martedì 16 dicembre 2014

Accompagnare e chinarsi. In quel deserto dove c’è più dolore




In questa pagina pubblichiamo, in una nostra traduzione, il prologo del gesuita Ángel Rossi, e uno stralcio dell’introduzione degli autori, Javier Cámara e Sebastián Pfaffen, al libro Aquel Francisco (Córdoba, Raíz de dos, 2014, pagine 348). Scrive nella presentazione l’arcivescovo di Córdoba, monsignor Carlos José Ñáñez, che Cámara e Pfaffen raccontano gli anni passati da Papa Francesco — che il 17 dicembre compie settantotto anni — nella città argentina come novizio gesuita, come provinciale del suo ordine e come sacerdote residente nella casa della Compagnia di Gesù. «Il loro modo di lavorare è stato caratterizzato dalla serietà, dalla competenza professionale e dalla simpatia e dall’affetto verso il Papa». La preparazione provvidenziale di Bergoglio — continua Ñáñez — si è mostrata in azione, nel suo ruolo di pastore dell’arcidiocesi più grande dell’America latina. I suoi gesti, i suoi insegnamenti, le sue proposte non sono improvvisazione o iperattività. «Al contrario — conclude l’arcivescovo — non sono altro che il risultato della coerenza e della dedizione con cui il Papa ha svolto il suo precedente incarico, e che ora offre a tutta la Chiesa».
Accompagnare e chinarsi. In quel deserto dove c’è più dolore 
(Angel Rossi) Córdoba è stata per Papa Francesco una duplice esperienza di deserto. Anzitutto, nel suo noviziato: il deserto della seduzione, dove noi gesuiti siamo portati liberamente per essere sedotti da quel Signore che ci invita a incontrarlo, a essere “compagni di Gesù”, a seguire i suoi passi, a sentire con i suoi sentimenti, a guardare con i suoi occhi, a spogliarci dei mantelli che abbiamo portato dal mondo e a prendere il catino, la brocca e l’asciugamano per lavare, “chini”, i piedi dei fratelli.
Quello di accompagnare e quello di chinarsi sono due gesti che stanno certamente caratterizzando il pontificato di Francesco, uomo di “incontro con il Signore” nell’intimità della preghiera, e di “incontro con il suo popolo”, in quella “vicinanza” che sta segnando chiaramente un modo di essere pastore.
E uomo abituato anche a chinarsi di fronte alle miserie umane.
Padre Pedro Arrupe, che è stato generale dei gesuiti, era solito dire che il nostro posto è sempre là dove c’è più dolore. È chiaro che Francesco non solo lo ha compreso con la testa, ma lo vive anche con il cuore, lo fa gesto. E sebbene lontano nel tempo, è molto probabile che in quel noviziato del quartiere cordovese di Pueyrredón abbia assimilato quel concetto.
Poi, per quegli strani risvolti della vita e per la misteriosa pedagogia di Dio, Córdoba ha accolto di nuovo Jorge Bergoglio in circostanze molto diverse. E quella volta è stato il deserto dell’esilio, o, come lui stesso lo ha definito, il «tempo di oscurità, di ombre», «un momento di purificazione interiore». I letterati parlano di secondo viaggio; i mistici lo chiamano seconda conversione.
Al di là delle circostanze che l’hanno provocato, e che Javier Cámara e Sebastián Pfaffen approfondiscono in queste pagine, è chiaro che Francesco ha conosciuto in quegli anni il deserto di essere messo al margine del cammino, la solitudine del non protagonismo e il silenzio del cuore. Ma il deserto non è fatto perché ci si rimanga. Lo si attraversa per andare da un’altra parte. E allora l’esilio si trasforma in esodo.
Nella parabola della vite, Gesù ci dice che qualsiasi potatura, venga essa da Dio o sia da Lui consentita, serve per avere più vita. E sebbene — come dice Benjamin González Buelta — Dio non possa legare il braccio di chi taglia né fermare la lama dell’ascia, può però orientare verso la vita un colpo diretto verso la morte.
L’albero potato sembra morte, ma la linfa di Dio, la sua grazia, lavora “nel segreto”. E all’improvviso, come frutto di questo “rimanere”, irrompe la primavera, fragile, ma incontenibile; e allora è il tempo della sorpresa, in cui si scopre una vitalità straordinaria, impossibile da nascondere o da frenare. È stata questa la sensazione che abbiamo provato quel pomeriggio di marzo del 2013 quando abbiamo visto Jorge, ora Francesco, affacciarsi al balcone del mondo, pronto a servirlo.
Di questo ci parlano Javier e Sebastián nel libro. E lo fanno con il rigore di chi non improvvisa, e con lo sguardo sapienziale di chi scorge, meravigliato, il Mistero di Dio incarnato in questa pagina unica della nostra storia.


