lunedì 5 marzo 2012

Vivere in intimità con la Torah

Di seguito il Vangelo di oggi, 6 marzo, martedi della II settimana di Quaresima,
con un commento, un testo breve di padre Pio e uno studio interessantissimo
 del p. Manns ofmcapp., dell'Istituto Biblico di Gerusalemme.


Isacco benedice Giacobbe (Chagall)

Vorrei dire a tutte le anime quali sorgenti di forza, 
di pace e anche di felicità
troverebbero se provassero a vivere in questa intimità con Dio.

Beata Elisabetta della Trinità



Mt 23,1-12
 
In quel tempo, Gesù si rivolse alla folla e ai suoi discepoli dicendo: “Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. Quanto vi dicono, fatelo e osservatelo, ma non fate secondo le loro opere, perché dicono e non fanno.
Legano infatti pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito. Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dagli uomini: allargano i loro filatteri e allungano le frange; amano posti d’onore nei conviti, i primi seggi nelle sinagoghe e i saluti nelle piazze, come anche sentirsi chiamare ‘‘rabbì’’ dalla gente. Ma voi non fatevi chiamare ‘‘rabbì’’, perché uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate nessuno ‘‘padre’’ sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo. E non fatevi chiamare ‘‘maestri’’, perché uno solo è il vostro Maestro, il Cristo. Il più grande tra voi sia vostro servo; chi invece si innalzerà sarà abbassato e chi si abbasserà sarà innalzato”.

IL COMMENTO

L'intimità. Viviamo dissipati tra mille rivoli, impegni, affetti, hobby, parole, oggetti. E non abbiamo tempo per l'intimità. Cerchiamo fuori quello che potremmo trovare dentro. Ogni uomo è "fugitivus cordis sui", si allontana dal suo proprio cuore (S. Agostino, Enarratio in psalmum 57,1). Come Esaù, che ha perduto primogenitura e benedizione paterna, disprezzate scappando da se stesso e dalla sua realtà. "Uomo della campagna" girovagava fuori dalla tenda, smarrendo per via l'intimità con suo padre. Certo, lo rallegrava con la sua cacciagione, ma vi era qualcosa di più importante che correre dietro alle prede per soddisfare suo padre. Giacobbe "uomo tranquillo e semplice, che viveva nelle tende" (Gen. 25:27), lo aveva compreso e per questo avrà in eredità la benedizione e la primogenitura.Ohella tenda, è anche sinonimo di una Beth Midrash; questa è una sala di studio (letteralmente una "Casa di Interpretazione" o "Casa di Apprendimento"), è differente dalla sinagoga, anche se molte sinagoghe vengono usate anche come batei midrash o viceversa. Rashi (Rabbi Shlomo Yitzhaqi, uno dei più famosi commentatori della Scrittura del medioevo), commentando la vicenda di Giacobbe, spiega come egli stesse nelle "tende di Shem e Eber" nelle quali studiava la Torah. La tenda dell'intimità con la Parola, dove gustare la beatitudine annunciata dal Salmo 1:
Beato l’uomo che non entra nel consiglio dei malvagi,
non resta nella via dei peccatori
e non siede in compagnia degli arroganti,
Ma nella Torah del Signore trova la sua gioia,
la sua Torah medita giorno e notte.
È come albero piantato lungo corsi d’acqua,
che dà frutto a suo tempo:
le sue foglie non appassiscono
e tutto quello che fa, riesce bene.


La beatitudine dell'intimità con Dio si realizza attraverso la "ruminatio", la meditazione assidua della sua Parola. In ebraico, meditare - hagah significa "mormorare", sussurrare. E' il linguaggio dell'amore! Il ripetere, senza sosta, le parole che raccontano quello che il cuore sta vivendo; l'amore condensato in poche, essenziali, parole, o meglio, in una Parola, l'unica che salva. Il Nome dell'Amato che sgorga dal cuore come da una fonte limpida che tutto purifica e rende bello, e santo. Come la Vergine Maria, che meditava parole e avvenimenti serbandoli come un tesoro nel fondo del cuore.

