martedì 21 maggio 2013

Accogliere Cristo nei rifugiati e nelle persone forzatamente sradicate



(Nicola Gori) «Accogliere Cristo nei rifugiati e nelle persone forzatamente sradicate». È di drammatica attualità il titolo del documento del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti allo studio della ventesima assemblea plenaria del dicastero, che si svolge a Roma, dal 22 al 24 maggio.
«Il pensiero — spiega il cardinale presidente Antonio Maria Vegliò annunciando il documento e commentando per il nostro giornale i temi dell’incontro — corre naturalmente alla Siria, cioè a una delle situazioni più drammatiche in corso oggi e sulla quale ho raccolto la forte preoccupazione del Santo Padre. Una grave crisi umanitaria che ha già provocato l’esodo di 1.500.000 persone ufficialmente registrate, soprattutto nei Paesi confinanti». Per questo — aggiunge il porporato — «faccio appello a tutta la comunità internazionale, e naturalmente alla Chiesa, ad attivarsi per trovare delle sollecite risposte».


Papa Francesco invita spesso ad andare nelle periferie per accogliere i poveri e i sofferenti. Tra questi possiamo includere i rifugiati. Come rispondete a questo invito?

Fra le iniziative che abbiamo in corso figura innanzitutto proprio la nostra assemblea plenaria, che dedichiamo alla drammatica realtà della mobilità forzata. Dalla plenaria, organo competente a risolvere le maggiori questioni del dicastero, contiamo di raccogliere i frutti preziosi dell’esperienza e competenza dei nostri membri e consultori e di altri consulenti, di realtà territoriali diverse. Quest’anno, inoltre, ricorre il venticinquesimo anniversario del nostro Pontificio Consiglio, che sarà dedicato anche a questo tema. La terza grande iniziativa è rappresentata dalla prossima uscita di un nostro nuovo documento di orientamenti pastorali per questo settore. Si intitolerà Accogliere Cristo nei rifugiati e nelle persone forzatamente sradicate e sarà presentato ufficialmente il 6 giugno prossimo.

Di cosa si tratta?

È il frutto di un lungo studio e di consultazioni con esperti, fatto per orientare e suscitare una nuova consapevolezza in merito alla mobilità forzata nelle sue diverse forme, e per stimolare all’esercizio dell’accoglienza e della carità storicamente innati nella missione ecclesiale.

Quali sono le cause alla radice del fenomeno della mobilità forzata?

I motivi che costringono tanti esseri umani a lasciare le loro case o terre natie sono numerosi, di carattere politico, sociale ed economico. Nei loro spostamenti forzati, un certo numero di persone non varca il confine nazionale, ma è sfollato o dislocato all’interno del loro Paese. Vi sono coloro che fuggono dai conflitti armati, dai disastri ambientali provocati dai cambiamenti climatici o dalla mano dell’uomo; altri sono sfollati dai luoghi in cui vivono perché l’autorità locale ha deciso di realizzare progetti di sviluppo infrastrutturale, come per esempio la costruzione di una diga. La mobilità forzata include anche le persone vittime della tratta a scopo di sfruttamento sessuale o di lavoro forzato, come pure il triste fenomeno dei bambini soldato. Non ultimi vi sono gli apolidi. Le persone soggette a traffico sono circa 21 milioni, come dire che tre persone su 1.000 nel mondo sono vittime oggi della tratta. Un denominatore comune a tutti si può individuare nella violazione dei diritti umani a cui sono tristemente sottoposti. La migrazione forzata, come accenno nell’introduzione del documento, appare difficile da delimitare per il crescente fenomeno dei “flussi misti” di migranti e rifugiati. Non è più così evidente, infatti, la distinzione tra migrazione volontaria per motivi di lavoro e migrazione forzata a seguito di minacce e persecuzioni che subiscono i cosiddetti rifugiati.

E qual è l’atteggiamento della Chiesa in questi casi?

La Chiesa, maestra in umanità, vede nell’emigrazione volontaria un’occasione d’incontro fra i popoli, con incentivi allo sviluppo e allo scambio culturale. Di contro, condanna con fermezza ogni forma di costrizione o di minaccia alla vita delle persone. Per suscitare consapevolezza e testimoniare la sua sensibilità alle persone coinvolte in questo fenomeno, il nostro Pontificio Consiglio, nel 1992, aveva stilato un documento dal titolo I rifugiati: una sfida alla solidarietà, pubblicato in collaborazione con il Pontificio Consiglio Cor Unum. Negli anni, questo ambito della mobilità umana si è andato ampliando e l’attenzione della Chiesa ha incluso anche le vittime della tratta di esseri umani. Tratta che è sempre più presente nel tessuto della società sotto mille forme di lavoro forzato e di lavoro vincolato. Innumerevoli sono le persone di ogni età, perfino i bambini, costretti a lavorare quasi senza retribuzione, per produrre a prezzi bassi e ottenere alti profitti.

