martedì 6 dicembre 2011

La vita non dipende dai beni che possediamo



«Crisi e travaglio all’inizio del terzo millennio» è il titolo del primo «Discorso alla città» che il cardinale Angelo Scola, arcivescovo di Milano, pronuncerà alle 18 durante la celebrazione vigiliare di sant’Ambrogio nella basilica dedicata al patrono della città e compatrono della diocesi. Ai Primi Vespri saranno presenti autorità, istituzioni e comunità etniche di Milano.
Di seguito il testo.

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Vorrei offrire, in occasione della festa di Sant’Ambrogio, tre brevi indicazioni di carattere culturale necessarie all’allargamento della “ragione economica” e di quella “politica”. Se non vogliamo ricorrere al drastico ammonimento del Signore — «Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede» (Lc 12,15) — sarà sufficiente ricordare che già Aristotele giudicava inaccettabile una vita che identificasse la felicità con la ricchezza, ovvero che scambiasse un mezzo con il fine.

Non ci si può rassegnare di fronte a una concezione dello “scambio” che non solo è diventata sempre più diffusa, ma che sembra governare l’intera macchina economica. Secondo questa visione il cittadino è (pessimisticamente) ridotto all’homo oeconomicus, preoccupato esclusivamente di massimizzare il profitto. Alla base dell’attività economica e finanziaria sembra infatti esservi solo l’assunto secondo cui l’aumento della ricchezza è in ogni caso e, meglio, quanto prima, un bene da perseguire. In secondo luogo merita di essere denunciato l’indebolimento di quelle “voci” che porterebbero a questo auspicato allargamento della ragione. Responsabile in parte di questo indebolimento è il variegato processo di secolarizzazione, che ha di fatto favorito l’affermarsi della mentalità positivistica denunciata da Benedetto XVI.

È però doveroso in proposito notare che, anche in campo cattolico, una ambiguità latente in certa interpretazione del principio dell’“autonomia delle realtà terrene”, ha giocato un suo ruolo. Nato come appropriato riconoscimento dell’autonomia dei fedeli laici nel campo “loro proprio”, il riferimento al principio dell’autonomia si è talora trasformato in una pericolosa rinuncia a far emergere la valenza antropologica ed etica necessaria per affrontare i contenuti concreti dell’azione sociale, politica ed economica. In tal modo, però, “autonomo” è diventato di fatto sinonimo di “indifferente” rispetto a tali sostanziali valenze.

La stessa dottrina sociale della Chiesa ha rischiato, in questo quadro, di essere considerata più come una premessa di pie intenzioni che come un quadro organico e incisivo di riferimento. Insomma, c’è da chiedersi se il mondo cattolico, per sua natura chiamato ad essere attento alle grandi sfide antropologiche ed etiche in gioco, non sia stato, da parte sua, corresponsabile, almeno per ingenuità o ritardo o scarsa attenzione, dell’attuale stato di cose. Gli autorevoli inviti ai fedeli laici a un più deciso impegno politico diretto domandano l’assunzione integrale della Dottrina sociale della Chiesa basata su princìpi di riflessione, criteri di giudizio e direttive di azione e non alchimie partitiche.

C’è ancora un terzo fattore che merita di essere segnalato. Neppure la combinazione di congiunture tanto sfavorevoli avrebbe condotto all’odierna crisi economico-finanziaria se essa non avesse potuto attecchire sul terreno di un’irresponsabilità diffusa: quella che spinge a spendere sistematicamente per i propri consumi ciò che non si è ancora guadagnato. Un comportamento che fino a poco tempo fa sarebbe sembrato così folle da oltrepassare perfino il livello della qualifica morale (di fronte alla saggia formica, l’immorale cicala in fondo consumava soltanto ciò che aveva), ora è percepito sempre più come normale ed è sistematicamente provocato (fino a giungere alla pubblicità che senza vergogna incoraggia ad indebitarsi per fare una seconda vacanza).

A comprova di questa deriva basti pensare ad un certo modo di concepire i diritti nella nostra società. Negli scorsi decenni, anche in ragione di un considerevole benessere e senza fare i conti con le risorse veramente disponibili, si sono avanzate pretese eccessive in termini di diritti nei confronti dello Stato. Il risultato è stato il formarsi di una società sempre più disarticolata e scomposta. Tale processo ha oscurato un insieme di valori antropologici, etici e, quindi, pedagogici di primaria importanza: la capacità di attendere per la realizzazione di un desiderio; la limitazione dei propri bisogni e il controllo dell’avidità; la cura delle cose invece della loro compulsiva sostituzione; uno sguardo complessivo sulla durata della propria vita ed il senso della vita eterna; la solidale condivisione, in nome della giustizia, dei bisogni altrui a cominciare da quelli degli ultimi.

Si potrebbe quasi dire che l’odierna crisi ha manifestato una diffusa “oscenità”, nel suo significato etimologico di “cattivo auspicio”, nell’uso dei beni. Tutto questo impone un radicale mutamento degli stili di vita, tanto più che, come molti sottolineano, non sarà possibile e non è neppure auspicabile ritornare al modus vivendi precedente alla crisi.