza pasquale del passaggio da questa vita alla vita gloriosa. È il mistero dell' Assunzione. Ma come possiamo contemplare la Pasqua di Maria, se i testi non ce ne parlano?
Io credo, tuttavia, che ci sia un mezzo per contemplare questa .Pasqua di Maria. Vorrei quindi suggerirvi alcuni testi, che potrebbero aiutarci a comprendere come è stato il passaggio di Maria da questa vita e come è stato il suo ingresso nella gloria. Sono questi appunto i due momenti della Pasqua: il passaggio da questa vita e l'ingresso nella gloria.
Per quanto riguarda il passaggio da questa vita, ho presente 2 Coro 5, 8, dove Paolo dice: «Cosi dunque siamo sempre pieni di fiducia e preferiamo andare in esilio dal corpo ed abitare presso il Signore»; insieme con questo testo Filip. 1, 21: «Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno»; quindi il v. 23: «Sono messo alle strette tra queste due cose: da una parte il desiderio di essere sciolto dal corpo per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio...». Qui vedo rappresentato il sentimento di Maria, il suo desiderio di essere con Cristo, di essere sciolta da questa esperienza terrena, perché si manifesti in lei l'esperienza definitiva: la pienezza della visione.
La presenza di tale desiderio in Maria sta a significare che in lei Gesù ha vinto già la paura della morte. Come dice la lettera agli Ebrei: «(Il Figlio) è divenuto partecipe della nostra carne e sangue, per ridurre all'impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo, e liberare così quelli che per timore della morte erano soggetti a schiavitù per tutta la vita» (2, 14 ss.). Questo è un concetto molto importante. Secondo la lettera agli Ebrei, il peccato nasce dalla schiavitù ai condizionamenti a cui il faraone ci sottopone. Perché noi siamo assoggettati 'a questi condizionamenti? Perché abbiamo paura della morte. In fondo, ogni peccato è espressione della paura della morte, in quanto realizza una forma di possesso spasmodico di qualcosa che non si vuol lasciare; infatti, quella certa cosa costituisce per noi il segno della vita, dimodochè, qualora ne perdessimo il possesso, ci sentiremmo sopraffatti dalla morte. Quindi tutto ciò che è possesso, godimento sfrenato, ricchezza e sfruttamento degli altri, tutto ciò a cui in qualche maniera ci attacchiamo con gusto morboso e possessivo, si riassume in un grido: «Non voglio morire; anzi voglio darmi la certezza che non muoio, ma resto in vita ». Perciò, dice la lettera agli Ebrei, Gesù, passando per primo attraverso la morte, ci libera dalla paura della morte e perciò stesso ci rende liberi da ogni tirannia che ci assoggetta. E Maria, morendo così, fa sue le parole di Paolo: mostra, cioè, che è stata «pienamente liberata dal timore della morte» e che ormai guarda a Cristo come alla
sua esperienza definitiva.
Vi suggerisco un altro testo per quanto riguarda l'ingresso di Maria nella gloria: un testo che può servire per la festa dell'Assunzione: «Vieni, benedetta dal Padre mio, ricevi in eredità il Regno preparato per te fin dalla fondazione del mondo: perché ho avuto fame e mi hai dato da mangiare; ho avuto sete e mi hai dato da bere» (Mt. 25, 34). Maria per prima ha capito che il Verbo di Dio può nascondersi in una realtà piccolissima, come quella di un bambino, e che servendo questa realtà si raggiunge la pienezza, la totalità del Verbo di Dio. Maria ha intuito il tutto nel frammento, cosicché, servendo il piccolo Gesù e servendo il piccolo gruppo dei primi cristiani, ha servito tutta l'umanità: il suo cuore ha avuto la capacità di aprirsi a tutte le creature, qualificandosi come Madre della Chiesa, non soltanto della Chiesa che c'è, ma di quella che ci deve essere e che ci sarà, quindi di tutta l'umanità.
4. Le Pasque del cristiano
Aggiungo alcune riflessioni in merito alle Pasque del cristiano. Uso qui espressamente il plurale « Pasque del cristiano» non soltanto perché, essendo noi ancora inseriti nel tempo, ogni anno che passa arriva una nuova Pasqua e ogni anno ci troviamo in una situazione diversa dalla precedente, ma anche perché si realizzano in noi diversi generi di Pasqua. Ne indico tre.
