mercoledì 6 agosto 2014

Trasfigurazione del Signore 2014. Omelia di Enzo Bianchi.

ikebana per la festa della Trasfigurazione 2014

Bose, 5-6 agosto 2014
Omelia di ENZO BIANCHI
Fratelli e sorelle amati dal Signore,
noi ci ritroviamo qui, come assemblea del Signore, in veglia per celebrare il grande mistero della Trasfigurazione di Gesù. Permettetemi che all’inizio di questa nostra meditazione sul vangelo io dica con esultanza la comunione che questa sera è presente qui, nella nostra assemblea, comunione monastica che tanto è decisiva per confermare la nostra vocazione. Abbiamo qui con noi m. Francesca e s. Gabriella del monastero di Civitella S. Paolo, il monastero in cui vivono anche le nostre sorelle di Bose, con il quale cerchiamo di fare una sola comunità e un solo ministero monastico nella chiesa; vi sono due fratelli del monastero cistercense di Pra’d Mill; c’è un fratello della comunità benedettina di Dumenza; ci sono le nostre sorelle di Cumiana. Certamente molti altri monasteri sono uniti a noi questa sera, non solo perché ci hanno fatto pervenire i loro messaggi e l’assicurazione della loro preghiera, ma perché anche loro vegliano, in questa che è una festa di tutta la chiesa, ma è per eccellenza la grande veglia dei monaci cristiani, dal monte Athos fino alla nostra povera comunità.
Il mistero della trasfigurazione che celebriamo, ci chiede contemplazione e ci riempie di grande gioia ma soprattutto di grande speranza, perché nella trasfigurazione di Gesù possiamo discernere una promessa per ciascuno di noi, per la nostra vita nella carne mortale: la promessa che anche noi saremo trasfigurati, trasfigurati come la carne fragile di Gesù, trasformati dalla potenza dello Spirito santo, e lo saremo per sempre, partecipando alla vita stessa di Dio, quando nella morte cadremo tra le braccia del Signore vivente per sempre. Ma a noi compete “compiere ciò che è giusto, ogni giustizia” (cf. Mt 3,16), e per questo ci mettiamo in ascolto della pagina del vangelo che abbiamo proclamato, il vangelo secondo Matteo. “Sei giorni dopo” la confessione di Pietro a Cesarea, che aveva riconosciuto in Gesù il Figlio del Dio vivente (cf. Mt 16,16), e avvenuto il primo annuncio della sua passione e morte a Gerusalemme da parte di Gesù (cf. Mt 16,21), Gesù sale su un monte, “su un alto monte” per la terza volta.
Vi era salito per essere tentato dal demonio (cf. Mt 4,8-10), vi era salito per dare la sua parola alla comunità dei discepoli da lui radunati (cf. Mt 5,1), vi sale ora con tre discepoli, “Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello”, i tre discepoli che sono i più vicini a Gesù e che avranno un ruolo primario nella chiesa nascente dopo la Pentecoste. Gesù sale sul monte, in disparte, e proprio lui, l’uomo Gesù, interamente uomo come lo siamo noi, subisce una trasfigurazione, muta la sua forma. Ai tre discepoli saliti con lui Gesù appare altro, assomiglia soprattutto a quel Figlio dell’uomo intravisto nei cieli da Daniele, come abbiamo ascoltato nella prima lettura, “uno simile al Figlio dell’uomo veniente con le nubi del cielo” (Dn 7,13). “Il volto di Gesù risplendette come il sole e le sue vesti divennero bianche, luminose”.
È sempre Gesù, la sua identità non viene meno, la sua umanità non scompare, non è negata, ma il suo corpo, la sua carne è glorificata, permette di vederela gloria di Dio che abita in quel corpo, che è presente in quella carne mortale. È Gesù, ma è veramente l’unica volta in cui egli, durante la sua vita terrena, è stato visto quale Kýrios, Signore, e sarà visto così soltanto nella sua resurrezione e lo vedranno tutti gli uomini e tutto il cosmo nella sua gloriosa venuta, nella sua manifestazione finale. Anche l’autore dell’Apocalisse lo vede in questa forma, con “un volto che brilla come il sole in tutto il suo splendore” (Ap 1,16). Certo, Mosè aveva ricevuto da Dio il dono di un volto luminoso per l’assiduità vissuta con Dio, per la frequenza degli incontri vissuti con il Signore (cf. Es 34,29-35; 2Cor 3,7), ma qui Gesù riceve un volto di luce, una luce che emana da lui non riflessa, una vera glorificazione che riguarda tutta la sua persona.
