sabato 13 aprile 2013

La rivoluzione di Papa Francesco


 Un direttorio di cardinali governerà la Chiesa con lui.




Un consiglio della Corona per Papa Francesco. Cinque cardinali in rappresentanza di ogni continente scelti per supportare Jose Mario Bergoglio nella sua azione di governo. Non si tratta di voci, ma di una svolta che, annunciata nelle scorse ore dallo stesso Papa ricevendo in udienza i vescovi della Toscana, sarà resa effettiva dal prossimo autunno. Certo, i nomi dei cinque cardinali sono ancora “in mente Dei” ma, come ha detto lo stesso Francesco, la decisione è presa e segue quanto molti cardinali hanno auspicato durante le congregazioni generali che hanno preceduto il recente conclave: il Papa non può più governare da solo. Troppi gli scandali, non poche le disfunzioni, ipertrofica la centralità romana.
Occorre, dunque, un nuovo inizio. Intervenire alla radice dell’esercizio del governo della Chiesa, così come già auspicò il Concilio Vaticano II quando parlò di fornire, tramite il sinodo dei vescovi (duecento presuli che si riuniscono periodicamente in rappresentanza dei circa cinquemila esistenti in tutto il mondo), «uno stabile sostegno collegiale alle decisioni ultime del successore di Pietro». Non a caso, i cinque cardinali che Bergoglio andrà a scegliere lavoreranno sostanzialmente in rappresentanza di questo stesso sinodo che oggi ancora non opera a pieno regime, e cioè secondo tutte le potenzialità auspicate dagli stessi padri conciliari. I suoi poteri, oggi, sono puramente consultivi, tanto che le sue ventotto edizioni si sono sempre risolte in documenti di fatto dimenticati. Da ottobre non sarà più così. I cinque cardinali rappresenteranno la Chiesa dei cinque continenti e, seppure l’ultima parola spetterà al Papa, governeranno «assieme».
Il nuovo governo è figlio del Vaticano II, certo. Ma anche della Compagnia di Gesù, l’istituto religioso fondato da Ignazio di Loyola e del quale Francesco fa parte. La Compagnia fa capo al preposito generale il quale, nell’esercizio del governo, è assistito da dieci assistenti in rappresentanza di diverse lingue e nazionalità. Per un Papa che chiede insistentemente di «uscire dal recinto» per andare incontro «a ogni periferia del mondo», il nuovo consesso è uno strumento imprescindibile.
Inizialmente i prescelti saranno cinque, ma non è detto che stabilmente o anche di volta in volta il loro numero non possa ampliarsi. Già il sinodo dei vescovi elegge oggi, al termine dei suoi lavori, tre presuli per continente incaricati di traghettare l’episcopato verso il sinodo successivo. E fra questi dodici eletti nell’ultimo sinodo svoltosi in Vaticano in ottobre vi sono nomi che molto hanno inciso nel conclave. Probabile, quindi, che il Papa scelga i cinque fra loro. Ci sono Timothy Dolan di New York, Odilo Scherer di San Paolo del Brasile, Christoph Schönborn di Vienna, Peter Erdö di Budapest, George Pell di Sydney, Luis Antonio Tagle di Manila.
E la curia romana? E la segreteria di stato cono di bottiglia delle notizie “da” e “per” il Papa? Continuerà ad esistere, ma sarà in sostanza depotenziata. Ecco perché il problema, per il Papa, non è oggi tanto quello di scegliere il nome del nuovo segretario di stato, o cambiare i capi dicastero in carica. In cima alla sua agenda c’è piuttosto quella rivoluzione di cui avevano già parlato sia Carlo Maria Martini quando nel Sinodo dei vescovi del 1999 chiese un «confronto collegiale e autorevole tra tutti i vescovi su alcuni dei temi nodali», sia Camillo Ruini il quale, prima del conclave che elesse Ratzinger, all’interno di un bilancio del papato intitolato “L’unità profonda di un pontificato veramente universale”, spiegò che “con Giovanni Paolo II il primato papale ha toccato insieme il suo punto più alto e il suo punto finale”. E arrivò a esercitarsi sulla necessità di dare un governo nuovo alla Chiesa, «il cui compito sarà proprio di integrare il meglio dei due poteri, il collegiale e il primaziale».
In Vaticano c’è chi già ricorda l’era dei patriarchi. Il nuovo modello, in sostanza, potrebbe portare a un ritorno al primo millennio, a quando le chiese d’occidente e d’oriente erano ancora indivise. Cinque patriarcati governavano assieme l’ecumene cristiana: Roma, Costantinopoli, Antiochia, Gerusalemme e Alessandria d’Egitto. Il Papa, fra loro, era “primus inter pares” senza ordinario dominio sulle porzioni di chiesa non sue. Veniva chiamato a dire l’ultima parola solo nei momenti più difficili. Già Benedetto XVI aprì la strada rinunciando a farsi chiamare «patriarca dell’Occidente». Prima di lui Giovanni Paolo II, nella “Ut unum sint”, riconobbe che «la questione del Papa costituisce una difficoltà per la maggior parte degli altri cristiani». Dopo di loro Bergoglio che non a caso insiste nel farsi chiamare «vescovo di Roma».
In questo primo mese di governo Francesco ha ricevuto alcuni capi dicastero della curia romana e anche diversi vescovi. Le consultazioni non sono terminate, ma sempre di più prende corpo l’idea che le nomine avverranno con calma, senza stravolgimenti decisi. «Non è questione di nomi ma di struttura», hanno affermato durante le congregazioni generali alcuni cardinali. E il Papa ne ha preso atto. Come cambierà la forma della curia, così muterà la forma dei rapporti fra Chiesa e potere politico. Il modello, come scrive lucidamente il sociologo Luca Diotallevi nel suo ultimo volume intitolato “La pretesa. Quale rapporto tra Vangelo e ordine sociale”, si rifà al “De civitate Dei” di Agostino. Quello che tramonta è il modello di Stato (anche nella sua versione ecclesiastica) e la sua laicità. Quello che si riafferma è l’opzione della libertà religiosa come modo vivace e rispettoso che hanno la Chiesa e i cristiani di abitare e sostenere la civitas secondo l’ intuizione agostiniana tanto cara al giovane Ratzinger, da lui discussa nel 1954 in un convengo di studi agostiniani a Parigi, e ripresa nella parte finale del saggio di Diotallevi. (P. Rodari)
Fonte: La Repubblica