La Pasqua battesimale cristiana
In primo luogo, c'è la Pasqua fondamentale, che è il passaggio del Mar Rosso: la Pasqua battesimale cristiana. Essa va rinnovata ogni giorno, eppure rimane come cosa sostanzialmente già avvenuta nel passato, da integrare nell'esistenza. Una volta per tutte siamo passati dalla morte alla vita, dalla possessività al dono di noi stessi, dall'apostolato faraonico all'apostolato del servizio. Questo è ormai un valore acquisito, che dobbiamo continuamente rivivificare, in riferimento al battesimo: Gesù ci ha presi in braccio, ci ha fatti passare all'asciutto il Mar Rosso e ci ha salvati.
Il passaggio dall'attività alla passività
C'è poi una seconda Pasqua. È quella che ha sperimentato Mosè negli ultimi giorni della sua vita e consiste nel passaggio dall' attività alla passività. È un passaggio che può essere traumatico, ma tutti dobbiamo in qualche maniera arrivarci. Noi vogliamo agire, siamo fatti per agire, pensiamo ad agire, facciamo progetti, vogliamo servire gli altri; però viene un momento in cui noi siamo prevalentemente oggetto dell'azione altrui: è il momento della malattia, che diventa una vera e propria Pasqua della malattia, preludio alla Pasqua della morte. Ecco le due Pasque che ancora ci attendono: quella della malattia, che prima o dopo viene per tutti, e poi la Pasqua definitiva, che è la morte. Questo passaggio dall'attività alla passività lo stiamo vivendo giorno per giorno. È inutile fermare le lancette dell'orologio o non tirar più i fogli del calendario: andiamo verso la passività. E noi sappiamo, chi più chi meno, quanto queste passività sono dolorose, umilianti, purificanti.
La malattia significa essere più passivi che attivi, significa non servire, ma essere serviti. Noi vorremmo servire, ma a un certo punto bisogna lasciarsi servire, ed accettare di essere serviti. Capiterà anche a noi. Si assiste talora a vere tragedie interiori:
certe persone, che non sanno rassegnarsi ad essere di peso agli altri, avendo realizzato eroicamente per tutta la vita il dono di sé, fanno fatica a ricevere il dono che gli altri offrono per loro. Questa sarà per noi una esperienza davvero nuova, a cui dobbiamo prepararci: il Signore ci verrà incontro, e tutto sarà come un nuovo passaggio del Mar Rosso. Intendo qui sia le malattie formali - quelle che ci obbligano al letto e ci rendono impotenti, per cui
ci devono servire in tutto -, sia tutte le piccole impotenze che ci portiamo dietro, per le quali a tante cose non possiamo arrivare e dobbiamo invece farci aiutare da altri. Dobbiamo renderei conto che in realtà, non siamo mai solo attività, ma siamo un misto di attività e passività, ... per grazia di Dio, dato che proprio questo stato di cose rende possibile il servizio vicendevole. In questo misto di attività e passività, tale per cui nella buona salute ha una prevalenza l'attività, va gradatamente ribaltandosi l'equilibrio a favore della passività, fino a c-he il Signore non ci chiama alla passività totale, cioè a rendergli lo spirito. È questa la passività definitiva, per la quale è passato Mosè, per la quale è passato Gesù, per la quale è passata anche Maria in qualche maniera, per la quale, certamente, dobbiamo passare noi.
