martedì 2 aprile 2013

Alla ricerca del padre perduto

con Polito e Nembrini

Dialogo sulla possibilità di un'educazione oggi.

Estratto del resoconto dell’incontro del 21 febbraio 2013 organizzato dal Centro Culturale di Roma . Il resoconto completo è disponibile QUI

Fontolan: Benvenuti a questo nostro incontro “Alla ricerca del padre perduto. Dialogo sulla possibilità di un’educazione oggi”.  [...] Uno spunto che è stato una motivazione per noi, piccola realtà del Centro Culturale di Roma, era proprio costituito in partenza dal libro di Antonio Polito [...] che ha pubblicato da poco –Contro i papà – che sta avendo un grande successo, mi pare che sia la quarta o quinta edizione, per cui vuol dire che si tratta di un tema forte che ha colto un punto importante della vicenda sociale e culturale del nostro Paese. [...] Allora, chiedo subito ad Antonio Polito di dirci: un editorialista politico, studioso dei fenomeni della politica, analista di quello che succede nel nostro Paese, di chi ci governa, di chi ci ha governato, di quanto sbaglia chi ci ha governato, perché si è interessato di paternità? E perché ha affrontato in modo così radicale questo tema nel so libro: “Contro i papà. Come noi italiani abbiamo rovinato i nostri figli ”?
Polito: Allora ti ringrazio, ringrazio dell’invito e della presentazione. Perché? Perché secondo me noi sbagliamo nel pensare – e lo pensiamo tutti in fondo al nostro cuore – che i problemi collettivi siano del tutto esterni alla nostra sfera familiare e privata. Che i problemi politici appartengano ai politici, che i problemi del Paese appartengano a chi ci governa. Ovviamente c’è una parte importante che i governanti possono fare per tenere il Paese in condizioni migliori, però è fuor di dubbio che molte delle questioni e delle caratteristiche, anche delle qualità, ma anche dei difetti, dei vizi, che tengono il Paese fermo, che creano ingiustizie, sofferenza, disagio sociale, siano frutto dei nostri comportamenti, problemi culturali, non solo problemi politici, sociali o economici. Spesso sono problemi culturali. E’ uscito nel libro il lavoro di un sociologo americano che ha affrontato il problema della società americana di oggi, vedendola da questo punto di vista: due città dove si svolgevano, si creavano comportamenti diversi che avevano un’influenza diretta sull’economia. Non so, il numero di madri single, il numero di famiglie che si rompevano, il numero di ragazzi che abbandonavano l’obbligo scolastico, questi sono fatti che avevano un’importanza sull’andamento della società e anche dell’economia molto più forte di quanto noi pensiamo. Se è vero che l’economia può cambiare i valori, è ancora più vero che sono i valori che possono cambiare l’economia. E che noi siamo quello che siamo, perché siamo chi siamo, e non soltanto per quello che fa qualcun altro, da qualche altra parte al governo.
Quindi, in realtà – poi tenterò anche di fare qualche esempio del perché penso che sia così – ho usato la questione dei padri, della paternità, come una grande metafora, una metafora per affrontare i problemi di cui mi occupo regolarmente, che sono i problemi politici, sociali della società italiana, convinto che dobbiamo cominciare a prenderli da qualche filo diverso da quello solito del pensare che se vincono i nostri le cose vanno a posto, se cambia, se se ne va quello che sta al governo e viene un altro… Insomma non è così, molti fenomeni siamo noi, siamo noi anche nei nostri comportamenti, innanzitutto nel nocciolo della società che è la famiglia, a determinarli e a crearli.
Antonio Polito
Antonio Polito
[...] Del resto, l’idea di usare la paternità come metafora, non è solo mia, è frequentissima nella letteratura e anche nella nostra vita sociale, e di recente l’ha usata in maniera sorprendentemente efficace per me Benedetto XVI, che ha dedicato il suo discorso dell’Udienza Generale del 30 gennaio, proprio al tema della paternità, trovando una metafora che io ho trovato particolarmente sorprendente. Lui dice, siccome nel Credo Dio è Padre, la crisi della società contemporanea si riverbera anche sulla fede, perché ha un effetto anche sulla credibilità di questa metafora che il Credo propone. E lui dice «non è sempre facile parlare oggi di paternità, soprattutto nel mondo occidentale, le famiglie disgregate, gli impegni di lavoro sempre più assorbenti, l’invasione distraente dei mass-media all’interno del viver quotidiano, sono alcuni tra i molti fattori che possono impedire un sereno e costruttivo rapporto tra padri e figli. La comunicazione si fa a volte difficile, la fiducia viene meno e il rapporto con la figura paterna può diventare problematico; e problematico diventa così anche immaginare Dio come un padre, non avendo modelli adeguati di riferimento. Per chi ha fatto esperienza di un padre troppo autoritario ed inflessibile, o indifferente e poco affettuoso, o addirittura assente, non è facile pensare con serenità a Dio come Padre e abbandonarsi a Lui con fiducia ».