Quale accoglienza trova la pastorale per le migrazioni forzate?

È una questione che tocca un fenomeno in crescita costante: basti pensare che il numero di quanti hanno lasciato le loro case o si trovano in esilio ammonta attualmente a 100 milioni. Una cifra che tocca tutti i contesti regionali del mondo. Come possiamo rispondere al trauma dei bambini soldato, come possiamo assistere le tante e tante donne violate, o confortare dei genitori che durante la fuga hanno perso un figlio? Queste persone hanno bisogno di conforto e di speranza per essere in grado di ricostruire la loro vita. Una risposta pastorale è bene accolta da tutte le religioni. L’importante è essere rispettosi del credo religioso altrui, senza l’intenzione di convertire persone che si trovano in condizione di fragilità.

Qual è in questo contesto la sfida più urgente da affrontare?

Innanzitutto credo sia necessario trovare nuovi e creativi canali di collaborazione e di collegamento in rete tra le varie istanze. Necessaria al giorno d’oggi è una rete globale che possa collegare le persone del Paese di origine con quello di destinazione. La migrazione forzata si va caratterizzando per la sua diversità e complessità, e questo richiede una maggiore unità tra le componenti ecclesiali e una rinnovata solidarietà con le vittime. Anche a fronte di sofferenze e persecuzioni, la Chiesa è invitata a uscire verso le periferie della povertà e allo stesso tempo è chiamata a imparare a vivere in semplicità e a condividere generosamente con i più deboli i doni che ha ricevuto da Dio.

In molti Paesi l’integrazione sembra fallita. Quali nuove strade occorre percorrere per una civile coabitazione tra immigrati e autoctoni?

L’integrazione è un processo a doppio senso che coinvolge l’immigrato e il Paese di accoglienza. Da un lato si potranno ottenere risultati positivi dall’effettiva partecipazione del migrante o rifugiato alla vita del Paese ospitante, con una sua doverosa osservanza delle regole civili del Paese medesimo; dall’altro lato i risultati dipenderanno dall’apertura che la società sarà in grado di proporre. Il processo di integrazione è lungo e coinvolge questioni socio-economiche — alloggio, lavoro, istruzione, mezzi di comunicazione sociale — così come aree socio-culturali. Ciò comporta partecipare e intensificare le interazioni sociali in campo civile, culturale e politico. Un aspetto importante dell’integrazione è verificare se il migrante o il rifugiato si senta accettato dalla comunità ospitante e abbia la percezione di far parte di quella comunità. È ampiamente riconosciuto che l’educazione è il punto di partenza per l’integrazione degli stranieri. L’impegno esplicito e il coinvolgimento delle autorità locali civili saranno essenziali per la loro realizzazione. Allo stesso tempo, è vero che gli atteggiamenti di ostilità verso i migranti, manifestati da una parte della società, sono spesso frutto di pregiudizi e discriminazioni dettati da ignoranza e da paura. Ciò è di impedimento a una buona integrazione. Una cultura della convivenza pacifica tra le comunità di origine, di transito e di destinazione è promossa dalla Chiesa, che chiede di avere comprensione per l’altro.

Qual è la posizione della Chiesa nel dibattito attuale tra ius soli e ius sanguinis?

A ciascuna persona deve essere data protezione sul territorio di uno Stato. Questo non è un dibattito solo teorico, ma soprattutto concreto. A titolo di esempio si può ricordare la situazione dei rom in tanti Paesi. Molti di loro rimangono apolidi, non avendo la protezione di alcuno Stato, con tutte le conseguenze negative che ne derivano. Essi vivono quasi come persone invisibili, prive di documenti d’identità, con scarse possibilità di ottenere un posto di lavoro, l’accesso allo studio e di lasciare i loro poveri accampamenti. I loro figli, anche quando sono nati e cresciuti in una nazione, rimangono comunque privi di nazionalità e quindi vittime della legislazione di quella stessa nazione. Spesso questo comporta l’accattonaggio, anche da parte dei bambini, che trascurano così la scuola e l’istruzione. Si dovrebbero creare le condizioni per porre fine all’apolidia. Sarebbe una dimostrazione di civiltà, di generosità e di responsabilità se l’Italia, per esempio, valutasse seriamente l’ipotesi di concedere la cittadinanza a quanti sono nati e cresciuti sul suo territorio, o almeno fornisse loro il permesso di soggiorno.
L'Osservatore Romano


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http://kairosterzomillennio.blogspot.com/

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