mercoledì 18 febbraio 2015

Papa Francesco. La rivoluzione della tenerezza e dell’amore. Radici teologiche e prospettive pastorali



Alla radice il Vangelo. Un Papa radicale

Il libro. Anticipiamo stralci dal libro del presidente emerito del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani Papa Francesco. La rivoluzione della tenerezza e dell’amore. Radici teologiche e prospettive pastorali (Brescia, Editrice Queriniana, 2015, pagine 134, euro 13) che esce il 19 febbraio.
(Walter Kasper) Papa Francesco va al fondamento delle cose. Egli parte radicalmente, vale a dire comincia dalla radice (radix), dal vangelo. La lettura spirituale e lo studio della Sacra Scrittura (Dei Verbum, 21-26), raccomandati dal concilio Vaticano II, sono per lui di fondamentale importanza, come mostrano le sue omelie e i suoi discorsi (Evangelii gaudium 174s.). Per vangelo, però, Francesco non intende un libro o i quattro libri che noi indichiamo come i quattro vangeli. 
Con “vangelo”, infatti, non si intende originariamente uno scritto o un libro, ma un messaggio, più precisamente la consegna di un messaggio buono e liberante, che cambia la situazione radicalmente, mette l’uditore a confronto con una situazione nuova e lo chiama alla decisione. Nell’Antico Testamento vangelo è il messaggio dell’imminente liberazione del popolo di Israele dalla prigionia babilonese, nel Nuovo Testamento è il messaggio, specifico di Gesù, dell’avvento del regno di Dio, il messaggio che Gesù è il Cristo, il messaggio della sua morte e della sua risurrezione e del Signore innalzato, efficacemente presente nella Chiesa e nel mondo con il suo Spirito, il messaggio della speranza nella sua venuta definitiva, dell’inizio e del dono della nuova vita. Ecco, per Francesco si tratta del vangelo di Dio, nella Chiesa vitalmente predicato, creduto, celebrato e vissuto. Per lui è un vangelo della gioia, nel senso di una sovrabbondante pienezza di vita che solo Dio, il quale è tutto in tutto, può donare (Evangelii gaudium, 4s.; 265).
Già i primi paragrafi della Evangelii gaudium mostrano che la gioia del vangelo non consiste in primo luogo nel superamento di un’ingiustizia sociale, per quanto ciò, come mostrano paragrafi successivi, stia a cuore a Papa Francesco.
L’approccio va più in profondità. Si tratta della mancanza di gioia e di slancio, del vuoto interiore e della solitudine della persona chiusa in se stessa e del suo cuore comodo e avaro (Evangelii gaudium, 1s.). Il cuore chiuso su se stesso (cor incurvatum) è, sia in Agostino che in Martin Lutero, un noto motivo per descrivere la situazione dell’uomo non ancora liberato. A questo si riallaccia Francesco con il suo discorso sull’autoreferenzialità. In definitiva, il suo approccio alla mancanza di gioia e di entusiasmo risale a ciò che, dai primi padri del deserto e fino a Tommaso d’Aquino, è considerato il peccato radicale e la tentazione originaria dell’essere umano: l’acedia, l’inerzia del cuore, la forza di gravità che attira in basso, la pesantezza, la nausea delle cose spirituali, che porta alla tristezza di questo mondo (II Corinzi, 7, 10; cfr. Evangelii gaudium, 1s.; 81).
Questa analisi del tempo presente non è, in realtà, un insieme di pensieri benintenzionati e pii, ma poco convincenti. Papa Francesco non è solo in questo sforzo di analisi. Analisi analoghe si trovano in molti pensatori importanti e influenti dell’ultimo secolo. Già Søren Kierkegaard e poi, in modo diverso, Romano Guardini hanno parlato della malinconia, Martin Heidegger dell’angoscia come stato d’animo di fondo, Jean-Paul Sartre della nausea dell’uomo d’oggi.
Friedrich Nietzsche ha descritto ironicamente “l’ultimo uomo”, che si accontenta della piccola banale felicità, per il quale però non brilla più alcuna stella: «Che cos’è l’amore? E la creazione? E il desiderio? Che cos’è una stella? — così si chiede l’ultimo uomo, e strizza l’occhio». Lucidamente, sulla base di molte citazioni e osservazioni, ha evidenziato la mancanza di gioia dell’uomo moderno un mio predecessore sulla cattedra episcopale di Rottenburg, il vescovo PaulWilhelm Keppler (1852-1926), nel libro Mehr Freude (Più gioia), diffuso in molte edizioni e traduzioni. La Evangelii gaudium affronta il problema della Chiesa e del mondo attuale alla radice. All’urgenza del momento e alla crisi nella Chiesa essa risponde con il vangelo. Il vangelo è l’origine, data una volta per tutte, la base permanente e la fonte continuamente zampillante di ogni cristiana dottrina e disciplina morale (Dignitatis humanae, 1501). Solo a partire dal vangelo la fede e la vita cristiana possono riconquistare la loro freschezza (Evangelii gaudium, 11). La gioia del vangelo può suscitare di nuovo gioia di vivere, gioia per la creazione, per la fede e per la Chiesa. Solo la gioia come dono dello Spirito Santo (Romani, 14, 17; 15, 13 e seguenti), la gioia di una «evangelizzazione con Spirito» (Evangelii gaudium, 259-261) può portare a un nuovo inizio. Poiché Dio è il bene supremo, è tutto in tutti e tutto dona, secondo Tommaso la gioia nascerà come pienezza globale dell’uomo dall’amore di Dio. Con questo approccio Papa Francesco si muove all’interno di una grande tradizione. 