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Gli anni difficili di Córdoba. Il prezzo della solidità

(Javier Cámara e Sebastián Pfaffen) «Pronto?»; «Pronto? Sì? Chi parla?», «Jorge Bergoglio»; «...come?»; «Jorge Bergoglio»; «Veramente? Il Santo Padre?»; «Sì! Vuoi che te lo dica in cordovese?». Lunedì 3 febbraio 2014, prima di mezzogiorno, Jorge Bergoglio, Papa Francesco mi ha telefonato a casa. Otto mesi prima, nel giugno 2013, avevo iniziato a compiere ricerche sui giorni che l’attuale Pontefice della Chiesa aveva passato a Córdoba, come novizio tra il 1958 e il 1960, e poi come sacerdote tra il 1990 e il 1992.
In poco tempo la storia che avevo tra le mani è diventata più grande di me e allora sono ricorso al collega e amico Sebastián Pfaffen, testimone diretto a Roma — come inviato speciale di Canal 12 di Córdoba — dello storico conclave che ha eletto il primo Papa argentino e latinoamericano, la stessa persona che per alcuni anni aveva vissuto nella nostra città. Così, Sebastián è diventato coautore di questo libro, e abbiamo iniziato a scrivere la storia in prima persona plurale.
Nel dicembre 2013 abbiamo saputo che l’arcivescovo di Córdoba, monsignor Carlos Ñáñez, sarebbe andato in Vaticano per incontrare Francesco. È bastata una mail perché quel pastore, con una generosità e un affetto ammirevoli, dicesse al Pontefice che due giornalisti cordovesi stavano scrivendo un libro su di lui e sui suoi legami con quella provincia, la sua storia e la sua gente.
Alcuni giorni dopo, monsignor Ñáñez ha risposto al messaggio per avvisarci che il Santo Padre si era mostrato disponibile a collaborare e che gli aveva dato un foglietto con un indirizzo di posta elettronica al quale dovevamo inviare una sintesi di quello che stavamo facendo.
Lunedì 3 febbraio 2014, come ho già detto, con la semplicità di un papà che chiama un figlio per salutarlo, Papa Francesco ha chiamato a casa mia, modificando così il ritmo cardiaco di noi che lo stavamo ascoltando e le dimensioni di questo lavoro giornalistico.
Non c’è mai stata un’intervista formale con il Papa. Ma ci ha chiarito vari dubbi e ci ha regalato alcuni commenti e ricordi importantissimi su quanto avevamo esaminato e condiviso insieme. È stata un’esperienza indimenticabile, incredibile, inimmaginabile. C’è forse qualcuno che può dirsi “preparato” a parlare con il Papa o a sentirsi chiedere dal successore di san Pietro, il Servo dei Servi di Dio, l’uomo — per molti — più importante del mondo: «Quando vuoi che ti chiami?». Francesco sorprende sempre. E in questo libro lo ha fatto, per esempio, raccontando, tra le altre cose, come e quando ha conosciuto da vicino Perón ed Evita, e, già che c’era, chiarendo finalmente qual è stato il suo vero — e molto spesso manipolato — rapporto con il peronismo.
La storia che lega Bergoglio a Córdoba, i giorni che l’attuale Papa Francesco ha trascorso in questa città e in questa provincia, prima come novizio gesuita e poi come sacerdote dell’ordine ignaziano, sono fondamentali per capire i suoi gesti come Pontefice e anche per comprendere la sua visione di Dio, della Chiesa, della vita, della storia, della politica e di se stesso. Qui, durante il suo noviziato, il giovane Bergoglio ha configurato la sua vita secondo la spiritualità ignaziana, quella che concede alle persone di fede una radicale dedizione al Vangelo di Gesù e una cosmo-visione del mondo — e degli accadimenti propri e altrui — che non si può incasellare nelle categorie mondane di destra o di sinistra, di ortodossia o di eterodossia, di conservatorismo o di progressismo. Bergoglio, Papa Francesco, vive e invita a vivere secondo il discernimento spirituale che compie ogni giorno nella preghiera, parlando con Dio, con Gesù, con la Vergine Maria, e chiedendo l’intercessione di san Giuseppe, il suo patrono preferito.
Tutto ciò che ha avuto e tuttora ha in mano, nella sua vita, in relazione con il potere, con l’autorità, con i rapporti interpersonali, lo ha passato al vaglio del suo disciplinato discernimento spirituale. Un discernimento che vuole che tutto ciò che viene da Dio, ossia ciò che è buono, vero e bello, deve necessariamente rispondere al cammino di Gesù incarnato. Che cosa significa? Che per l’uomo che oggi guida la Chiesa le cose sono di Dio quando imitano il cammino di Gesù: il cammino dell’umiltà, del servizio agli altri, dell’abbassarsi, dell’umiliazione e della croce.