La Pasqua della morte costituisce una pietra di paragone per tutta la nostra vita. Tuttavia, non mi riferisco tanto alla morte che di fatto vivremo, perché nessuno di noi può programmare la propria morte, eccetto il suicida, che proprio per questo compie un atto violento, di prevaricazione nei confronti di Dio. A questo proposito noi possiamo soltanto chiedere la grazia di servire Dio anche con l'offerta di quella che sarà la nostra morte, malgrado tutte le suggestioni contrarie del mondo di oggi. In ogni caso, intendo piuttosto riferirmi a quella morte che già fin d'ora è in noi, cioè il pensiero della morte, la paura della morte. Le riflessioni che possiamo fare a questo riguardo variano molto secondo le persone. La mia impressione è che quando mi trovo
di fronte a una possibilità reale di morte - o anche immaginaria, ma immaginata come reale -, io sento totalmente la ribellione verso questa possibilità, a tal punto che percepisco chiaramente come soltanto la potenza della fede, della speranza e della carità mi permetterà di accettarla senza disperazione. D'altronde, vedo che non po"sso programmare questa speranza, proprio perché si tratta di affrontare una. situazione limite improgrammabile, a cui non ci si può preparare in nessuna maniera, data la singolarità esclusiva delle strutture che le sono proprie. Ed è appunto qui che noi mettiamo in Dio la nostra fiducia totale. Possiamo dire: «Posso programmare per oggi la mia giornata: spero di non perdere la fede o la testa, perché più o meno mi rendo conto delle cose che mi capiteranno ». Ma se improvvisamente la mia situazione cambia e mi trovo di fronte a una morte tragica, improvvisa, imprevista e non voluta, allora un accesso di rabbia e di disperazione può scoppiare e tentare di soverchiarmi. Allora solo la grazia di Dio e la sua misericordiosa potenza, la morte di Gesù per me e la morte di Maria, che ha vinto la paura della morte, mi possono essere vicine. Perciò capisco come mai la Chiesa è contenta se diciamo molte volte al giorno: «Prega per noi adesso e nell'ora della nostra morte ». Quest'ora, infatti, è veramente decisiva, nel senso che ci chiama a raccolta, per realizzare finalmente il valore di tutte le altre ore che abbiamo vissute nel corso della nostra esistenza: «Mostraci, dopo questo esilio, il frutto benedetto del seno tuo, Gesù! ».
La Pasqua della resurrezione
La terza Pasqua è la Pasqua di resurrezione, che noi viviamo e attendiamo. «Viviamo », si dice in Rom. 8, 11, perché «lo Spirito (del Risorto) vive già in noi». Quindi, noi siamo già passati dalla morte alla vita; e questo ha delle conseguenze importantissime per tutta la nostra vita morale, ascetica e spirituale: per la nostra stessa antropologia. L'antropologia cristiana è l'antropologia di un essere che è risorto: «Lo Spirito di colui che ha resuscitato Gesù dai morti abita in voi », dice Paolo; e se è così, «colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi ».
Noi viviamo in forza di questa resurrezione iniziata, che è pegno di speranza per ciò che ci attende. Di qui la conseguenza che trae ,Paolo: «C
osì dunque, fratelli, noi siamo debitori, ma non verso la carne per vivere secondo la carne », che porta morte; invece «con l'aiuto dello Spirito fate morire le opere del corpo e vivrete» (8, 12 s.). In Calo 5, 22, poi, Paolo, dopo aver elencato quali sono le opere del corpo da far morire, ci dice quali sono quelle dello Spirito: «Amore, gioia, pace, benevolenza, pazienza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé ». Ecco la vita pasquale del cristiano.
Possiamo concludere dicendo: «Vieni, Signore Gesù! »; e con parole nostre: «Signore, che sei già
in noi, vieni potentemente in noi, facendoci vivere già oggi la vita pasquale; infatti, soltanto vivendo di questa vita pasquale, noi possiamo affrontare la morte nella speranza, nella gioia e addirittura, come Maria, nel desiderio: cosa incredibile per l'uomo di questo mondo, ma miracolo per coloro che attendono la resurrezione».


ottava meditazione
Mosè e il popolo
Per questa meditazione conclusiva mi sono ispirato a Maria Maddalena. Cosa c'entra con Mosè Maria Maddalena? In un primo momento avevo pensato a una meditazione sui «sacramenti di Mosè», intendendo con questa espressione, ad esempio, l'acqua della roccia, la cena pasquale, il pane dal cielo: tutti elementi che ci fanno partecipare alla vita sacramentale del popolo di Dio nel deserto e che, ripresi nel Nuovo Testamento, soprattutto in Giovanni, diventano immagini della vita sacramentale nella comunità cristiana. Avevo pensato anche ad alcune considerazioni circa la «preghiera di Mosè», utilizzando diversi brani del libro dell'Esodo. Sennonché ho preferito trarre l'ispirazione di questa meditazione finale sul rapporto tra Mosè e Gesù dalla scena dell'incontro tra Gesù e la Maddalena. Vedremo insieme per quale motivo.