E’ una cosa effettivamente su cui riflettere, perché quello che sembra un problema sociale, cioè la difficoltà oggi dei padri che non sanno bene cosa essere – io di questo nel libro mi occupo molto – può avere conseguenze culturali così profonde e così radicali. E altrettanto interessante è, dal punto di vista della metafora che usa il Santo Padre, come lui vede il rapporto tra amore e libertà, cioè quello che io nel libro definisco la differenza – un po’ più da psicologia spicciola – tra il “padre accuditivi” e il “padre etico”. Io dico che tutto sommato la crisi è questa: il padre etico. Siamo sempre meno padri etici – che si prendono sempre meno la responsabilità di un confronto con i figli sui temi della libertà, della responsabilità, dei doveri e così via – e sempre più padri accuditivi. E lui la trasforma così: « la Paternità di Dio è amore infinito, tenerezza che si china su di noi, figli deboli, bisognosi di tutto (…) Noi vorremmo certamente che i nostri padri avessero questa onnipotenza divina secondo il nostro schema mentale e i nostri desideri, un Dio onnipotente, un padre onnipotente che risolva i problemi, che intervenga per evitarci le difficoltà, che vinca le potenze avverse, che cambi il corso degli eventi e annulli il dolore.(..) E invece la sua onnipotenza è diversa, non si esprime come forza automatica e arbitraria, ma è segnata da una libertà amorosa e paterna. (..) In realtà Dio creando creature libere, dando libertà ha rinunciato a una parte del suo potere, lasciando il suo potere nella nostra libertà; è un atteggiamento apparentemente debole fatto di pazienza, mitezza e amore, ma dimostra che il vero modo di essere padre è puntare sulla libertà (..) ».
Ora, è esattamente il tema, detto in maniera molto più profonda e alta, che io propongo nel libro, nel senso che io accuso i padri di oggi di essere diventanti una specie di sindacalisti dei loro figli. Presumendo di proteggerli, perché poi l’esito complessivo di questa situazione è disastroso, perché oggi non è che abbiamo creato proprio una società a misura dei nostri figli, i nostri figli lo sanno e sono anche abbastanza arrabbiati per questo. Ma questo malinteso senso di protezione, di cura, di difesa, ha ridotto quel confronto, quella creazione di un modello, anche di un modello contro il quale scontrarsi, contro il quale combattere, perché fa parte dell’emancipazione dei giovani confrontarsi con un modello, e l’ha ridotto a un fratello, a un compagno, spesso di giochi, a un papà – io faccio questa differenza, secondo me anche lessicale, tra l’espressione padre e tutti questi papà, papino, papone, papetto, papuccio, papi, che sono diffuse ormai nella lingua e che corrispondono ormai a questa degradazione della figura del padre alla figura di un compagno di avventure e di giochi. Non chiedo, non sollevo –qualcuno l’ha letto, secondo me, superficialmente – un appello per un ritorno alla severità, al superamento di tutto quello che di positivo c’è stato nell’evoluzione del rapporto padri-figli e genitori-figli in generale negli ultimi anni, diciamo dalla grande rivolta contro l’autorità che fu rappresentata dal ‘68. Io non credo che si possano ripristinare condizioni del passato.  Quando io sollecito alla riscoperta della parola “correzione”, che secondo me è una parola completamente negletta, non mi riferisco alle cosiddette “punizioni corporali” [...]. Io, per esempio, non ho mai toccato i miei figli, però non voglio aprire questa discussione. Non voglio che si torni a quello, non lo credo giusto, non lo farei mai, non è un appello alla severità, ma è un appello alla riscoperta del valore della responsabilità, nel senso che i nostri figli non possono convincersi che tutto è loro dovuto, che tutto sarà facile, che tutto sarà automatico, e che c’è un’autorità che gli farà strada. Non è così. Non è così da un punto di vista sociale. Ci sono altre aree del mondo dove i giovani oggi hanno una disponibilità al sacrificio e all’impegno imparagonabile a quella che hanno i nostri figli, e paragonabile forse a quella che avevano i nostri padri, alla generazione precedente, perché forse noi alla fine nel boom economico siamo stati un po’ i cinesi di allora. E quindi non è neanche conveniente, perderanno la competizione, non è vero che il loro futuro sarà come quello nostro, generazione del baby boom, noi nati dopo la guerra che abbiamo conosciuto il benessere più elevato della storia dell’umanità, noi siamo stati la generazione più benestante della storia dell’umanità. Questa condizione felice non si tramanderà automaticamente ai nostri figli, ed è bene che cominciamo a dircelo e a ragionare su quello che stiamo sbagliando.
