mercoledì 18 febbraio 2015

Enzo Bianchi: "La Quaresima come lotta spirituale"





Il calendario liturgico ci introduce oggi in un periodo, la Quaresima, durante il quale la Chiesa ci invita a prepararci spiritualmente per la celebrazione della Pasqua. Fissato in quaranta giorni in ricordo dei quaranta giorni passati da Gesù nel deserto, questo tempo forte è particolarmente adatto per gli esercizi spirituali, i pellegrinaggi e le liturgie penitenziali, nonché per le privazioni volontarie come il digiuno e l’elemosina. Al fine di sviscerare il valore profondo della Quaresima, ZENIT ha intervistato chi, a una vita monastica all’insegna di celibato, preghiera e lavoro, ha dedicato gli ultimi quarant’anni della propria vita: Enzo Bianchi, fondatore della Comunità di Bose.
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Nell’ultima puntata della trasmissione radiofonica, la sua meditazione si è concentrata sulla lotta spirituale. Sembra un tema, quest’ultimo, strettamente legato alla Quaresima…
Uno degli strumenti che la Chiesa ci propone per vivere la Quaresima come cammino verso la Pasqua è la lotta spirituale. Un tema, ahimè, purtroppo oggi un po’ desueto e poco ricordato. Ma è un tema che ha costituito, per le generazioni cristiane passate, uno degli strumenti più necessari per formare un cristiano maturo. Del resto ciascuno di noi deve fare una lotta spirituale dentro di sé per non ubbidire agli impulsi disordinati, alle pulsioni che ci abitano, oserei dire all’animale che è in noi e che non dobbiamo dimenticare. Il cammino di umanizzazione ci mette di fronte a delle scelte, a dei “no”; ed è anche un cammino in cui bisogna saper dire con libertà ma talvolta a caro prezzo dei “sì”. Ecco, la lotta spirituale è - secondo tutta la tradizione cristiana a partire da San Paolo, che ne ha parlato più volte nelle sue Lettere - contro il demonio e le potenze del male, le quali costantemente ci sollecitano.
Come possiamo identificare, concretamente, queste potenze del male?
All’interno di questo combattimento spirituale la tradizione pre-monastica ha visto una lotta contro le “passioni madri”, che sono la libido erotica, la libido del possesso e la libido del dominio. E poi, di conseguenza, i figli di queste “passioni madri” sono i sette vizi capitali, come li ha chiamati la tradizione latina. Allora si tratta di fare un vero e proprio combattimento perché non si deve accettare la tentazione, ma si tratta di vincerla per essere più liberi e soprattutto più capaci di amore.
Combattimento che inizia con il digiuno del Mercoledì delle Ceneri. Si tratta solo di un esercizio di auto-disciplina o assume anche un altro significato?
Fin dalla tradizione ebraica e poi in quella cristiana, il digiuno si è caricato di significati diversi a seconda dei tempi. Oggi lo comprendiamo in modo diverso dal passato, quando il digiuno era semplicemente mortificazione, passaggio attraverso astinenze, fatiche, sofferenze per ritemprarci e avere un carattere più forte. La sensibilità di noi contemporanei ci fa intendere il digiuno da un lato come strumento per dimostrare che siamo ancora padroni del nostro corpo, ma soprattutto diventa un digiuno per la condivisione. Per noi che viviamo in un mondo ricco e consumista, digiunare significa imporci una sobrietà per condividere con gli altri. È una forma di estensione della carità. È il digiuno come lo chiedevano i profeti, già nell’Antico Testamento. È il digiuno indicato da Isaia; che consiste nel supplire ai bisogni degli affamati, nel liberare gli oppressi, nell’andare in soccorso a quelli che non hanno nulla.
“E quando digiunate, non assumete aria malinconica come gli ipocriti, che si sfigurano la faccia per far vedere agli uomini che digiunano” (Mt 6,16). Quanto è importante far proprio questo passo del Vangelo per comprendere il senso profondo del digiuno?