L'intimità che mancava agli scribi e ai farisei. Gesù li riproverò, ammonendoli sul fatto che erano intenti a pulire solo l'esterno del bicchiere, lasciando all'interno, nel cuore, furti e rapine. Allargavano i filatteri pervertendone la funzione a proprio uso e consumo; questi infatti erano "custodie" cubiche di cuoio contenenti piccoli rotoli di pergamena che recavano scritti alcuni passi della Torah, fissate con cinghie alla parte superiore del braccio e alla fronte, segno di amore per la Parola. Filatterio significa "luogo in cui si conserva": costituivano una sorta di piccola Beth Midrash, la tenda dove Giacobbe aveva appreso la Torah, il luogo dell'intimità che si faceva memoria incessante, il segno di una relazione speciale ed esclusiva, la fedeltà alla Parola "conservata", appresa, interpretata e meditata nel cuore. I farisei invece ne avevano fatto il tabernacolo della loro ipocrisia: dal servizio alla Parola alla Parola assunta a proprio servizio.

Tutto compiuto per essere ammirati dagli uomini. Le preghiere, i filatteri, le frange del Tallid, ridotti ad oggetti esposti nella vetrine del proprio ego; e poi la ricerca dei saluti, e i primi posti, e l'usurpazione della Cattedra di Mosè, la cui autorità costituiva la matrice di ogni altra autorità sul Popolo. Scribi e farisei affermavano di parlare in nome di Mosè, colui che aveva ricevuto la Torah direttamente da Dio. I rabbini del dopo esilio avevano codificato la Toràh in una serie sconfinata di 613 precetti da osservare per essere un buon giudeo. Al tempo di Gesù l’osservanza di tutti i precetti della Torah erano considerati un giogo pesante da portare: i precetti erano suddivisi in due parti: 248 positivi corrispondenti al numero delle membra del corpo umano e 365 negativi, uno per ogni giorno dell’anno solare. La Toràh deve essere osservata con tutta la persona (248 ossa) e questo impegno deve durare tutto l’anno (365 giorni). Quando un non ebreo chiedeva di convertirsi all’ebraismo gli si spiegava come fosse duro portare il giogo della Toràh per scoraggiarlo (Talmud, Berakot 30b). La Parola di libertà, l'amore rivelato sul Sinai era diventato un fardello caricato sul Popolo e che, nonostante l'ostentata osservanza, i farisei e gli scribi neanche sfioravano. Perchè il loro cuore era lontano da Dio. Pretendevano per sé e per i loro precetti l'autorità di Mosè, ma non avevano che il moralismo cieco della propria carne. La loro religiosità era come le battute di caccia di Esaù, goffi tentativi di comprarsi la benevolenza di Dio. Amavano invece la gloria degli uomini, di essa si cibavano, non importava loro la Gloria di Dio, che abita in un cuore umiliato e affranto.

Come noi, pronti ad azzannare ogni Grazia, a convertire tutto in legge, ad usare tutto e tutti per soddisfare i nostri desideri, concupiscenze, bisogni ed esigenze. Quante preghiere ostentate, quanta affettata umiltà, disponibilità, mitezza per carpire benevolenza, stima, prestigio. Negli affari religiosi, come negli affari "profani". Seduti sulla cattedra di Mosè, pretendiamo di dare disposizioni a destra e a manca. Cerchiamo posti d'onore, ci piace farci chiamare con titoli altisonanti, anche le parvenze d'umiltà sono, spesso, simulacri dell'orgoglio che ci divora. Ma il Signore ci chiama oggi nella sua tenda, nella Beth Midrash della sua intimità. Ad inginocchiarci ai piedi dell'unico Maestro, come Maria, ed ascoltare e apprendere a vivere dell'unica cosa di cui abbiamo bisogno, la sua Parola di misericordia. A restare nella sua intimità ai piedi della Croce, l'autentica cattedra di Mosè sulla quale è seduto il Maestro crocifisso. A ruminare, istante dopo istante, la verità e la bellezza di questo suo amore trafitto, inchiodato ai passi della nostra storia: a contemplare, meditare, vivere, nell'intimità con Lui, il suo amore pronto ad offrirsi in noi per il marito, la moglie, i figli, i colleghi, persino ai nemici. 

