giovedì 26 aprile 2018

Una domanda per vivere.





 Riflessione sulla trasmissione dell’eredità cristiana


(Pablo D'Ors) Oggi nessuno può mettere in dubbio che il Cristianesimo in occidente sia in declino. Non si tratta solo di ammettere che le chiese sono sempre meno frequentate perché c’è quasi un senso di sospetto nei confronti delle istituzioni. Non è solo una reazione ai molti abusi ecclesiastici e statali che l’uomo di oggi — noi — sia diventato allergico a qualunque tipo di istituzione. La cosa va molto oltre. Teorici riconosciuti hanno dichiarato l’ambiguità delle religioni, causa di innumerevoli disordini e ingiustizie: ideologie fanatiche, manipolazioni della coscienza, guerre di religione... 
Lo scetticismo generalizzato, perciò, non influisce solo su ciò che è ecclesiale, ma anche su ciò che è religioso e di fatto considerato superato e irrazionale. Ciò spiega perché i cristiani di oggi vivano con imbarazzo in un’Europa che non nasconde un certo rifiuto al cristianesimo, a volte quasi un disprezzo. Tutti sappiamo bene che tutto ciò si traduce in una indifferenza generalizzata, e un’esclusione dei cristiani dalla vita pubblica, ironia serpeggiante, fino a diventare umiliazione esplicita. C’è tuttavia, sfortunatamente, qualcosa di più. Questa critica sistematica, sistematicamente diffusa dai mezzi di comunicazione sociale, ha fatto sì che il sospetto di fronte a ciò che è religioso gravi non solo sui riti, i miti e le parole della fede cristiana, ma anche sui suoi pilastri fondamentali: lo stesso Gesù Cristo generalmente non è più visto come il figlio di Dio, ma solo come un gran maestro, perciò allo stesso livello di altri maestri di altre tradizioni. La questione allora è che cosa stiamo facendo noi e che cosa siamo disposti a fare. 
Siamo eredi di un patrimonio spirituale di primissimo ordine ed è estremamente importante, per dovere di fronte alla cultura e per fedeltà al nostro passato, non solo conservarlo come una reliquia, ma anche rinnovarlo perché possa continuare a portare vita. Rinnovare significa rivisitare, naturalmente, capire bene quello che si è fatto, però anche riconsiderare e cercare nuove formule che, rispettando la tradizione, non solo la mantengano, ma permettano di raggiungere livelli più alti per rispondere alle necessità spirituali delle persone. Questo è l’obiettivo del patrimonio spirituale che, se non alimenta la nostra interiorità, anche se buono non ha vita. È certo tuttavia che questo passato cristiano sembra troppo pesante e fastidioso per le nostre spalle, e perciò ce ne stiamo distaccando. Stiamo rinunciando alla nostra eredità, non possiamo negarlo. E l’uomo che rinuncia al suo passato, può sapere dove sta oggi e dove si dirige per il futuro?
Qualcuno, chissà noi stessi, più che rifiutare l’eredità — attitudine tipica dei ribelli — selezioniamo ciò che ci interessa, lasciando da parte, quasi sempre per pigrizia o per incomprensione, ciò che ci sembra inattuabile oggi. Questo atteggiamento sincretico, che non riesce a fecondare una sapiente tradizione con un’altra, ma che si limita ad una capricciosa contrapposizione, ha generato quello che i sociologi hanno denominato “Spiritualità alla carta”, che definisce la maggior parte dei cosiddetti “cercatori spirituali”. Questa scelta, come non potrebbe essere altrimenti, non è solo egocentrica, in quanto mette al centro l’individuo, ma egoista perché, ponendo la centralità nell’individuo, non si preoccupa realmente dell’altro. Una meditazione che non sia dettata dalla compassione non è meditazione cristiana, né buddista o di qualunque altra religione. Alterare il significato di “spiritualità” riducendola a puro benessere fisico e psichico è molto frequente oggi. L’obiettivo finale della spiritualità non è semplicemente la pace interiore, ma piuttosto l’amore verso gli altri. E questo deve essere sempre molto chiaro per generare, tra di noi, non una specie di aristocrazia dello spirito, ma piuttosto un maggior senso di umanità.