Nel suo secondo soggiorno a Córdoba, esiliato, messo a tacere e silenzioso, scartato perché diventato un sassolino nelle scarpe altrui, Bergoglio ha accettato questo percorso evangelico di silenzio e umiliazione. È stato un tempo di “purificazione interiore”, dice, oggi, il Papa. Per opera e grazia della Provvidenza, in cui crede e spera, la pietra scartata è diventata con gli anni testata d’angolo, la pietra su cui lo stesso Gesù edifica la sua Chiesa.
Questa pietra angolare che oggi commuove il mondo è la stessa persona che nel 1958, quando faceva il noviziato nell’edificio che i gesuiti avevano nel quartiere Pueyrredón, pranzava in ginocchio, baciava i piedi dei suoi superiori, si lavava con acqua fredda in pieno inverno e stava anche un mese senza parlare — tranne che con il suo maestro — durante gli esercizi spirituali che tutti i giovani religiosi dovevano fare.
È lo stesso novizio che si è commosso fino alle lacrime quando ha scoperto che la moglie del malato in fin di vita che assisteva in una stanza dell’Hospital Córdoba lo tradiva con un medico, in un episodio che ricorda ancora come la scoperta della “piaga sociale dell’infedeltà”. Questo Papa che sta riformando la Curia vaticana è lo stesso ragazzo che recitava il rosario sotto l’araucaria che si erge ancora nel cortile del complesso di appartamenti che è stato costruito dove prima c’era il Noviziato, in calle Buchardo, al numero 1750. Quello che il sabato e la domenica mattina andava alla barranca del quartiere Pueyrredón in cerca dei bambini e delle bambine più umili per insegnare loro il catechismo, farli giocare e condividere con loro una tazza di mate caldo e un pezzo di pane.
Francesco è tutto questo. E molto di più. È l’uomo più importante del mondo che un giorno, dopo la prima comunicazione telefonica con uno degli autori di questo libro, quello stesso giorno in cui tutti i giornali del mondo parlavano della sua agenda e della conferma dei suoi incontri con il presidente degli Stati Uniti e con la regina d’Inghilterra, mi ha telefonato di nuovo per dirmi che si era dimenticato di menzionare una persona “importante” della sua storia cordovese; Cirilo Rodríguez, il fratello portinaio, che cinquantasei anni prima gli aveva aperto la porta del Noviziato del quartiere Pueyrredón.
Per tutto questo, la tesi del libro è che non esisterebbe Papa Francesco così come lo conosciamo oggi senza quei due intensi anni di formazione gesuita nel noviziato cordovese e senza i due anni successivi di “purificazione interiore” passati da padre Jorge Bergoglio nella Residencia Mayor della Compagnia di Gesù.
Non si tratta di sminuire la configurazione vitale che gli hanno impresso la sua vita familiare di bambino e di adolescente, le sue esperienze pastorali, di docenza e di governo al di fuori di Córdoba. E ancora meno il suo evidente essere porteño. Ma si tratta di affermare che quei soggiorni continentali sono stati momenti “cardine” nella vita di colui che oggi è il sommo Pastore della Chiesa. In queste pagine cerchiamo di raccontare tutto ciò. E lui, il Papa, lo sa. E approva. Quando gli abbiamo chiesto che cosa avevano significato per la sua vita religiosa i sue due lunghi soggiorni in questa città, i suoi anni di formazione, le sue visite di passaggio, le opere e le azioni che aveva compiuto qui come provinciale della Compagnia, ha risposto con convinzione: «I miei anni a Córdoba hanno determinato, in qualche modo, una solidità spirituale. Perché, prima quando ero novizio e poi quei due anni in cui sono stato lì come sacerdote, tra il 1990 e il 1992, che sono stati come una notte, con una certa oscurità interiore, mi hanno anche permesso di svolgere il mio lavoro apostolico e mi hanno aiutato a consolidarmi come pastore».
L'Osservatore Romano

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L'Osservatore Romano
In occasione dei 78 anni di Papa Francesco, mercoledì 17 dicembre, riproponiamo un testo di Jorge Mario Bergoglio, pubblicato sull'Osservatore Romano il 24 dicembre 2013.
(Giovanni Maria Vian) Più volte Papa Francesco ha parlato con efficacia dell’importanza del battesimo, chiedendo ai fedeli se si ricordano la data di quando sono diventati cristiani. E in Jorge Mario Bergoglio la memoria di chi il 25 dicembre 1936 lo ha battezzato — il salesiano di origine italiana Enrique Pozzoli — è sempre vivida, legata com’è alla storia della sua vocazione. Consegnata in sei fitte pagine battute personalmente a macchina il 20 ottobre 1990, la rievocazione è stata scritta a Córdoba dal gesuita per tenere fede a una promessa fatta al salesiano Cayetano Bruno, lo storico della Chiesa in Argentina. Era il ventinovesimo anniversario della morte di Pozzoli e quella mattina, dopo aver celebrato messa per lui, padre Bergoglio si mise a scrivere di getto la lunga lettera.