Quando aveva proclamato la parabola del grano e della zizzania, nel concluderla Gesù aveva promesso: “I giusti risplenderanno come il sole nel regno del Padre loro” (Mt 13,43), ma ora è lui a risplendere come il sole. È il Signore, è il Figlio dell’uomo veniente nella gloria, è il Figlio di Dio inviato nel mondo in una carne mortale, ma la sua vera identità profonda, che è sempre stata velata dalla sua carne mortale, qui invece si mostra in tutta la sua forza. La trasfigurazione appare così come una profezia, una rivelazione per tre tra tutti i discepoli, una profezia di quella che sarà un’epifania definitiva per tutta l’umanità. In quella gloria luminosa ecco “apparire Mosè ed Elia”, la Legge e i Profeti, “che dialogano con Gesù”.
Proprio nel vangelo secondo Matteo Gesù aveva detto di non essere venuto ad abolire la Legge e i Profeti (cf. Mt 5,17), anche se questa era un’accusa rivolta contro di lui da quanti lo ascoltavano diffidando del suo insegnamento e non credendo alla sua exousía, alla sua autorevolezza (cf. Mt 7,29; 21,23-27). Ma proprio su questo monte Mosè ed Elia, la Legge e i Profeti che Gesù voleva compiere pienamente, accanto a lui testimoniano la sua fedeltà, la sua autenticità di ermeneuta delle sante Scritture, syllaloûntes met’ autoû, “conversanti con lui”. Gesù è sempre stato in ascolto della Legge e dei Profeti, ha sempre letto le Scritture per nutrire la sua fede e plasmare la sua vita, e ora ecco che i testimoni della sua vocazione, della sua missione e della sua identità stanno accanto a lui.
Le parole di Mosè ed Elia sono ascoltate da Gesù, ma le parole di Gesù sono ascoltate da Mosè ed Elia, e questa conversazione è oggi più che mai la parola di Dio, fatta carne in Gesù (cf. Gv 1,14), donata agli uomini tramite la Legge e i Profeti, e in modo definitivo nel Figlio stesso di Dio. Pietro allora fa una nuova confessione di fede. Aveva detto poco prima, sei giorni prima, rispondendo alla domanda di Gesù sulla sua identità: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Mt 16,16), ma ora gli dice “Kýrie”, lo invoca “Signore”, con il Nome santo di Dio stesso, e gli dice: “Signore, se tu vuoi, io farò tre dimore, una per te, una per Mosè e una per Elia”.
È un atteggiamento adorante quello di Pietro: “Se tu vuoi, Signore, siccome è cosa buona per noi stare qui,” – ecco iniziativa di Pietro – “io farò tre dimore, cioè predisporrò tutto per il compimento e la realizzazione di tutte le promesse”. Ma “mentre ancora parla, la nube luminosa”, quella nube che nascondeva la presenza di Dio sul monte Sinai (cf. Es 19,9.16; 20,21, ecc.), avvolge tutti i protagonisti di quell’evento, “e nella nube (o dalla nube) una voce dice (phonè … légousa): ‘Questi è il Figlio mio, l’amato, in cui mi sono compiaciuto’”. È la voce stessa di Dio che dichiara Gesù suo Figlio amato, è anche una risposta di Dio alla confessione di Pietro: “Tu sei il Figlio del Dio vivente … Signore”. Quella voce che era già risuonata nel battesimo su Gesù (cf. Mt 3,17), ma che solo lui aveva ascoltato, ora è ridetta davanti ai tre testimoni, ai tre discepoli. Siamo di fronte a un’epifania di Cristo spiegata da Dio stesso: “Questi è il Figlio mio, l’amato. Ascoltatelo!”.
