mercoledì 4 febbraio 2015

La non violenza che salverà il mondo



Occasione favorevole per tutti.

Oasis. Anticipiamo parte dell’articolo del rettore dell’Universidad Eclesiastica San Dámaso di Madrid e membro della Commissione teologica internazionale che uscirà a metà febbraio sul nuovo numero di «Oasis», rivista semestrale in tre lingue. Nella sezione attualità, con un articolo dal titolo «Il no cristiano alla sacra violenza: un kairòs per tutti?», si spiega perché il ripudio della violenza compiuto dal cristianesimo costituisce un’opportunità per tutti, anche per l’islam.


*

(Javier María Prades López) Il complesso rapporto fra monoteismo e violenza è stato oggetto di studio da parte della Commissione teologica internazionale. Nel recente documento Dio Trinità, unità degli uomini. Il monoteismo cristiano contro la violenza la Commissione offre un’esposizione articolata degli sviluppi recenti del tema nella coscienza teologica cattolica. Non si può negare che lungo la storia religiosa dell’uomo vi siano stati momenti d’incoerenza, d’infedeltà, oppure di strumentalizzazione della religione per scopi estranei a essa. Non si può negare che questo abuso abbia un peso reale nella comprensione del problema, rendendo più facile l’immagine oggi propagata di una violenza di matrice religiosa che va sradicata e superata.
La religione può essere strumentalizzata per la violenza politica e di fatto lo è stata. Ma la violenza politica della secolarizzazione e dell’ateismo non risulta meno devastante, a un’analisi storica imparziale. La storia dei conflitti di radice religiosa ha favorito il pregiudizio per cui le religioni, specialmente le monoteistiche, sarebbero per loro natura un fattore di divisione tra gli uomini. La conseguenza “logica” di tale ragionamento sarebbe che per porre fine alle violenze e garantire la pace universale, ci sarebbe un’unica soluzione: la secolarizzazione della società. Quest’argomentazione è una delle forme che assume oggi il pensiero antireligioso in Occidente. Non si combatte tanto formalmente Dio quanto la religione e l’uomo religioso. La fede è denunciata in questa mentalità come una patologia sociale.
Sono soltanto le religioni monoteistiche a offrirci lo spettacolo delle persecuzioni religiose, nonché dei processi agli eretici e della distruzione delle immagini degli dèi stranieri.
Senza entrare nei dettagli, il documento della Commissione richiama l’attenzione sul fatto che una simile idea di verità riflette il pregiudizio razionalistico della sua separazione dalla coscienza e dalla libertà dell’uomo. È stato il razionalismo a introdurre l’idea di una concezione della verità separata dalla responsabilità della sua accoglienza. Il “deismo” è un esempio di monoteismo “razionale” che ha respinto la rivelazione cristiana in quanto portatrice di un legame fra  la comunicazione personale di Dio e la personale accoglienza della fede.
Negli ultimi decenni questo pregiudizio riguardo al monoteismo viene accompagnato dalla proposta di considerare il “politeismo” religioso come più adatto al pluralismo e alla tolleranza propria della moderna società civile. Quando oggi si abbina il politeismo al pluralismo della tolleranza, si trascura il fatto che, nell’attuale regime di esaltazione del sé individuale  e di gruppo, la pacifica convivenza degli idoli appare improbabile. La fede cristiana afferma che la violenza “in nome di Dio” è una vera deviazione dottrinale. Il rifiuto della violenza religiosa è determinato dalla contemplazione di Gesù Cristo nella sua Passione, che «oltraggiato non rispondeva con oltraggi, e soffrendo non minacciava vendetta, ma rimetteva la sua causa a colui che giudica con giustizia». Cristo prende su di sé come vittima la violenza degli uomini, compresa la violenza religiosa, e la distrugge alla sua radice con la potenza dell’amore. La violenza non si giustifica né per vendicare i diritti di Dio né per salvare gli uomini loro malgrado. È questo il paradosso del cristianesimo: il rispetto della libertà religiosa non è motivato da una forma di relativismo, ma deriva da ciò che vi è di più “dogmatico” nell’idea che la fede cristiana offre di Dio.
Mediante un’argomentazione biblica e teologica, il documento mostra infatti che è Dio Padre stesso a liberarci dalla violenza, attraverso la libera consegna del suo Figlio incarnato, nello Spirito Santo. In effetti, nella sua obbedienza al Padre, il Figlio incarnato ha liberamente accettato di essere colpito dalla violenza degli uomini; ha preso questa violenza su di sé, nel senso che ha patito nella sua stessa persona la violenza umana per vincerla: a tale violenza ha risposto con il perdono del suo amore redentore. Troviamo qui un’affermazione assolutamente specifica del monoteismo cristiano: Uno della Trinità ha volontariamente accettato di soffrire al fine di liberarci dal peccato e dalla sofferenza che esso genera, specie il peccato che consiste in un agire ingiusto e violento.