Tutto ciò che è cristiano oggi è considerato in occidente, dobbiamo ammetterlo, insignificante e quasi disprezzabile. Qualcosa da lasciare definitivamente indietro, un controsenso in una società evoluta come la nostra, un paradosso rispetto al pensiero tecnico e altamente civilizzato. Mostrarsi orgogliosi di essere cristiani o, senza arrivare a questo punto, testimoniare tranquillamente la propria convinzione religiosa, si considera oggi “politicamente non corretto”, quasi una provocazione. Questo “humus” si è esteso in tal modo che si può dire, senza esagerare, che oggi in Europa regna un’ignoranza assoluta su tutto ciò che si riferisce al patrimonio biblico, teologico, liturgico e spirituale che offre il cristianesimo. Questa ignoranza con gli anni guadagna terreno.
La principale responsabile di questa deplorevole situazione è — secondo me — la stessa Chiesa che durante secoli ha lottato più per la sua sussistenza come istituzione che per il regno di Dio. La chiesa cattolica è la prima responsabile, anche se — naturalmente — non l’unica, di aver ceduto, per dirlo in termini di Papa Francesco, all’autoreferenzialità, cioè per avere guardato al proprio interno invece di guardare al mondo. Questo è il principale peccato, questo è ciò che come chiesa dobbiamo redimere. E per questo, che lo sappiamo o no, siamo venuti a questo ritiro: per cominciare un modesto ma necessario rinnovamento religioso ed ecclesiale. Secondo il mio punto di vista, noi, Gli Amici del Deserto, siamo coloro, assieme ad altri, che sono chiamati a realizzare questo compito.
Rispondere oggi per rendere possibile una vita interiore non sarà possibile se prima non ascoltiamo e rispondiamo a una domanda. Quando, dopo la resurrezione, Gesù Cristo appare ai suoi discepoli alla riva del lago Tiberiade, e pone a Simon Pietro per tre volte questa domanda che formula anche oggi a noi: «Pietro, figlio di Giovanni, mi ami?» (Giovanni 21, 15-17). Alle sue risposte affermative, Gesù risponde sempre con le stesse parole «pasci le mie pecore», cioè prenditi cura delle persone che ti stanno vicine. L’amore per il Signore si realizza nel prendersi cura dei propri simili. 
Pietro è l’uomo che ha rinnegato Gesù e si è purificato con le sue lagrime, questo lo sappiamo. Però Pietro non è semplicemente un uomo focoso e spaccone, ma qualcuno che ha vissuto l’esperienza della propria debolezza. Perciò, umile e più se stesso che mai, ora è capace di rispondere: Signore tu che sai tutto, sai che ti amo. È una risposta che viene dal cuore, non dal cervello né dalle viscere. È una risposta che guarda all’orizzonte più nobile — l’amore — però con la coscienza dei propri limiti e della debolezza della carne.
Tutte le dichiarazioni d’amore scaturiscono da un insuccesso amoroso. Il nostro sì alla meditazione cristiana, la nostra accettazione di questa immensa eredità spirituale sarà affidabile perché sappiamo che non si può costruire sopra le nostre capacità o i nostri meriti — come hanno tentato le generazioni che ci hanno preceduto — ma solo su di Lui. E quindi, fissando il nostro sguardo su di Lui, e non su di noi, questa è la vocazione al deserto alla quale siamo stati convocati. Questo è il punto: solo meditando possiamo arrivare a sperimentare lo sguardo trasformatore di Gesù, quello sguardo che fa di noi uomini e donne nuovi. Solo così, meditando, si realizza il grande miracolo: Dio dialoga con Dio, in silenzio, nello scenario dell’anima umana. Il sogno di essere un uomo che ha in sé Dio sta per compiersi. Siamo pronti per svegliarci. Perciò sederci a meditare giorno dopo giorno, con incrollabile fedeltà e con umiltà messa alla prova, è il segno incontestabile che vogliamo ascoltare questa domanda: Pietro, figlio di Giovanni, mi ami? La vita che conduciamo, solo quello, sarà la nostra risposta.

L'Osservatore Romano