Nella storia della Chiesa il vangelo è stato sullo sfondo di molti movimenti di rinnovamento, a partire dal monachesimo antico fino ai movimenti di riforma del medioevo. Il più conosciuto è il movimento evangelico di san Francesco d’Assisi e di san Domenico. Francesco, insieme ai suoi fratelli, ha voluto semplicemente vivere il vangelo sine glossa, senza togliervi e senza aggiungervi nulla (cfr. Evangelii gaudium, 271). Da questo movimento evangelico di allora provengono i due più importanti teologi del medioevo, Tommaso d’Aquino (1225-1274) e Bonaventura (1221-1274).
Nella Summa della teologia di Tommaso d’Aquino si trova un articolo di sorprendente originalità sulla nuova legge del vangelo, a cui Papa Francesco fa riferimento esplicito nella Evangelii gaudium (nn. 37; 43). In esso Tommaso sostiene che il vangelo non è una legge scritta, non un codice di dottrine e precetti, bensì il dono interiore dello Spirito Santo, che ci viene dato con la fede e che opera nell’amore.
Solo secondariamente documenti e prescrizioni fanno parte di esso; essi devono indirizzarci al dono della grazia o portarla a effetto; essi non hanno però alcun significato autonomo in ordine alla comunicazione della grazia, cioè nessun ruolo giustificante. Con questa teologia del vangelo Tommaso d’Aquino e Martin Lutero sono tra loro molto più vicini di quanto sembri a prima vista. Anche per Martin Lutero il cristianesimo non è una religione del libro, come invece si è spesso inteso nella successiva storia del protestantesimo appellandosi alla «sola Scrittura». Il vangelo è parola viva della predicazione. A questo riguardo, per errori da tutte le parti e a causa di irretimenti storici, sfortunatamente si è giunti, nel XVI secolo, alla spaccatura della cristianità. Il concilio di Trento (1545-1563), che si è confrontato con la dottrina della Riforma protestante, non è stato cieco riguardo all’esigenza evangelica (intesa nel senso originario).
Già nel primo decreto dogmatico proclamò che voleva conservare e ripristinare la purezza del vangelo, intendendo con ciò il vangelo predicato, creduto e vissuto nella Chiesa come sorgente viva di tutta la verità salvifica e di tutta la morale.
Su questa base Trento ha introdotto un rinnovamento della Chiesa e in uno dei suoi primi decreti di riforma ha indicato la predicazione come compito principale del vescovo. San Carlo Borromeo, considerato il modello del vescovo riformatore post-tridentino, è diventato in questo per Angelo Roncalli, il futuro Papa Giovanni XXIII, il modello certamente anche della sua idea di concilio.
Durante il concilio Vaticano II, a ogni sessione il libro dei vangeli veniva intronizzato solennemente di fronte ai padri conciliari riuniti; il vangelo doveva avere il primo posto. Il concilio ha poi rimesso la parola di Dio predicata e vissuta al centro della vita della Chiesa (Dei Verbum 7; 21-26; Lumen gentium, 23-25). Nella Evangelii nuntiandi (1975), Paolo VI ha indicato l’evangelizzazione come la missione essenziale della Chiesa, anzi come la sua più profonda identità (Evangelii nuntiandi, 14) e ha parlato della necessità dell’autoevangelizzazione della Chiesa (Evangeli nuntiandi 15). Giovanni Paolo II, in numerose allocuzioni e in modo sintetico nell’enciclica missionaria Redemptoris missio (1990), ha sviluppato il programma di una nuova evangelizzazione. Benedetto XVI ha riproposto tale esigenza nella lettera apostolica Porta fidei (2011) e con quella per il sinodo dei vescovi nel 2012. Il frutto di questo sinodo è recepito in molti passi della esortazione apostolica Evangelii gaudium (1; 14s.; 262-283). Così, l’evangelizzazione è diventata il programma pastorale della Chiesa, anche e proprio con Papa Francesco. Papa Francesco si colloca in una tradizione che risale fino agli inizi, specialmente nella tradizione dei suoi immediati predecessori. Allo stesso tempo egli è immerso nel presente del nostro tempo. Nelle aporie del presente, infatti, la modernità rischia in Occidente di finire postmodernamente nel nulla, mentre nel sud del mondo le conseguenze economiche hanno effetti mortali per milioni di persone. In questa situazione molti cercano un’alternativa, e la trovano sempre di più nei movimenti evangelicali. Alcuni osservatori hanno individuato questa tendenza evangelicale anche nella Chiesa cattolica del XXI secolo.