Fontolan: Prima di passare la parola a Costanza, io ho una domanda da fare subito ad Antonio Polito: un capitolo del suo libro – il secondo – I bamboccioni siamo noi – mi ha colpito in un punto in cui parla delle tre rivoluzioni che hanno portato alla perdita o all’eclissi del padre. E ce ne è una in particolare che mi ha colpito. La prima è quella del ’68 – l’ha citata prima – la seconda rivoluzione è quella della contraccezione, e una terza rivoluzione è quella del pensiero del ‘900. Mi ha colpito la seconda, perché la trovo un po’ impopolare, come notazione, rispetto alla mentalità generale, e anche un po’ controcorrente rispetto alla storia e alla cultura da cui viene Antonio Polito, che certamente è una storia di impegno politico forte a sinistra, laica. E questo tema della contraccezione detto da lui mi ha colpito perché sembrerebbe una cosa da vetero-cattolici, come tipo di notazione. Mi ha incuriosito, e gli chiederei se può, in pochissime parole, darci uno spunto su questo.
Polito: [...] Per quanto riguarda la contraccezione, qui io vorrei essere chiaro, nel senso che io penso che il reale sia razionale, in linea di massima, quindi una volta scoperta la pillola e scoperta la contraccezione non è che metti il dito nel buco della diga e fermi il mare, e non penso che abbia senso reagire a questi grandi mutamenti col divieto, non ha senso perché oltretutto non ci si riesce, sono cose che hanno cambiato il comportamento, diciamoci la verità, anche del popolo cattolico, il popolo cattolico è una società secolarizzata dell’Occidente, in maniera ormai non modificabile.
Perché se ancora ancora su temi come la vita, la nascita e la morte c’è una resistenza diciamo diffusa, sui temi come la cosiddetta maternità responsabile, la battaglia, per chi l’ha fatta, credo che sia persa. Quindi non contesto il fatto. Però io dico: di fronte al fatto che esiste la contraccezione, esistono questi comportamenti, c’è spazio per il dibattito pubblico di chi ritiene che fare pochi figli sia un errore, sia un errore per la società nel suo complesso, ormai lo riconoscono economisti e demografi. Una delle debolezze maggiori della società italiana è la scarsa natalità, per una serie di ragioni, anche banali e sociali, per esempio tutto il sistema pensionistico salta. Sono venuti a cadere anche dei tabù che c’eravamo costruiti anche fintamente, perché questo è figlio del fatto che le donne lavorano. Anche questo non è vero, perché nei Paesi dove c’è maggiore occupazione femminile, c’è più natalità, ci sono più bambini. Allora c’è lo spazio per dire che è un errore per la società e, a mio modo di vedere, anche per la famiglia, nel senso che un figlio voluto, pianificato, un figlio di cui si decide il momento della nascita in ragione di una serie di ragioni economico-sociali – quando avrò una casa, quando avrò una stanza in più – poi è ovviamente un figlio anche molto più sacralizzato, un figlio di quelli con i quali ci comportiamo da sindacalisti, perché avendolo costruito in modo così accorto e anche impegnativo, da un punto di vista dell’investimento personale, essendo un investimento, affettivo, umano ecc.., come tutti gli investimenti uno li tratta anche con estrema prudenza e ha anche meno quella facilità di comportamento che tutto sommato in una famiglia più numerosa quasi inevitabilmente si crea.[...]