1. Mosè: l'uomo dei grandi numeri
In primo luogo vorrei dare uno sguardo riassuntivo al rapporto che corre tra Mosè e il popolo, tenendo sempre presente quello che è stato il rapporto vissuto da Gesù con il popolo. Direi allora che Mosè ci appare in tutta la sua opera come l'uomo dei grandi numeri. E ciò non soltanto perché ha scritto il libro dei Numeri, dove appunto compaiono cifre enormi. Leggiamo, ad esempio, nel cap. 1, dove si raccolgono i dati circa i censimenti iniziali: «I registrati della tribù di Ruben risultarono 46.500... I registrati della tribù di Simeone risultarono 59.300 . . . I registrati della tribù di Gad risultarono 45.650. . . » (1,21.23.25); infine, come conclusione:« Tutti gli Israeliti, dei quali fu fatto il censimento secondo i loro casati paterni, dall'età di 20 anni in su, cioè tutti gli uomini che Israele poteva mandare in guerra, quanti furono registrati, risultarono 603.550 » (1, 45 ss.). Tuttavia, anche a prescindere da questi testi più specifici, Mosè rimane l'uomo dei grandi numeri, perché in genere egli ha contatto soltanto con le folle.
Assai diverso, in relazione al contatto con le folle, è il comportamento di Gesù. Questi ha sempre un uditorio relativamente ristretto; se poi nel Vangelo si parla di una folla numerosa, questo non significa che si tratti di un popolo sottomesso a Gesù, o co
munque di una realtà umana che suscita - in quanto folla - l'interesse primario del Signore. Un solo episodio ho trovato in Mosè che si potrebbe chiamare «evangelico», nel senso di un contatto semplice tra due persone: mentre Mosè stava ritornando in Egitto, dopo quella brutta notte in cui stette per morire, « il Signore disse ad Aronne: 'Va' incontro a Mosè nel deserto! ' Andò e lo incontrò al monte di Dio e lo baciò. Mosè riferì ad Aronne tutte le parole con le quali il Signore lo aveva inviato e tutti i segni con i quali l'aveva accreditato » (Es. 4, 27 s.). Questa scenetta di Mosè ed Aronne che si abbracciano nel deserto e si parlano tranquillamente, è l'unica scena evangelica di tutta la storia di Mosè, nel senso che è l'unico momento in cui si realizza un rapporto da persona a persona. Tutte le altre volte Mosè è sempre l'uomo che tratta con le grandi masse, oppure con i rappresentanti della massa: il faraone, come rappresentante di tutto l'Egitto, oppure Aronne, come rappresentante d'Israele. Tra l'altro, è proprio questi che, subito dopo la scenetta che ho chiamato « evangelica », si rivolge a tutto il popolo: «Mosè ed Aronne andarono e adunarono tutti gli anziani degli Israeliti. Aronne parlò al popolo riferendo tutte le parole. . . e il popolo credette» (4, 29-31). Il rapporto ridiventa di massa: Mosè, Aronne, il popolo.
A conferma di quanto detto, vi cito qualche altro passo. Ecco cosa capita dopo il passaggio del Mar Rosso: «Mosè ed Aronne dissero a tutti gli Israeliti: 'Questa sera saprete che il Signore vi ha fatti uscire dal paese d'Egitto; domani mattina vedrete la gloria del Signore; poiché egli ha inteso le vostre mormorazioni contro di lui. Noi infatti che cosa siamo perché mormoriate contro di noi?'» (Es. 16, 6 s.). Così pure in 36, 1 ss., dove sembrerebbe che Mosè tratti con una o due persone, in un rapporto un po' interpersonale, in realtà si tratta degli artisti del santuario: «Mosè chiamò Bezaleel e Oliab e tutti gli artisti nei quali il Signore aveva messo saggezza». Anche qui Mosè non chiama una o due persone, ma chiama tutti gli artisti e dà loro le disposizioni e il denaro necessario.
Mi sembra dunque di dover dire che Mosè rappresenta in maniera molto rigorosa quello che è il principio dell'efficienza sociale, organica e gerarchica, applicato al popolo di Dio: principio alla cui
applicazione egli si dedica instancabilmente. Insomma, non si legge di Mosè quasi nessun episodio evangelico, nel senso di un contatto misericordioso con singoli. Mosè non s'incontra con una vedova di Nain; Mosè non guarisce un lebbroso; non parla con un centurione; non guarisce la suocera di Pietro; non discute col cambiavalute Levi chiamandolo a seguirlo; non entra in visita di amicizia nella casa di Lazzaro, Marta e Maria; non guarisce Bartimeo. Pur facendo molte cose straordinarie, Mosè non ha tempo per le situazioni particolari e personali: Mosè non ha amici, perché è sempre occupato nel generale, nell'universale, nelle cose globali.