Nella tenda, immagine della Chiesa, della comunità concreta nella quale la Provvidenza ci ha posti, possiamo sperimentare l'assurdo, l'illogico, lo scandalo di un Dio che si inginocchia dinanzi a me e a te per lavarci i piedi, per perdonarci e purificare ogni passo deposto sui sentieri del male. E' ora dinanzi a noi, è Dio ed è nostro servo. E' l'unico Maestro, il solo Rabbì proprio perchè mite e umile di cuore, dal quale imparare l'arte dell'amore, dell'autentico servizio, nascosto e semplice, come una nuova natura che assorbe e compie la natura incapace di donarsi. E' Maestro perchè ascolta il profondo del cuore di ciascun cuore, accogliendo e comprendendone i desideri più profondi, gli stessi deposti da suo Padre. Maestro capace di insegnare con l'autorità di chi conosce, e per questo ha misericordia, essendo stato provato in tutto come ciascun discepolo; Rabbì ai cui piedi sedersi nella certezza di essere esauditi, secondo la pienezza della volontà di Dio. In Lui ogni maestro sulla terra, ogni vescovo, presbitero, educatore, può attingere lo Spirito e i suoi sette doni, quello effuso dalla cattedra della Croce: solo in essa ogni insegnamento si fa autentico, purificato nel crogiuolo dell'amore, raffinato nel fuoco della gratuità.

Nella Beth Midrash che è la Chiesa, lasciarsi afferrare dal suo sguardo che ci rivela l'unico Padre, dal quale ha origine ogni paternità sulla terra. Imparare ad abbandonarsi ad Abbà, all'unico Papà che ci fa padri nel Padre, perchè figli nel Figlio; padri come Abramo, annunciatori e fedeli trasmettitori della fede e per questo patriarchi di una moltitudine immensa. Imparare a non farsi padri per mezzo della carne ma dell'autentica paternità, quella della misericordia celeste, nella quale essere figli obbedienti per generare, nella fede, figli obbedienti alla stessa volontà di Dio. In Lui infatti nasce e da Lui scaturisce ogni autorità; come quella di Mosè, la cui cattedra era sempre rivolta alle parole del Padre, nell'intimità della montagna, la preghiera assidua dalla quale "discendere" per annunciare, con zelo e parresia, l'unica verità capace di generare figli liberi e pronti a donarsi.

E' Gesù che ha compiuto la Torah con tutto il suo corpo, con tutta la sua mente, con tutto il suo cuore, ogni giorno della storia, ruminando giorno e notte la Parola del Padre. E' Lui che ci dona la Torah come un giogo leggero, la Parola da sussurrare in un dialogo d'amore che schiude ad una vita santa. E' Lui che, con la Croce, ha riaperto la porta dell'intimità con il Padre. Nell'intimità crocifissa con Lui nella storia di ogni giorno, uniti a Lui sull'albero che dà frutto a suo tempo e che non secca mai, possiamo vivere la beatitudine per la quale siamo nati, quella del Servo che ha consegnato la propria vita per amore, l'opera autentica e riuscita pronta ad incarnarsi e compiersi in ciascuno di noi.

* * *

San [Padre] Pio di Pietrelcina (1887-1968), cappuccino
T, 54

« Chi si abbasserà sarà innalzato »

Non smettere di fare atti di umiltà e di amore nei confronti di Dio e degli uomini: Dio, infatti, parla a chi si tiene con cuore umile davanti a lui, e lo arricchisce dei suoi doni.

Se Dio ti riserva le stesse sofferenze di suo Figlio e vuole farti toccare con mano la tua debolezza, è meglio fare atto di umiltà che perdere coraggio. Rivolgi a Dio una preghiera di abbandono e di speranza quando la tua fragilità causa la tua caduta, e ringrazia il Signore di tutte le grazie con cui egli ti arricchisce

APPROFONDIMENTI

È POSSIBILE RAGGIUNGERE LA SANTITÀ ATTRAVERSO LO STUDIO? di  F. Manns


(Flagellazione, Gerusalemme, 6 novembre 2003)

Abbiamo appena celebrato la festa di Tutti i Santi, che ci ricorda la “universale vocazione alla santità nella Chiesa” (cf. Vaticano II: Cost. Lumen Gentium, cap. V). La professione religiosa ci impegna tutti a tendere alla perfezione della vita evangelica, secondo lo spirito proprio di ciascuna famiglia e di ciascun fondatore (per es., Costituzioni della P. Soc. di S. Francesco di Sales, art. 1, nella formulazione originaria).