Quell’ascolto che è andato finora alla Legge e ai Profeti può andare a Cristo, perché egli li compie, li realizza, li assume. Di fronte a questa rivelazione “i discepoli, presi da grande timore, cadono con la faccia a terra”, e solo la mano di Gesù può rialzarli dicendo loro: “Non temete!”. Cadono con il volto a terra come Ezechiele davanti alla visione della gloria di Dio (cf. Ez 1,28-2,1), come Daniele di fronte alla manifestazione del Figlio dell’uomo, ma i tre hanno visto furtivamente la gloria di Gesù e hanno ascoltato la proclamazione di Dio: è lui il Figlio amato, è lui l’interprete definitivo e ultimo (dopo il quale non ce ne sarà nessun altro!) della Legge e dei Profeti, l’ermeneuta definitivo e ultimo di Dio, l’ultimo volto di Dio, e non ce ne sono altri né da attendere né da cercare. Questo è il mistero che celebriamo in questa notte, mistero nel quale la nostra comunità fin dagli inizi ha voluto innestare la celebrazione della professione monastica di ogni fratello e di ogni sorella.
Sì, perché proprio nella trasfigurazione la parola di Dio appare più che mai come promessa e la promessa di Dio appare più che mai come parola che si realizza. In verità ogni parola di Dio è promessa, perché ogni parola di Dio si realizza, si compie, non può essere diversamente. Quando Dio parla, promette, sempre, sempre, e ogni sua parola è sempre sostenuta da Dio stesso finché non si è compiuta. Non a caso Geremia ha ascoltato questa parola da parte del Signore: “Io veglio sulla mia parola per compierla” (Ger 1,12). La parola di Dio è sempre fedele, affidabile e sicura (cf. Sal 119 passim), è promessa che si compie. È significativo che in ebraico non ci sia il verbo “promettere”, ma solo “parlare”: e quando Dio parla, la sua parola è promessa, perché se non è una promessa è una menzogna. Basta pensare all’inizio del libro della Genesi: “Dio disse: ‘Luce!”, e la luce fu, e Dio vide che era cosa buona” (Gen 1,3-4).
Questo è l’inizio del parlare di Dio, inizio in cui possiamo vedere che ogni sua parola è promessa che si realizza e si realizza per il bene. Quando Dio parla all’uomo – da Abramo in poi –, parlando sempre promette, e non resta all’uomo se non la risposta: “Eccomi” (Hinneni: Gen 22,1, ecc.), e anche la parola umana dunque è, o dovrebbe essere, una promessa. Altrimenti è meglio per l’uomo non parlare, non consegnare la sua parola! Sta scritto all’interno della Torah: “Quando un uomo farà un voto al Signore per assumere un impegno, non profanerà la sua parola e farà sempre ciò che è uscito dalla sua bocca” (Nm 30,3). Promettere-promessa nel nostro linguaggio significa mettere qualcosa davanti agli altri, mettere qualcosa in anticipo. Promessa, o parola data, è dunque la parola che uno consegna a Dio, è una parola che uno dice davanti agli altri, è una parola che già oggi impegna il suo futuro.
Promessa è dare una parola che non lascerà posto ad altre parole in contraddizione con la parola data. In questo senso dovremmo comprendere, soprattutto noi che facciamo vita monastica ma anche voi che vivete una vicenda d’amore, che c’è una differenza profonda tra progetto e promessa. Anche se oggi siamo pronti a confonderli, perché è la cultura che fa emergere il progetto più della promessa: il progetto è qualcosa che è deciso dal mio io, autonomo, è una parola che io decido di realizzare; la promessa, invece, è un impegno preso con Dio e con gli altri, è un impegnarsi con Dio e con gli altri, definendo addirittura tutta una vita, decidendo oggi il futuro fino alla morte.
Chi promette non ha più a sua disposizione la vita, il suo futuro non è consegnato né al caso né alla necessità ma è determinato per sempre. E la parola data, la promessa attesta che così è! Nella promessa c’è sempre un legame con Dio e con gli altri: nel matrimonio, come nella vita monastica la promessa crea un patto, crea un’alleanza in cui Dio non è solo presente e garante, ma è uno dei contraenti, e la sua presenza è conferma, sostegno, forza dell’alleanza, del patto. Quando si contesta la promessa, quando viene meno la parola data, allora si tradisce la relazione con Dio, con l’altro, con gli altri. Questo è il mistero dell’alleanza, in cui Dio è sempre fedele anche quando viene a mancare la nostra fedeltà; ma è un mistero, quello dell’alleanza, nel quale noi di fatto diciamo “sì” alla vita oppure scegliamo una via di morte.