2. Gesù e la Maddalena
Gesù è un personaggio che ha tempo e che ha amici. Il caso tipico è quello dell'incontro tra Gesù e la Maddalena: «Maria stava all'esterno vicino al sepolcro e piangeva. Mentre piangeva si chinò verso il sepolcro e vide due angeli in bianche vesti, seduti l'uno dalla parte del capo e l'altro dei piedi, dov'era stato posto il corpo di Gesù; ed essi le dissero: 'Donna, perché piangi? '. Rispose loro: 'Hanno portato via il mio Signore e non so dove l'hanno posto '. Detto questo, si voltò indietro e vide Gesù che stava lì in piedi; ma non sapeva che era Gesù. Le disse Gesù: 'Donna, perché piangi? Chi cerchi? '. Essa, pensando che fosse il custode del giardino, gli disse: 'Signore, se l'hai portato via tu, dimmi dove l'hai posto e io andrò a prenderlo '. Gesù le disse: 'Maria!'. Essa allora, voltata si verso di lui, gli disse in ebraico: 'Rabbuni!', che significa: ' Maestro! '. Gesù le disse: 'Non mi trattenere, perché non sono salito ancora al Padre; ma va' dai miei fratelli e di' loro: Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro '» (Gv. 20, 11-17).
In questo, come in innumerevoli altri episodi evangelici, Gesù svolge l'ufficio del consolatore. Infatti, se Mosè è l'uomo dei grandi numeri, Gesù è l'uomo dei piccoli numeri: egli prende l'uno, o l'altro, e poi si ferma a chiacchierare, come se avesse tanto tempo, aspettando che l'altro capisca, che viva il suo processo di purificazione e che possa finalmente aprire gli occhi e vedere. In realtà ci sarebbe da chiedersi come mai il Signore perda tanto tempo con la Maddalena. Perché aspetta che essa maturi, che veda, che capisca? Perché non dice subito chi è? Gesù le dà tempo. Lo stesso fa con i due discepoli di Emmaus: perde quasi due ore prima per accompagnarli, poi per ascoltarli, per far emergere la loro angoscia e illuminarli; infine c'è la cena. Quanto tempo perde, mentre tutto il mondo aspetta la sua manifestazione di risorto, gli apostoli sono in lacrime, Pietro è ancora smarrito, la gente buona a Gerusalemme è nell'amarezza e pensa che ormai tutto sia finito! È tutto molto strano.
Il fatto è che siamo nella logica della pecora smarrita: le novantanove sono là che aspettano, ma si va in cerca di quella sbandata, che non vuol tornare e che deve essere spinta; siamo nella logica della dramma perduta, nella logica dell'attenzione data al figlio che non lavora invece che al figlio produttivo, nella logica misteriosa della particolarizzazione di Dio: Dio sembra perdersi nel particolare, nascondendosi volentieri nelle cose minutissime e semplicissime, in quelle cose per cui noi non abbiamo tempo, non abbiamo calma, non possiamo fare attenzione. Noi forse saremmo tentati di dire, che, qualora si presentasse un caso che rientra nell'insieme di un gruppo, bisognerebbe prendere provve
dimenti per quel gruppo. Invece Gesù dice: « Il gruppo aspetti; io mi occupo di te, caso particolare! ».
In conclusione, se, Mosè non ha tempo e non ha amici, Gesù ha tempo ed ha amici. Ecco la differenza tra la legge mosaica e il Vangelo.
3. La parola si fa piccola
Vorrei citare ora due espressioni, assai dense e significative, usate dai Padri della Chiesa. Esse sono: o logos brachynetai, ossia « la parola diventa stretta », e o logos pachynetai, ossia « la parola si fa opaca» .