È importantissimo e credo che chi pratica il digiuno lo sa bene. Quando una persona digiuna, soprattutto nei primi giorni è assalita da nervosismi, diventa più scontrosa, a volte addirittura si rattrista.  Lo sappiamo: il digiuno può essere un esercizio che anziché renderci più buoni ci rende più acidi e più nervosi. E in questo caso, piuttosto che digiunare e poi turbare la vita fraterna, è meglio allora non digiunare. Gesù sicuramente vedeva la possibilità di corruzione del digiuno, innanzitutto nell’ipocrisia, nel farsi vedere; e poi anche in un digiuno che soddisfa il proprio “appetito religioso”, la parvenza di ascesi. E quest’ultimo non è un digiuno che mira alla carità, che è sempre il fine di ogni atteggiamento cristiano.
Nel Messaggio per la Quaresima 2015, il Papa invita a pregare con lui secondo la Supplica dalle Litanie al Sacro Cuore di Gesù: “Rendi il nostro cuore simile al tuo”. Cosa significa, oggi, rendere il proprio cuore simile a quello di Gesù?
Le Litanie al Sacro Cuore sono una pratica che legge e scruta il Cuore di Gesù. E che lo invoca negli attributi di questo Cuore: che è di misericordia, è mite, è dolce, è paziente. Allora, invocare attraverso le Litanie al Suo Cuore di Gesù, significa cercare di mettere in noi i sentimenti e i pensieri che erano in Cristo Gesù. Significa chiederGli, in modo molto semplice: “Signore, io vorrei avere un cuore come il tuo. Donami un cuore come il tuo”. Ecco a cosa servono queste Litanie, che i cristiani hanno sentito come bisogno di conformità con il Signore Gesù Cristo.
Tra le preghiere quaresimali, occupa un posto importante quella di Sant’Efrem il Siro. Come mai?
È una preghiera che tutti i cristiani ortodossi e d’Oriente recitano più volte al giorno durante la Quaresima, ma è anche ben conosciuta in Occidente. È una preghiera in cui si invoca l’umiltà e ci si riconosce peccatori davanti al Signore per chiederGli uno spirito di mitezza, di carità. E gli si chiede inoltre: “Fa’ che io non giudichi mai il fratello, bensì concedimi un cuore pieno di misericordia e compassione”. E noi, come dice papa Francesco, siamo in una fase in cui abbiamo bisogno di un passaggio di misericordia e compassione. Quindi questa preghiera di Sant’Efrem ha anche un’estensione perché tutti sentano questo bisogno di invocare la misericordia di Dio e di esser misericordiosi verso gli altri.
Secondo la tradizione, a questa preghiera vanno accompagnate delle prostrazioni. Che senso assumono questi gesti esteriori?
I gesti esteriori, se garantiscono l’unità del corpo con la mente e con il cuore, sono importanti. Non possiamo fare una preghiera solo con la mente e tenere il corpo in posizioni che nulla hanno a che fare con la preghiera: questa è “schizofrenia spirituale”. Quindi quando si invoca da Dio l’umiltà, è normale che ci si prostri, che ci si metta in ginocchio, ci si inchini. È la posizione del pubblicano al tempio, che chiede: “O Dio, abbi pietà di me peccatore” (Lc 18,13). Se fatta con fede, la prostrazione non è esteriorità, è semplicemente il corpo che accompagna il pensiero e la preghiera come forza spirituale. (Federico Cenci)
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Preghiera quaresimale di Sant’Efrem il Siro
Signore delle nostre vite
allontana da noi
lo spirito dell’ozio
della tristezza
del dominio
e le parole vane.
Accorda ai tuoi servi
lo spirito di castità
di umiltà
di perseveranza
e la carità che non viene mai meno.
Sì, nostro Signore e nostro Re
concedici di vedere i nostri peccati
e di non giudicare i fratelli
e tu sarai benedetto
ora e nei secoli dei secoli.
Amen.