Fontolan: Bene. Allora Costanza Miriano, giornalista del Tg3, autrice di libri che hanno avuto un grandissimo successo. Forse per lei il tema “Alla ricerca del padre perduto”, potremmo tradurlo alla ricerca della famiglia perduta, o dei genitori perduti…
Miriano: [...] Diciamo, per quello che riguarda il tema paterno io ho scritto questo primo libro che si chiama Sposati e sii sottomessa, e mi ero ispirata alla lettera di San Paolo agli Efesini. Nel secondo volevo scrivere il corrispettivo per gli uomini, perché il primo è una raccolta di lettere alle amiche, nelle quali cerco di convincerle a sposarsi, che è un po’ il mio pallino, o a fare figli.  Praticamente per me è sempre la risposta a qualsiasi problema. E nel secondo ho provato a scrivere delle lettere agli uomini, perché anch’io vedo questa carenza paterna, vedo delle scene che credo che chi ha bambini si trovi a notare: padri presi a calci dai bambini all’asilo, che magari fanno i capricci, e i padri che si difendono così, alla bene e meglio (sono cose che noi da bambini non avremmo osato neanche pensare nel più ardito dei sogni), oppure contrattazioni da Mc Donald’s, – ancora un gelato, ancora – .. Insomma, c’è un rapporto praticamente paritario tra figli e genitori, come dicevi tu, sono gli amici con i quali si interagisce quasi alla pari. E quindi volevo scrivere una serie di lettere agli uomini, ma mi sono resa conto che non riuscivo a parlare il linguaggio maschile. Anche perché gli uomini, non so, quelli che c’ho intorno io, parlano poco.
Costanza Miriano
Costanza Miriano
[...]  Quindi in realtà ho scritto di nuovo alle donne. E io penso che molta parte della alterazione della polarità nei ruoli maschili e femminili sia da ricercare nel ruolo femminile nella società. E lo dice anche Ratzinger, che nell’introduzione al libro Nuovo disordine mondiale (di Michel Schooyans) scrive:
«la peculiarità di questa nuova antropologia che dovrebbe costituire la base del nuovo ordine mondiale, diventa palese soprattutto nell’immagine della donna, nell’ideologia del women’s empowerment, nata dalla Conferenza di Pechino e praticamente che si ispira alla teoria del Gender equality, cioè maschio e femmina sono più degli atteggiamenti culturali che biologici e quindi donati da un Padre che ci dota di un bagaglio dal quale non possiamo prescindere, non possiamo sceglierlo a nostro piacimento».
Io credo che, appunto, il cambiamento del ruolo delle donna abbia alterato questa polarità, maschile e femminile, e che stia a noi, o forse perché io sono donna e credo che nella risoluzione dei problemi, ciascuno debba partire dalla propria parte, prima di accusare l’altro.  Quindi ho riflettuto più sulla parte che io posso fare per rendere mio marito più padre.  Innanzitutto mai criticandolo davanti ai figli, soprattutto, e anche imparare a permettere che l’altro sia, che l’uomo abbia il suo modo, il suo stile appunto, il suo modo di fare le cose, proprio perché la donna, come dice San Paolo nella lettera agli Efesini, sulla quale ho ragionato per il mio intero libro, ha questa tendenza a “formattare” gli altri, a fare da educatrice, anche un po’ oltre l’ambito di competenza.
[...] In realtà questa dote femminile è una dote che serve alla donna per accogliere la vita e quindi è una dotazione che noi abbiamo perché siamo programmate per decodificare i feti extra-uterini che sono i bambini nei primi anni di vita, nei quali il cordone è tagliato solo fisicamente, e quindi è una capacità, è una specie di radar sottilissimo che abbiamo, che però non va usato con i quarantenni. E quindi ho cercato di riflettere su questo fatto che la donna deve riprendere il suo ruolo di accoglienza, la donna nei confronti dei bambini deve essere il pavimento, l’accoglienza, mentre il padre deve fare da parete, cioè il muro oltre il quale il bambino non può andare. Però se non c’è un pavimento, neanche la parete regge, quindi penso che uomo e donna, quindi padre e madre, debbano riprendere il proprio ruolo in mano, un ruolo non assolutamente intercambiabile. Poi, ovviamente, lavorando entrambi può succedere che un padre cambi un pannolino o scaldi – con grande sforzo di concentrazione, no scherzo – una minestrina, però ovviamente non è su questo aspetto spicciolo che si gioca la differenza, ovviamente sappiamo fare anche le stesse cose, non proprio allo stesso modo però..  Non ci si può completamente intercambiare su tutti i fronti, cioè a casa e al lavoro. E qui veniamo all’aspetto dell’ingresso della donna nel mondo del lavoro, secondo me un po’ controverso. Cioè ogni volta che si parla di conciliazione, si parla di permettere alle donne di lasciare di più i loro figli, quindi asili nido, oppure incentivi alle aziende che scelgono di assumere le donne, quote rosa, soffitti di cristallo da infrangere, donne nei consigli di amministrazione. Mentre io credo che le donne che vogliono fare le madri, anche, quindi non mettere solo il lavoro al primo posto, anzi, mettere prima la famiglia, debbano combattere perché il lavoro sia più a misura di donna, non perché le donne possano entrare più massicciamente nel mondo del lavoro o ai vertici, perché è oggettivamente impossibile che una donna lavori come un uomo. Adesso non so se questa sia una cosa molto popolare da dire, però secondo me, se una donna – torniamo al discorso della contraccezione sul quale poi magari vorrei tornare – se una donna si sposa a un’età biologicamente normale e la coppia decide di aprirsi alla generazione della vita, non in modo così sconsiderato, però con una disponibilità, un’accoglienza, è chiaro che di figli ne vengano più di uno. E quando i figli sono qualcuno in più è praticamente impossibile fare un lavoro molto impegnativo e combattere con gli uomini sul loro campo di battaglia e poi tornare a casa ed essere madri serie, decenti, non dico proprio brave. Perché è proprio un dato di fatto oggettivo, la giornata ha solo 24 ore, e nonostante il blog del Corriere della 27esima ora, sono sempre 24. Insomma, sono dei dati di fatto oggettivi e finché la natura, insomma finché non modifichiamo anche questo, siamo noi che teniamo il bambino nella pancia, siamo noi che lo allattiamo, siamo noi che siamo più dotate di questo famoso radar di cui parlavo prima che serve ad aiutare i bambini nei primi anni di vita. Perché la madre insegna a vivere, mentre il padre deve insegnare a morire, quello che mette i no e i paletti.