Vediamo di ripensare un po' queste espressioni. Che cosa è il logos? Il logos, nel senso giovanneo, è la manifestazione suprema ed universale del Padre; è la manifestazione perfettissima di Dio: è Dio che si dice; quindi il logos esprime le caratteristiche del Padre, che sono sapienza, universalità, onnipotenza, onnipresenza, onniscienza. . . Questo logos è quello in cui tutto è stato creato: l'universo, gli uomini, le cose, le situazioni della storia. Il logos si potrebbe anche intendere, specificandone il senso secondo la mentalità greca, come la ragione di tutte le cose. Mosè domandava: « Perché non brucia il roveto? ». Questa domanda, che gli veniva dal pneumaJ dallo Spirito, già lo indirizzava verso il logos. Il logos è il luogo in cui tutte le domande si risolvono e da cui tutte le domande partono, per invadere il cuore dell'uomo. Quindi è per eccellenza il luogo dell'universalità, laddove si radica il nostro incondizionato desiderio di comprendere e dove questo stesso desiderio può giungere al suo termine. È il luogo in cui tutti gli uomini, creati nel logos, possono capirsi, intendersi, conoscersi ed amarsi. Insomma, semplificando in qualche maniera i termini, si tratta della ratio universalis, la ragione di tutto: perciò il logos penetra sottilmente dappertutto ed è per eccellenza l'unificatore universale, in quanto conferisce a tutte le cose il senso delle loro differenze e somiglianze, ed insieme delle loro convergenze. Così lo descrive anche il libro della Sapienza.
Ed ecco lo scandalo su cui meditano i Padri greci:
o logos brachynetai! Questa parola universale si rimpicciolisce, si rattrappisce nel tempo e nello spazio, così da essere qui e non là, da essere qui adesso e non prima, qui adesso e non domani; si fa piccolina, e perciò stesso si fa particolare, e quindi accessibile; si presta al rapporto interpersonale, a quel rapporto che tocca ogni singolo, partecipando della particolarità dell'essere umano personale, così da incontrarsi con ciascuno in maniera unica ed assoluta.
Per capire meglio tutto questo cercherò di renderlo comprensibile con degli esempi.
In Es. 33,11 noi vediamo che praticamente soltanto Mosè aveva con Dio un rapporto interpersonale: «Il Signore parlava con Mosè faccia a faccia, come un uomo parla con un altro ». Così pure in Num. 12, 7-8 dopo la ribellione di Maria e Aronne, il Signore dice: «Mosè è l'uomo di fiducia. Bocca a bocca parlo con lui, in visione e non con enig
mi; ed egli guarda l'immagine del Signore ». Di questa straordinaria familiarità tra Mosè e Dio, quasi unica nella storia, rimarrà il ricordo in tutta la tradizione successiva. Il Siracide, facendo le lodi di Mosè, dice: «Gli diede faccia a faccia i comandamenti» (45,6). Questo rapporto interpersonale, faccia a faccia, era riservato solo a Mosè, mentre tutti gli altri avevano rapporto con Dio attraverso Mosè. In Es. 20, 18-19 si dice che, enunciato il Decalogo, «tutto il popolo percepiva i tuoni e i lampi, il suono del corno e il monte fumante. Il popolo vide, fu preso da timore e si tenne lontano. Allora dissero a Mosè: ' Parla tu a noi e noi ascolteremo, ma non ci parli Iddio, altrimenti morremo ' ». Questa regola rimase valida per tutto il tempo di Mosè.
Ma quando il logos si rivela in Cristo, ecco che si rimpicciolisce, non solo perché assume .delle dimensioni, per così dire fisiche, che prima non aveva, ma proprio perché si particolarizza, storicizzandosi. Per quanto questa conseguenza sembrasse scandalosa, i Padri non hanno avuto timore di affermarla, dicendo che quella parola brillante, che poteva saettare il mondo e illuminare le menti, in un colpo « si
è resa opaca », «si è ispessita» (o logos pachynetai). E questa opacità del Verbo è scandalo anche per noi, che, con la nostra religiosità tenacemente pagana, vogliamo costantemente un segno dal cielo visibile per tutti ed universale; oppure con la nostra mentalità irriducibilmente filosofica vogliamo incapsulare Dio nelle reti della nostra mente, nelle reti delle grandi leggi fenomenologiche, o sociologiche, che regolano le manifestazioni religiose. Noi vorremmo un Dio che tutti. possono capire allo stesso modo, in quanto si manifesta a tutti allo stesso modo e come un lampo illumina nello stesso istante tutte le menti di tutti gli uomini di tutti i tempi. Allora avviene che questo Dio, di cui crediamo di saper tutto,. di fronte a questa rete terribile con cui pretendiamo di avvolgere la divinitàin un cerchio nel quale tutto è predeterminato, si fa come un piccolo pesciolino che sfugge tra le maglie della rete: si fa piccolo per essere libero, per essere se stesso. È proprio di Dio, infatti, farsi piccolo, ma in modo tale da non essere mai costretto da questa piccolezza. Viceversa, per quanto grandi noi facciamo le nostre idee di Dio, Dio è più grande di queste idee.