Ci chiediamo: è possibile raggiungere la santità (la perfezione cristiana) attraverso lo studio? Cercheremo di dare una risposta in tre momenti:


1. La vocazione di didaskalos e il carisma della didaskalia
Per prima cosa ci mettiamo in ascolto della Parola di Dio, che ci rivela il senso della nostra particolare vocazione nella Chiesa.

_ In un testo degli Atti troviamo che fin dalle origini nella comunità cristiana ci sono dei “maestri”, persone cioè che sono dedite all’insegnamento (contemporaneamente, e prima ancora, allo studio): «C’erano nella comunità di Antiochia profeti e dottori (didaskaloi)» (At 13,1), che la comunità manda in missione; cf. 14,4.14: apostoloi). Tra essi Barnaba e Saulo, senza dubbio due santi!

_ Una serie di testi paolini (1 Cor 12; Rm 12; Ef 4) è dedicata ai “carismi”, i doni dello Spirito che arricchiscono i membri della Chiesa.

«A ciascuno è data una particolare manifestazione dello Spirito per l’utilità comune: a uno viene concesso dallo Spirito il linguaggio della sapienza, a un altro… il linguaggio della scienza… Alcuni Dio li ha posti nella Chiesa …come apostoli, …come profeti, …come maestri… » (1 Cor 12,7s.28). Paolo insiste sull’unica origine (vv. 4s: Dio, il Signore, lo Spirito), sulla finalità («l’utilità comune»), sulla complementarietà dei carismi (vv. 12ss: immagine del corpo e delle membra; vv. 28ss: «…tutti apostoli? …tutti profeti?… tutti maestri?…»).

«Abbiamo… doni diversi, secondo la grazia data a ciascuno di noi… Chi ha l’insegnamento, attenda all’insegnamento (o didaskon en tei didaskalia)…» (Rm 12,6s).. Ognuno attenda al compito che corrisponde al dono ricevuto, alla vocazione specifica.

«È lui che ha stabilito alcuni come apostoli, altri come profeti, altri come evangelisti, altri come pastori e maestri (didaskaloi), per rendere idonei i fratelli a compiere il ministero, al fine di edificare il corpo di Cristo, finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, allo stato di uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo. E questo affinché non siamo più come fanciulli sballottati dalle onde e portati qua e là da qualsiasi vento di dottrina,… Al contrario, vivendo secondo la verità nella carità (veritatem facientes in caritate), cerchiamo di crescere in ogni cosa verso di lui che è il capo, Cristo…» (Ef 4,11ss). All’origine della nostra “professione” c’è un progetto / chiamata / incarico – prossimamente del Superiore (obbedienza), ultimamente del Signore. Lo scopo è anzitutto “pastorale” («pastori e maestri»): «edificare il corpo di Cristo». L’insegnamento non serve solo ad arricchire la cultura, nemmeno soltanto a irrobustire e approfondire la fede, ma a fare crescere l’intera personalità del credente («…allo stato di uomo perfetto…»). Ciò si realizza in condizioni non favorevoli (immagine delle onde e del vento: la traversata del mondo come mare in tempesta), superando le varie forme di immaturità delle persone.

_ Troviamo un’altra serie di testi rilevanti per il nostro tema nelle Lettere pastorali, nelle quali Paolo affida ai suoi giovani collaboratori, Tito e Timoteo, il compito di continuare la sua missione di pastore e maestro delle giovani chiese.