Quindi secondo me la riflessione sui padri non può prescindere da quella sulle madri.  D’altra parte io credo, come Edith Stein e Giovanni Paolo II, che hanno tutti riflettuto sul genio femminile, che Dio affidi l’umanità alla donna e che l’uomo viene molto definito dallo sguardo femminile che riceve su di sé. Cioè una donna che permette all’uomo di essere quello che è, di esprimere i suoi talenti, che smette di criticare, di voler formattare, di volersi imporre, di voler controllare, che permette all’uomo di essere, di essere come è, di essere quello che va fuori a fecondare il mondo, perché lo stile maschile è uno stile molto più proiettato verso l’esterno.  E credo che invece una donna che sappia fare la sua parte in casa possa rimettere molto le cose a posto, possa dare anche il coraggio ai padri di fare il proprio ruolo, perché un padre che si vede confermato, che si vede approvato, che si vede sostenuto, un padre che sa che può essere fermo e anche tenersi dentro la frustrazione del figlio, sa che lo può fare perché dall’altra parte c’è una madre che accoglie e che consola, magari anche di nascosto, ogni tanto. Io lo sperimento, dicevo prima che sono una madre un po’ mollacciona, e vedo che mio marito è più capace di me di tenersi dentro anche la sofferenza dei figli, di dire no, di sopportare i capricci, i musi, perché nell’immagine, diciamo l’immagine del Padre di cui noi siamo a immagine e somiglianza, noi sappiamo che il no è per il vero bene del figlio e quindi sa guardare oltre, ha il coraggio di assumersi il peso della libertà del figlio, di mandarlo fuori dal nido, di stare in panchina quando il figlio comincia a fare i primi passi fuori.  Noi abbiamo un figlio adolescente che comincia a uscire da solo, io mi travestirei da albero per seguirlo, invece è mio marito che decide quando va, quando torna, e io cerco di confermarlo in questa sua capacità di stare in panchina, e di non oppormi. Infatti, in casa per i miei figli mio marito è una specie di divinità, mentre io, l’altro giorno mi hanno detto che “sono un po’ una pippa”, perché questo padre fantastico che sa tutto, aggiusta tutto, fa vedere i film, propone le cose, fa i programmi, così … Però a me hanno detto che io so ridere, che rido molto, non è poco, vero? E io l’ho preso come un complimento. No, perché in realtà ci confermiamo a vicenda. Io lo so che posso rilassarmi su certi fronti, perché so che è una parte che fa lui.
Fontolan: Franco, abbiamo già diversi elementi, perché qui è stato toccato, sia da Antonio Polito che da Costanza Miriano, qualcosa di molto vertiginoso su questo tema della paternità.  Citando Benedetto XVI vediamo dietro come la eclisse di un’altra Paternità o la crisi di un’altra Paternità. Ma intanto sentiamo cosa pensi tu su questo tema, Alla ricerca del padre perduto.