Papa Francesco ha compreso questo battito del cuore della Chiesa attuale. Egli non sostiene una posizione liberale, ma una posizione radicale, nel senso originario della parola, ossia che ritorna alle radici (radix). Il ritorno all’origine non è tuttavia un ripiegamento sullo ieri e sull’altro ieri, ma una forza per un inizio coraggioso rivolto al domani. Con il suo programma evangelico egli si rifà al messaggio originario della Chiesa appunto come il bisogno fondamentale del presente, dando inizio a un rinnovamento radicale. Pertanto, egli non si adegua né a uno schema tradizionalista né a uno progressista. Con il suo gettare ponti verso le origini egli è costruttore di ponti (pontefice) verso il futuro. 
Il vangelo è un messaggio buono, ma anche un messaggio di sfida. È un appello alla conversione e a un nuovo orientamento. In tal modo esso suscita necessariamente delle resistenze. Così, il discorso del Papa sul vangelo ha anche inquietato molti. Papa Francesco parla molto del vangelo, ma sorprendentemente poco della dottrina della Chiesa. Perciò molti si chiedono: Che cosa pensa della dottrina della Chiesa? Vuole addirittura contrapporre vangelo e dottrina, come ha fatto la teologia liberale? Naturalmente Papa Francesco non vuole fare propria questa concezione liberale. Al contrario, il vangelo è, come aveva già detto il concilio di Trento, la fonte da cui sono scaturite le dottrine. Ciò non è per Francesco soltanto una constatazione storica. Dalla constatazione storica consegue piuttosto che si deve interpretare la dottrina alla luce del vangelo. Papa Francesco trae questa conseguenza. Egli richiama di nuovo alla coscienza il principio, riaffermato dal concilio Vaticano II, della gerarchia delle verità. In tal modo chiede che le molte e multiformi verità vadano interpretate a partire dal loro fondamento e dal loro centro cristologico (Unitatis redintegratio, 11; Evangelii gaudium, 36). Questa dottrina non è nuova. Già Tommaso d’Aquino aveva messo in evidenza che la fede non è una summa esteriore di una serie di verità, ma che ogni affermazione è parte di un tutto articolato (articulus fidei). Egli sapeva che gli articoli fondamentali della fede implicano la totalità del vangelo. 
Anche il concilio Vaticano I aveva richiesto di comprendere la fede in base al nesso interiore dei misteri e tenendo presente il fine ultimo dell’uomo (Dignitatis humanae, 3016). Una gerarchia non c’è solo tra le verità, ma anche tra le virtù. La morale cattolica non è un catalogo di peccati e di errori. Tutte le virtù sono al servizio della risposta d’amore (Evangelii gaudium, 39). Gesù stesso riassume legge e profeti nel comandamento principale dell’amore di Dio e del prossimo (Matteo, 22, 34-40; cfr. 5, 43; Romani, 13, 8-10; Galati, 5, 14). 
Papa Francesco lo indica come il cuore del vangelo: «In questo nucleo fondamentale ciò che risplende è la bellezza dell’amore salvifico di Dio manifestato in Gesù Cristo morto e risorto» (Evangelii gaudium, 36). Da questo modo di vedere egli trae conseguenze pratiche per la predicazione. Dice che nella predicazione non si dovrebbe ridurre la dottrina ad aspetti secondari, la si deve piuttosto comprendere dal nesso con il messaggio di Gesù Cristo, o meglio, a partire dal cuore del suo messaggio (Evangelii gaudium, 34-39; 246). Solo se si vedono le verità della fede nella loro intima connessione, le si può di nuovo far risplendere nella loro bellezza originaria e in tutta la loro forza di attrazione. Solo così si può di nuovo diffondere il profumo del vangelo (Dignitatis humanae, 34; 39). Questo programma kerygmatico richiama il principio di Lutero «ciò che mette al centro Cristo (was Christum treibet)» e tuttavia è da esso anche molto differente. Infatti, per il concilio e per Papa Francesco non si tratta di un principio esclusivo, in base al quale si possono eliminare le cosiddette verità secondarie o scomode, oppure le si può liquidare come meno vincolanti. Per Papa Francesco si tratta di un principio ermeneutico inclusivo e, appunto, soprattutto di un’esigenza pastorale della predicazione; con l’aiuto di tale principio egli vuole comprendere di nuovo il vangelo tutt’intero nella sua bellezza interiore, e far sì che torni a risplendere (Evangelii gaudium, 237). 
Papa Francesco non vuole rivoluzionare la fede e la morale, vuole interpretare fede e morale a partire dal vangelo. Conformemente al carattere kerygmatico del vangelo, egli lo fa non in un linguaggio dottrinale astratto, ma in un linguaggio semplice, e però comunicativo e dialogico non semplificante, che interpella le persone e le coinvolge. Così, egli non rinuncia a nulla quanto a dottrina; in questo modo può piuttosto dire che la fede è sempre una sorgente fresca e rinfrescante (Evangelii gaudium, 11) e una verità mai fuori moda (Evangelii gaudium, 265). Egli può convincere i credenti della bellezza della fede e incoraggiarli a una vita gioiosa in virtù della fede.
L'Osservatore Romano