Dio è piccolo e grande insieme, sfuggendo così a tutti i nostri tentativi di programmare il nostro dialogo con lui. Dio è amore e l'amore non accetta programmazione. Dio si fa piccolo, deludendo i nostri programmi, e accetta di essere scandalo per tutti coloro che non vogliono lasciare a Dio la libertà di amarci come vuole, di amarci di un amore vero, cioè imprevedibile, inventivo, ardente, tenero, geloso, incendiario: ùn amore da «bocca a bocca », come dice la Scrittura, un amore che nessun altro possa controllare, perché è il suo segreto con colui che ama.
È questo l'amore che il piccolo Gesù, n logos rimpicciolito, offre, perdendo il suo tempo, alla Maddalena, ai due di Emmaus, agli apostoli. In tal modo l'amore di Dio continuamente ci sconfigge nelle nostre nostalgie pagane di una manifestazione completa, totale, assoluta, definitiva, sempre in mano nostra. Il Dio del Vangelo, n Dio dell'amore vero, ci sorprende continuamente e ci sconvolge. D'altronde in ogni,- rapporto umano vero, quando si scatena quella forza che è l'amore, si scoprono continuamente cose imprevedibili. Si crede di aver capito una persona e invece non si è capito niente, perché altre mille rivelazioni possono esplodere come da un vulcano. Dio si comporta appunto come un vulcano, il quale non ammette di essere posto sotto una griglia che ne determini n dove, n come e il quando, poiché non opera in forme e figure regolari, ma
a scoppi. Il Dio della Bibbia, dall'inizio alla fine, è. questo. Attraverso le pagine della Scrittura noi siamo messi continuamente in contatto con questo Dio, da Mosè a Gesù; eppure non vogliamo arrenderci a questa verità di Dio. Resta il fatto, comunque, che proprio questa verità di Dio è l'unica che ci permette d'incontrarlo a tu per tu, scoprendo che non soltanto noi lo conosciamo, ma in verità siamo conosciuti così come siamo, cioè in quella nostra irripetibilità che nessun altro conosce, in quella nostra solitudine che nessun essere umano può sondare fino in fondo.  
4. Gesù risorto
Chi è Gesù risorto? Gesù risorto è Gesù rimpicciolitosi fino alla morte, resosi opaco fino allo scandalo, fino a diventare il disprezzato dei disprezzati; per questo Dio gli dà la capacità di diventare presenza universale e particolare a ciascuno e a tutti. La resurrezione di Gesù non si identifica con il ritornare di Gesù nel mondo della generalità; essa realizza invéce la potenza di Gesù di essere nello Spirito presente a ciascuno e a tutti.
Fermiamoci sulle due espressioni « presente» e « a ciascuno e a tutti ». Gesù risorto è presente a ciascuno; come se la singola persona amata fosse l'unico oggetto del suo amore. Cristo risorto è l'amore di Dio manifestato nei nostri cuori, per mezzo dello Spirito, a ciascuno e a tutti, e a ciascuno dei tutti. Quel «ciascuno» non individualizza Gesù; Gesù si dona alla Chiesa, al mondo, agli angeli, all'universo: Gesù è per tutti. Però è per tutti così da essere per ciascuno, facendo sì che ciascuno diventi parte del tutto. Questa è 'la potenza di resurrezione del Verbo «abbreviato », del Verbo « rimpicciolito ». Chi accetta lo scandalo del Verbo rimpicciolito parteciperà alla gloria dell'univer
salità del Verbo cosmico, capace di comprendere e di sintetizzare tutto, nel quale tutte le cose trovano il loro ordine e la loro pienezza, nel quale tutto si riassume e si instaura.
Si capisce allora quella frase arditissima di Paolo, che io non oserei mai pronunciare se lui non l'avesse scritta: «E quando tutto sarà sottomesso al Figlio, anche il Figlio sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Iddio sia tutto in tutti» (1 Cor. 15,28). Quel «tutto », in greco ta panta, è difficilmente comprensibile nel testo completo: ina e o theos tà panta en pasin. Non mi fa tanto difficoltà che Dio sia in tutti in qualche maniera, ma che Dio sia tutto in tutti. È proprio l'opposto della particolarizzazione dell'incarnazione. Mentre là Dio era tutto in Gesù, ora Dio diventa la pienezza: è in pienezza in tutti.