Nembrini: Buonasera. Sono veramente a disagio, perché, dette le cose che sono state dette, di quel rilievo e di quella profondità, da Antonio sulla figura del padre, da Costanza sulla figura della madre… e adesso? E adesso, forse mi è rimasto di parlare dei figli, o a nome dei figli, dando voce ai figli. Potrebbe essere veramente complementare a quello che abbiamo sentito.  Io sono rimasto colpitissimo dalle osservazioni fatte fin qui, a cui non ho molto da aggiungere se non provare a lanciare un grido di allarme, o se volete – attraverso alcuni aneddoti e alcune immagini – provare a condividere con voi quello che mi sembra il vissuto di questa generazione di nostri figli; forte da una parte del fatto di avere avuto quattro figli, dall’altra e forte della convivenza quotidiana – da 36 anni che insegno – con ragazzi dell’età più meno delle superiori: quindi adolescenti – anche se non mi piace il termine – ne incontro veramente tanti, e allora mi pare di poter fare due o tre osservazioni che ci interpellano in modo molto forte.  Quando si è trattato di pubblicare questo libro – che in realtà non ho mai scritto, diciamolo una volta per tutte, nel senso che qualche amico ha ritenuto che certe conversazioni che avevo fatto in diverse occasioni avessero qualche valore, ha preso le registrazioni, le ha pazientemente sbobinate e ne è nato un libro (che devo ancora leggere. Ma dicono che ne valga la pena, che sia molto carino…) – e l’editore mi ha chiesto come lo volessi intitolare, io proposi il titolo che mi sembrava più render giustizia del contenuto: avrei voluto intitolarlo “Ho visto educare”. Perché, e lo dico senza falsa modestia, non è che ho qualcosa da dire sull’educazione, non è che ho teorie sull’educazione; ho visto tante cose. Certamente il fatto di essere quarto di dieci figli, di due genitori molto semplici, santi credo, che hanno tirato su dieci figli in condizioni economiche relativamente difficili – quegli anni di cui parlava Antonio prima –ha voluto dire molto: dal punto di vista dell’educazione ho visto molto e ho provato a raccontarlo; e allora ho suggerito quel titolo. L’editore però ha detto: “no, non si capisce, è misterioso” (a me sembrava chiarissimo, “ho visto educare”, più chiaro di così…). Allora ne ho proposto un altro che è quello che mi viene su più dalle viscere: “Lasciateli stare”. Sottotitolo: “Dedicato a tutte le mamme d’Italia”. Naturalmente l’editore ha rifiutato anche questo, dicendo che non ne avrebbero venduto una copia; io ho provato a spiegare che l’avrebbero comprato tutti i figli da regalare alle mamme, e quindi l’operazione sarebbe stata commercialmente straordinaria, ma naturalmente non mi hanno creduto (però prima o poi un libro con quel titolo lo scrivo…). Così è rimasto “Di padre in figlio”.
Franco Nembrini
Franco Nembrini
Ma perché questa mia insistenza a parlar male delle madri? Perché è vero, come scrive Antonio, come ha detto Costanza, che oggi c’è obiettivamente una scomparsa del padre, sto dicendo una cosa perfino ovvia ormai. Non so se, come ha accennato Antonio, sia più una mancanza di esperienza di paternità vissuta che ha in qualche modo gettato un’ombra perfino sulla concezione religiosa del Padre Eterno; oppure, a rovescio, due secoli che hanno fatto una guerra culturale, scientifica, metodica, sistematica, all’idea di Dio non potevano che sortire questo risultato: un indebolimento della figura paterna spaventoso. Che ha per contrappeso un debordare, invece, della figura materna. Perché se non c’è il muro e il pavimento va avanti all’infinito comincia a muoversi e hai la sensazione di sprofondare: se non c’è il muro, come diceva Costanza, non c’è più neanche il pavimento. E quando si pretende di far camminare uno senza muri e senza pavimenti, voi capite che è un’impresa quasi impossibile.  Provo a spiegarmi con un paio di aneddoti, veri, che mi sono capitati davvero. Avevo sedici anni o poco più quando fui chiamato all’oratorio del mio paese a dare una mano – nascevano i primi centri estivi – ai ragazzi che facevano i compiti per le vacanze, prima di giocare al pallone; mi danno una quarta elementare, stanno facendo un po’ di analisi grammaticale e di analisi logica, e i bambini dovevano analizzare la frase: “Mia mamma mi vuole bene”. Non, badate bene, “Mia mamma fa la spesa”, no, no, “Mia mamma mi vuole bene”. Un genio, tra questi bambini, scrisse: “Mia: aggettivo ossessivo”. Allora nella mia ingenuità, nel mio candore di sedicenne, pensai a un errore di grammatica; ora so bene, invece, di che cosa stiamo parlando. Oppure una volta che un ragazzo mi ha detto: “Franco, sai che cos’è un golf?” “Sì, penso di sì, un indumento” “Ma, come lo definiresti?” Ho provato a definirlo, lui mi ha corretto, mi ha detto: “No, il golf è quell’indumento che i figli devono mettere quando le mamme hanno freddo”. E se ne potrebbero raccontare di più; ma dove voglio arrivare? Mi sembra che alla fine la questione decisiva sia un’osservazione che ha fatto Benedetto XVI nel 2007 in un intervento a un convegno della Diocesi di Roma sull’educazione, dove dice che i figli vengono tutti al mondo “giusti”. Vengono al mondo – perdonate la battuta – fatti “da Dio”, fatti bene.  