«Ti ricordo – scrive a Timoteo – di ravvivare il dono di Dio che è in te per l’imposizione delle mie mani…» (1 Tm 1,6). La prima cosa è prendere coscienza, riconoscere, assumere consapevolmente il dono di Dio e la vocazione che ne discende. Per questo motivo Paolo insiste sui titoli che qualificano chi nella Chiesa è pastore e maestro: «uomo di Dio» (2 Tm 3,12), «buon ministro di Cristo Gesù» (1 Tm 4,6), «servo del Signore» (2 Tm 2,24), «amministratore di Dio» (Tt 1,7), «dispensatore della parola di verità» (2 Tm 2,15), «buon soldato di Gesù Cristo» (1 Tm 2,3)…

Paolo moltiplica le raccomandazioni, perché i suoi eredi – Timoteo e Tito, ma anche gliepiskopoi e i presbyteroi loro collaboratori - siano in grado di continuare degnamente la sua missione. Ne riprendo solo alcune:

«Rimani saldo in quello che hai imparato e di cui sei convinto, sapendo da chi l’hai appreso e che fin dall’infanzia conosci le sacre Scritture: queste possono istruirti per la salvezza che si ottiene per mezzo della fede in Cristo Gesù. Tutta la Scrittura infatti è ispirata da Dio e utile per insegnare, convincere, correggere e formare alla giustizia, perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona» (2 Tm 3,14).

«Fino al mio arrivo dedicati alla lettura, all’esortazione e all’insegnamento… Vigila su di te e sul tuo insegnamento…» (1 Tm 4,13.16). - «Custodisci il buon deposito con l’aiuto dello Spirito santo che abita in noi» (2 Tm 1,14). - «Sforzati di presentarti davanti a Dio come… un lavoratore che non ha di che vergognarsi, uno scrupoloso dispensatore della parola di verità» (2 Tm 2,15).

L’Esortazione apostolica post-sinodale di Giovanni Paolo II “Pastores gregis”, sul Vescovo servitore del Vangelo di Gesù Cristo per la speranza del mondo, al c. 3°: Maestro e araldo della Parola, n. 31) cita un bel passo di S. Ilario di Poitiers: «Volendo definire il tipo di vescovo ideale e formare con i suoi insegnamenti un uomo di Chiesa completamente nuovo, il beato apostolo Paolo spiegò qual era, secondo lui, il massimo della perfezione. Affermò che doveva professare una dottrina sicura, consona all’insegnamento, onde essere in grado di esortare alla sano dottrina e confutare quelli che la contraddicono. […] Da una parte, un ministro dalla vita irreprensibile, se non è colto, riuscirà solo a giovare a se stesso; dall’altra, un ministro colto perderà l’autorità che proviene dalla cultura, se la sua vita non risulta irreprensibile» (De Trinitate, VIII,1).



2. I pericoli legati alla nostra vocazione di studiosi e docenti
Ci è ora di guida il c. 23 del Vangelo di Matteo, che inizia con le parole: «Sulla cattedra di Mosè si sono insediati gli scribi e i farisei…». Nel contesto l’invettiva di Gesù contro i maestri della Torà documenta l’acme della tensione con le autorità religiose di Israele. Allo stesso tempo Mt 23 riflette il rapporto conflittuale della comunità cristiana con la singagoga. Ma le parole di Gesù suonano ammonimento anche per le guide spirituali della Chiesa: pastori e maestri.

Quali sono i pericoli e difetti nei quali possiamo cadere come studiosi e come maestri?

Il pericolo dell’incoerenza: «Quanto vi dicono, fatelo e osservatelo; ma non fate secondo le loro opere, perché dicono e non fanno» (v. 3).

Il pericolo della vanità: «Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dagli uomini… amano i primi posti nelle sinagoghe e i saluti nelle piazza, come anche sentirsi chiamare “rabbi” dalla gente…» (vv. 5s).

Il pericolo del formalismo: «…pagate la decima dell’aneto e del cumino, e trasgredite le prescrizioni più gravi della legge: la giustizia, la misericordia e la fedeltà… Guide cieche, che filtrate il moscerino e ingoiate il cammello!» (v. 23). La formazione filosofica e filologica sviluppa la capacità critica e dialettica, che è una grande risorsa nello studio della teologia – in modo particolare nelle scienze bibliche – ma può rivelarsi un rischio nei rapporti interpersonali: il rischio di scrutare con il lanternino i difetti del prossimo, di diventare ipersensibili e intolleranti su questioni secondarie, trascurando l’essenziale.