La trasfigurazione di Gesù è una parola data dal Padre su Gesù, una parola data da Mosè ed Elia su Gesù, una parola definitiva: Gesù è il Figlio amato, è la Parola di Dio stessa. Ma la trasfigurazione è anche la parola data da Gesù al Padre, perché proprio da quell’evento scaturisce l’andata di Gesù a Gerusalemme, la determinazione del suo futuro in obbedienza alla conversazione con Mosè ed Elia, i quali – ci dice Luca – “parlavano con Gesù del suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme” (Lc 9,31), cioè del suo esodo pasquale, della sua passione e morte. E infatti, subito dopo la trasfigurazione, lo stesso Luca si affretta ad annotare che Gesù “indurì il suo volto per andare a Gerusalemme” (Lc 9,51), dove l’indurimento non è solo un orientamento preso, ma è un guardare avanti senza più guardare indietro, è un rendere dura la faccia come fa il Servo del Signore (cf. Is 50,7), perché non ha più cura di nulla, di niente di ciò che può sopravvenire sulla strada, dovuto al caso, alle disgrazie, o dovuto alla necessità.
I tre testimoni della trasfigurazione di Gesù, anche loro danno a lui una parola, e la riconosceranno quando Gesù sarà risorto dai morti, in modo che la parola data e la promessa prevalgano sull’incertezza degli eventi della vita o sul fato, sulle necessità che nella vita emergono. Non dobbiamo dimenticare questo, soprattutto durante una professione monastica. Emanuele, che questa sera emette la sua professione monastica nella nostra comunità, è consapevole di questo e dovrà ricordarlo di fronte alle tentazioni che gli sbarreranno la strada. Ci saranno tante tentazioni e tante ragioni per lasciare la strada intrapresa e che oggi intraprende con audacia, definendo per sempre il suo futuro fino alla morte. La comunità, che lo ha ammesso con gioia e unanimità a questo atto di alleanza, dovrebbe sentire questa sera tutta la responsabilità della parola data a lui; lui dà una parola a Dio e a noi, attraverso i voti, ma anche noi diamo una parola a lui, entrando in alleanza con lui e dichiarandoci suoi custodi, custodi fedeli, affidabili, fino alla morte.
Oggi il gesto che Emanuele compie può sembrare una follia, culturalmente almeno un azzardo, perché siamo in una società in cui è venuta meno la consapevolezza e la responsabilità che la parola è una promessa, non lo sappiamo neanche più. Ma solo se la parola è promessa, allora è affidabile, parola in cui si può mettere fiducia, per porre la fiducia nell’altro, negli altri; ma se la parola non è tale, allora – permettetemi la domanda – che ne sarà della nostra umanità, della qualità umana di ciascuno di noi, quando siamo consapevoli che l’uomo, a differenza di tutte le altre creature, ha questa capacità di dare e ricevere una parola affidabile? Emanuele dice al Signore che lo ha chiamato: “Eccomi, sono qui davanti a te e per te.
E sono qui davanti a te insieme ai miei fratelli e alle mie sorelle, tutti insieme a causa di Cristo e del Vangelo, e tutti insieme per nessuna altra ragione”. Non c’è nessuna ragione per cui stiamo insieme nella nostra comunità, se non Cristo! Ma questa ragione è il fondamento della nostra vita umana, non della nostra vita spirituale o religiosa; perché di vita ce n’è una sola, una sola vita noi viviamo e non ce n’è data un’altra! A partire da questa meditazione io mi rivolgo soprattutto alla comunità, chiedendo questa consapevolezza: so benissimo che avviene che questa sera c’è qualcuno che abbraccia il fratello e che metterà in discussione, magari tra un anno o due, la sua vocazione e se ne andrà.
Ma costui, costei porterà la sua responsabilità davanti al Signore e si dichiarerà non affidabile. Questo va preso sul serio, umanamente e cristianamente. Alla fine vorrei rivolgere un ringraziamento al padre e alla madre di Emanuele. Non solo gli hanno dato la vita, ma gli hanno dato un’educazione, un orientamento cristiano e lo hanno aiutato a compiere quello che il Signore gli ha chiesto, quella grazia ricevuta nel battesimo e che giunge a una pienezza. Li ringrazio davvero, perché ci hanno dato un fratello, ma l’hanno dato al Signore oltre che a noi. E il Signore questa sera, per l’invocazione e l’intercessione di voi tutti, ci conceda davvero il dono della stabilità: la stabilità, che è questa caratteristica del monaco che sa dimorare, sa rimanere, sa essere affidabile, perché ha dato la parola davanti agli altri e in anticipo per tutta la sua vita.