È ovvio che so bene di tutte le differenze storiche, culturali, l’influsso della televisione, di internet eccetera; ma nella sua categoricità, quest’affermazione, secondo me, è verissima: i figli vengono al mondo fatti da Dio. Vengono al mondo con un desiderio buono, vengono al mondo con una tensione alla felicità, a che le cose possano essere amate, possano essere incontrate, possano essere conosciute. Fanno bene il loro mestiere; e il loro mestiere è guardare. I nostri figli – vien da dire anche i nostri alunni – ci guardano, sempre. A due anni, forse anzi già nel grembo materno, e poi a due anni, e poi a cinque, e poi a otto, e poi quando escono di casa, e poi quando cominciano i primi tormentoni dell’adolescenza, i nostri figli ci guardano sempre. L’emergenza educativa è questa: che adulti vedono quando guardano?  L’emergenza educativa siamo noi, l’emergenza educativa sono padri e madri che non hanno ragioni di speranza sufficiente da comunicare ai loro figli.
Tutto quel che cerco semplicemente di dire, forte di un’esperienza che ho visto tante, è questo: forse in modo un po’ paradossale, un po’ rozzo, il segreto dell’educazione è non avere il problema dell’educazione. Perché quando tu hai il problema dell’educazione vuol dire che fai quella cosa che diceva prima Costanza: cerchi di cambiare l’altro. Cercar di cambiare l’altro è una violenza, perché l’altro è libero, e può cambiare solo a condizione di ricevere una testimonianza grande. Deve incontrare tanto di quel bene, così tanta bellezza, da esserne trascinato: questa è l’educazione. Io ringrazierò sempre mio padre di essersi occupato della sua santità, non della mia. Perché la sua santità mi ha reso curioso, e perciò disposto a obbedire, a seguire, ad ascoltare, ad accettare consigli. Era la verità di ciò che viveva che mi convinceva, non il suo disperato tentativo di rendermi diverso da ciò che ero. Perché mi avrebbe disturbato, esattamente come disturba tutti i nostri figli, e tutti i nostri alunni.
Dice il Papa: “L’educazione è perciò una testimonianza”. Una testimonianza, una scommessa terribile, drammatica sulla libertà dei nostri figli. Nella sua radice, questo è il comandamento dell’educazione. Che ci si occupi della propria vita in modo così intenso, così grande, da poter offrire una testimonianza convincente ai propri figli.  E questo fa fuori anche tutto il problema delle regole, delle contrattazioni, dei paletti, del “dove lo fermo?” [...] Ed è veramente una cosa diversa: poter scommettere sulla libertà è davvero la grande sfida.  Certo, è un rischio, e non a caso don Giussani ha intitolato il suo libro fondamentale sull’educazione “Il rischio educativo”, perché l’educazione ha la natura di rischio; ma, insisto, mi sembra che il compito dell’educatore sia proprio quello di occuparsi della santità propria – poi è chiaro che con la coda dell’occhio guarda in propri figli, i propri alunni, i figli degli amici; ma deve sentire una domanda terribile, una sfida tremenda su di sé.  A me – lo racconto sempre – è sembrato di poter intuire questa cosa una domenica pomeriggio, mentre correggevo i temi, e a un certo punto noto – era un tavolo grande – mio figlio che mi stava osservando all’angolo del tavolo. Era alto esattamente come il tavolo, e io vedevo solo gli occhi, questi occhi che mi fissavano, e fui colpitissimo da una considerazione che non mi ha più abbandonato. Quel figlio in quel momento non mi stava chiedendo da mangiare, da bere, da vestire, da giocare; in quel momento mi guardava e basta. Ma – me lo ricordo come fosse oggi – mi attraversò l’idea forte, persino dolorosa, che quello sguardo di mio figlio in fondo contenesse una domanda, che potrebbe essere formulata così: “Papà, assicurami che valeva la pena venire al mondo. Dammi una ragione di speranza. Guarda, su tutto il resto posso chiudere un occhio. Se c’è poco da mangiare, mangeremo di più domani, se c’è poco da vestire, se mi dai uno scapaccione…” –anche la questione delle sberle, io le ho date, invece, devo riconoscere, avendo avuto quattro figli maschi… I nostri figli ci perdonano tutto, i nostri figli ci perdonano molto di più di quanto noi perdoniamo loro; ma non ci possono perdonare questo: un’assenza di ragioni per la vita, una ragione che tenga su la vita, l’essere venuti al mondo. “Papà assicurami che valeva la pena essere venuti al mondo”: io non sono più riuscito ad entrare in classe senza sentire trenta paia d’occhi che, consapevoli o no, mi facevano questa domanda, perché tutti siamo costituiti da questa domanda, e tutti ci muoviamo dalle nostre case e veniamo a una riunione come questa con la segreta speranza di essere accompagnati e aiutati a stare al mondo, cioè a trovare una ragione sufficiente per portare lietamente la fatica del vivere, il dolore che il vivere comporta. Perché se è così, non dico che è facile – l’ho detto prima, educare non è mai facile -, ma semplice sì. Se è una testimonianza è semplice. Dio continua a fidarsi di noi nel mettere al mondo i figli e nel farceli educare perché ci chiede in fondo, per essere dei buoni genitori, solo questa suprema lealtà di fronte a noi stessi e di fronte alle cose. Qui la libertà è una roba seria.  La parabola del figliol prodigo resta per me la grande parabola dell’educazione, e ho finito.