3. Lo studio della teologia come via alla santità

Secondo S. Tommaso d’Aquino la virtù dello studioso è appunto la virtù della studiositas, che egli considera parte della temperanza; ad essa si oppone il vizio della curiositas («Deinde considerandum est de studiositate, et curiositate sibi opposita»: Summa Theologica, IIa, IIae, q. CLXVI). Così commenta p. Sertillanges: «L’ambizione può alterare la studiosità e i suoi effetti utili… D’altra parte, lo studio anche disinteressato, non è sempre opportuno; quando non lo è, l’intellettuale dimentica il suo mestiere di uomo… Altri doveri, oltre lo studio, sono doveri umani… Lo studio deve lasciare il loro posto al culto [oggi diremmo la Liturgia], alla preghiera, alla meditazione diretta delle cose di Dio. Anch’esso è un ufficio divino, ma di riflesso, perché cerca e onora le “tracce” creatrici o le “immagini” a seconda del suo oggetto… Studiare in modo da non avere più tempo di pregare, di leggere la Sacra Scrittura, la parola dei Santi e quella delle grandi anime, studiare fino a dimenticarsi di sé e, concentrandosi completamente sull’oggetto dello studio, giungere a trascurare l’Ospite interiore, è un abuso e una stoltezza, Supporre che si progredirà o che si produrrà così maggirmente è come dire che il ruscello scorrerà meglio se si inaridisce la sorgente» (A. D. SERTILLANGES, La vita intellettuale, Ed. Studium, Roma 1969, pp. 39-42; orig. franc. 1920. 31964).

_ A Tommaso d’Aquino sono attribuiti Sedici precetti per acquistare il dono della scienza:

«Giovanni a me carissimo in Cristo, tu mi hai domandato come applicarti allo studio così da acquistare il tesoro della scienza. Ecco il mio consiglio:
1. Non buttarti subito in mare aperto, ma entraci attraverso piccoli ruscelli (Volo ut per rivulos, non statim, in mare eligas introire) Attraverso le cose più facili infatti si può arrivare alle più difficili…
2. Sii lento a parlare e non affrettarti per raggiungere coloro che, riuniti in gruppo, stanno conversando.
3. Custodisci pura la tua coscienza.
4. Non trascurare di attendere alla orazione.
5. Ama la cella e ritornavi con frequenza, se vuoi essere accolto nella “cella vinaria”.
6. Sii amabile con tutti.
7. Non indagare curiosamente nelle cose altrui.
8. Non stringere troppa familiarità con nessuno. La familiarità eccessiva produce disistima ed è motivo di distrazione nello studio.
9. Non ti immischiare in nessuna maniera nelle parole e nelle azioni dei secolari.
10. Non volerti interessare di tutto.
11. Non tralasciare di imitare la condotta dei santi e degli onesti uomini.
12. Non mettere in conto chi ti parla, ma mettiti in mente quanto di buono ti è detto.
13. Sforzati di comprendere ciò che leggi o ascolti.
14. Non rimanere nel dubbio, ma cerca una soluzione.
15. Datti da fare per racchiudere tutto quello che puoi nella biblioteca della tua mente…
16. Non investigare ciò che è al di sopra della capacità della tua intelligenza (Altiora te ne quaesieris).
Se così imposterai la tua condotta, porterai e produrrai durante tutta la tua vita foglie e frutti utili nella vigna del Signore degli eserciti. Se seguirai questi consigli, raggiungerai quanto desideri. Stammi bene».

(da TOMMASO d’Aquino, Fede e opere. Testi ascetici e mistici, a c. di E. M. Sonzini, Città Nuova, Roma 1981, pp. 271s)

_ Concludo con la bella citazione di S. Bonaventura, riportata nella Esortazione apostolica post-sinodale “Pastores dabo vobis” di Giovanni Paolo II “circa la formazione dei sacerdoti nelle circostanze attuali” (n. 53. Lo studio della teologia):

«Nessuno creda che gli basti la lettura senza l’unzione, la speculazione senza la devozione, la ricerca senza lo stupore, l’osservazione senza l’esultanza, l’attività senza la pietà, la scienza senza la carità, l’intelligenza senza l’umiltà, lo studio senza la grazia divina, l’indagine senza la sapienza dell’ispirazione divina» (Itinerarium mentis in Deum, Prologo, n. 4).