Attraverso la via dello scandalo della particolarizza
zione di Gesù, fino all'opacità funerea della croce, la gloria di Dio riempie totalmente di sé ogni essere. Più ci penso e più mi sembra veramente grandiosa, quasi incredibile, questa verità: Dio riempie di sé ogni essere; non si dà un pochino, ma riempie.
Questa pienezza divina rende veramente una totalità
divinizzata tutto l'universo delle volontà umane, che il Figlio ha conquistato al Padre.
Sono convinto che sant'Ignazio ha presente questo
concetto, quando nella Contemplatio ad amorem usa le parole «tutto» e «tutti ». Per esempio quando dice: «Considerare come Dio opera ed è attivo per me in tutte le realtà create» (ES, n. 236); « mirare come tutti i beni e i doni discendono dall'alto» (n; 237). È vero che qui non c'è ancora il « tutto in tutti », che è la perfezione finale a cui si deve giungere, ma, attraverso la contemplazione amorosa di Dio in tutti noi, intravediamo già come si va attuando gradualmente anche la pienezza del Dio « tutto in tutti », naturalmente secondo la misura in cui ciascuno può ricevere tale visione.
Se Gesù risorto, dunque, diviene presenza universale e particolare in ciascuno e in tutti, che cosa ne deriva per noi? Il Vangelo è molto concreto: vi cito soltanto alcuni passi famosi dell'evangelista Matteo, che forse più di tutti ha capito ed espresso in maniera vigorosa le conseguenze di ciò che significa Gesù risorto e presente nella sua Chiesa. In Mt. 25, 40 Gesù, dopo aver detto: «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare; ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato; nudo e mi avete vestito, malato, carcerato . . . », alla domanda degli eletti: «Ma quando ti abbiamo mai visto...?» risponde: «Ogni volta che avete fatto queste cose» non alla massa, alla generica totalità, ma «ad uno solo di questi miei fratelli più piccoli, lo avete fatto a me! ». Chi porta fino alle estreme conseguenze la particolarizzazione di Gesù, costui siederà alla destra del Figlio dello uomo, quando verrà nella sua gloria.
Ecco perché Gesù ha tempo, così da fermarsi volentieri con i singoli. In ogni singolo, infatti, sa vedere il «tutto ». Matteo ha anticipato questa politica del singolo che contiene il «tutto» in 18, 6: «Chi scandalizza anche uno solo di questi piccoli che credono in me, sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina girata da asino, e fosse gettato negli abissi del mare ». Matteo non dice genericamente: «Non siate scandalosi », bensì afferma che il nostro destino si gioca nel rapporto con « uno solo », con una sola persona. E poi, in 18, lO: «Guardatevi dal disprezzare uno solo di questi piccoli, perché vi dico che i loro angeli dal cielo vedono sempre la faccia del Padre
mio che è nei cieli». E ancora il v. 14, che conclude la breve parabola della pecora smarrita: «Se un uomo ha cento pecore e ne smarrisce una, non lascerà forse le novantanove sui monti per andare in cerca di quella perduta? Se gli riesce di trovarla, in verità vi dico che si rallegrerà per quella più che per le novantanove che non si erano smarrite. Cosi il Padre vostro celeste non vuole che si perda neanche uno solo di questi piccoli». Vediamo qui tradotta nella pratica cristiana quella che è stata la particolarizzazione incarnatoria di Dio in Gesù. Noi siamo chiamati a trovare Dio nel mondo, nelle cose, negli altri, nella storia; tuttavia questo non sarà mai possibile, se non partiremo da quella situazione immediata che è la nostra. In ogni situazione immediata, che comporta. anche solo il più piccolo servizio, noi tocchiamo la totalità del servizio; in ogni frammento nei tocchiamo il tutto di Dio che si manifesta.
Possiamo concludere questa meditazione con la breve preghiera che sant'Ignazio pone dopo il primo punto della Contemplatio ad amorem: «Prendi, o Signore, e ricevi ogni mia libertà, la mia memoria, la mia intelligenza e tutta la mia volontà. Tutto ciò che ho e che possiedo tu me lo hai dato. A te, o Signore lo riconsegno. Tutto è tuo. Disponi secondo tutta la tua volontà. Dammi il tuo amore e la grazia e questo mi basta» (ES, n. 234).