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Quel padre – è Dio – aveva due figli, e uno dei due se ne va – il più piccolo, proprio quello per il quale forse provava più tenerezza. Ed ecco la questione. Se il figlio ti dice “Caro papà, a me di tutti i tuoi suggerimenti, consigli, prediche, non prediche, non me ne importa più niente; vado a buttar via la vita”, come fanno tanti, tu che cosa fai? Perché normalmente abbiamo due tentazioni. Quella antica, autoritaria: chiudo porte e finestre a chiave, tu di qua non esci perché di fuori il mondo è cattivo [...]. L’altra soluzione, quella oggi in voga, quella che Antonio oggi descrive in modo mirabile nel suo libro, quella moderna, è quella del papà che dice: “Vai via? Vengo anch’io con te! Vendiamo la casa.  Ma sì, son stato giovane anch’io, batti il cinque figlio mio!”, e vanno entrambi. Ma così quando il figlio, accorgendosi dello sbaglio, accorgendosi di una solitudine, soffrendo di una violenza – perché questa è una generazione dove i figli soffrono di più; non ho mai visto una generazione soffrire così nel diventar grande, mai -, soffrendo di quello che gli manca, si ravvede e dice “Ho sbagliato tutto, ma nella casa di mio padre perfino i servi hanno di che mangiare, tornerò!”, e si alza tutto convinto, contento, rinsavito, si toglie di dosso la melma, pronto a partire, gli scappa l’occhio: il padre è lì con lui, è lì con i porci, non c’è un padre da cui tornare, non c’è una casa dove tornare. Questo lo uccide, lo uccide perché non c’è speranza.  Quello che non ci possono perdonare i figli – e gli alunni – è questo: non c’è una casa dove tornare, e perciò non c’è una possibilità di sbagliare, e perciò di provarsi; alla fine non c’è una possibilità di perdono. Come dice Gli orfani di Pascoli, la grande fotografia per me della generazione dei nostri figli, «non c’è più chi si compiace di noi, non c’è più chi ci perdoni».  Perché il padre è quello che resta a garantire la casa, cioè a garantire la possibilità del ritorno, cioè garantisce ai figli la possibilità di sbagliare, e garantisce la possibilità del ritorno. Perché alla fine l’educazione è questo grande atto di misericordia: “figlio mio, io darei la vita per te, adesso; non ‘se cambi’, no: io darei la vita per te così come sei, adesso”. L’educazione comincia in questo punto esatto.
I nostri figli invece soffrono di un rapporto conflittuale, durissimo, con le madri, avente per oggetto e per contenzioso naturalmente la scuola, i voti, la pagella, un contenzioso continuo dove non vanno mai bene a nessuno. Non vanno bene al padre, non vanno bene alla madre, non vanno bene a scuola, non vanno bene a nessuno. Un ragazzo mi ha scritto: “Franco, io ho bisogno solo di una cosa: un posto che non abbia schifo e non abbia paura di quello che sono”.  Questa è una casa, questi sono un padre e una madre, questa dovrebbe essere una scuola, questo dovrebbe essere un luogo di lavoro – perché anche sul lavoro, ahimè, non si educa più – questo è quello che i nostri figli ci chiedono. Mi sembra che sia la grande sfida da raccogliere.
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Il resoconto completo dell’incontro è disponibile in pdf sul sito del Centro Culturale di Roma