Questa rottura radicale del circolo della violenza implica tre conseguenze. Innanzitutto, i cristiani sono chiamati a seguire l’esempio del loro Maestro, adottando un comportamento non violento animato dal perdono. In secondo luogo, il perdono porta in sé la speranza di partecipare alla risurrezione gloriosa di Cristo: nello Spirito Santo la vocazione della nostra carne umana è nientemeno che quella di essere associata alla pienezza di vita della Trinità. In terzo luogo, la Chiesa ha la missione di operare a favore della riconciliazione di tutti gli uomini.
Il documento dichiara che «oggi ci troviamo di fronte a “un vero kairòs dello Spirito”». E lo spiega in questo modo: «In questa fase storica, il cristianesimo è posto — ed esposto — come un punto di riferimento globale e inequivocabile per la denuncia della radicale contraddizione di una violenza fra gli uomini esercitata nel nome di Dio. In quanto tale, è chiamato a purificare e a rinvigorire il suo ministero di riconciliazione fra gli uomini: siano essi religiosi o anche non-religiosi. Ciò comporta verosimilmente alcune priorità d’impegno, riflessivo e pratico». Il documento considera inoltre che questo kairòs implica una «svolta epocale nell’odierno universo globalizzato», che porterà grande frutto per la nuova stagione della testimonianza e dell’evangelizzazione.
Ai cristiani viene richiesto «l’umile riconoscimento delle molte resistenze, omissioni e contraddizioni. Per quanto riguarda il rapporto della Chiesa con le religioni e le culture, si sottolinea che il «congedo della Chiesa dalla violenza religiosa ha la forza di un seme destinato a produrre speciali frutti nella nostra epoca». Si dovrà «elaborare con la massima determinazione anche la critica della violenza anti-religiosa in quanto esistono anche eccessi distruttivi della ragione secolarizzata, economica e politica, che i poteri del dominio finanziario e la potenza della tecnocrazia mediatica possono rendere devastanti». In questo kairòs si deve proclamare pubblicamente e difendere ovunque la condizione particolarmente umiliata dei cristiani perseguitati fino al martirio: «Noi siamo in debito di riconoscenza verso molti fratelli e sorelle perseguitati per la loro appartenenza cristiana. Noi onoriamo la loro testimonianza come la risposta decisiva alla domanda sul senso della missione cristiana in favore di tutti».
Riconoscendo le tensioni e le incoerenze della storia cristiana, siamo arrivati oggi alla soglia del superamento della possibile confusione fra il valore della testimonianza e il dominio di un potere che induca alla violenza in nome di Dio. Non pochi autorevoli studiosi hanno documentato come la nuova fede cristologica sia da ritenere — insieme alla filosofia in Grecia, alla pratica giuridica di Roma e alla fede di Israele — una delle radici di ciò che si chiama cultura occidentale. Secondo il documento, la rottura con la violenza trova una delle sue espressioni più alte nell’accettazione libera della morte, a imitazione per grazia di Gesù, nel gesto martiriale. Sembra dunque che la testimonianza martiriale esemplifichi nel più alto dei modi la consapevolezza evangelica del divieto di usare la violenza in nome di Dio.
Uno degli episodi che ha lasciato più segno nell’opinione pubblica, occidentale ma non solo, è stato l’assassinio di sette monaci cistercensi del monastero di Thibirine (Algeria) nel 1996. L’impatto sulla coscienza cristiana di questo fatto è stato molto profondo. Da Papa Giovanni Paolo II fino alle comunità cristiane in tutto il mondo, moltissimi hanno accolto con ammirazione e rispetto il gesto di libera permanenza nel monastero fino ad assumere la conseguenza della morte violenta.
Monsignor Henri Antoine Marie Teissier, allora arcivescovo di Algeri, ha raccolto in un suo volume alcune testimonianze che ci insegnano due cose: da una parte il sincero orrore di persone di fede musulmana davanti ai crimini commessi contro religiosi e religiose, contro semplici cristiani che erano in ottimi rapporti con i loro vicini musulmani e venivano uccisi in nome di un’ideologia politico-religiosa. In secondo luogo, la consapevolezza matura che «oggi le tradizioni religiose in generale — e cristianesimo e islam in particolare — dovrebbero impegnarsi di più a favore della pace. È diventato inaccettabile per la maggioranza dei credenti sinceri che si possa invocare Dio per giustificare una guerra o un’aggressione contro un altro gruppo umano».
Non sembra azzardato suggerire che l’idea di un kairòs favorevole per la definitiva separazione fra religione e violenza possa anche maturare in altre tradizioni religiose. Non mancano esempi di persone o gruppi islamici che denunciano pubblicamente come inaccettabili gli atti di violenza subiti da parte dei cristiani, anche quando vengono commessi “in nome di Dio”.
L'Osservatore Romano