martedì 7 marzo 2017

Carissime donne...

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di don Antonello Iapicca
Carissime donne che non riuscite a comprendere le ragioni della Chiesa e le parole dei suoi figli e ministri e pensate che siano solo un perverso sofisma per tenervi in pugno. Carissimi tutti che siete convinti in sicura buona fede che l’aborto sia un diritto inalienabile che protegge la vita e la dignità della donna. Carissimi anche voi che, pur affermando la sua drammaticità, restate persuasi che vi sono situazioni estreme nelle quali l’aborto sia comunque il male minore.
Vorrei chiedervi se conoscete una donna che ha abortito e non ne porti le ferite per tutta la vita. Io non ne conosco. Conosco invece donne che soffrono sino alla morte portando dentro un ricordo che le dilania, e che invece di stemperarsi, con il tempo si fa sempre più acuto. Donne che non possono vedere un bimbo dell’età che avrebbe avuto quello che hanno abortito, tanto è affilata la lama che ferisce il loro cuore.Sicuramente a noi preti e cristiani in genere, capita di spiegarci male, anche perché la fede di molti è così fragile da diventare sovente arrogante clericalismo che carica gli altri di pesi che noi ci rifiutiamo, nel segreto, di portare; sicuramente troppo spesso dimentichiamo che l’agire segue sempre l’essere e parliamo come se fosse vero il contrario, privilegiando la morale sull’annuncio fondamentale della Buona Notizia dell’amore infinito di Dio per ogni uomo, anche e soprattutto per il più debole; sicuramente la Chiesa Cattolica non sa fare marketing, e a volte scivola nel pensiero politicamente corretto presentandosi come una onlus sociale che non è; sicuramente i peccati e le ipocrisie di molti di noi scandalizzano chi ci ascolta facendoli inciampare sui nostri gesti che rendono insopportabili le nostre parole diventate cembali che tintinnano; sicuramente ci preoccupiamo e pensiamo molto “alla caduta dell’uomo in generale, all’allontanamento di molti da Cristo, alla deriva verso un secolarismo senza Dio” dimenticando di “pensare anche a quanto Cristo debba soffrire nella sua stessa Chiesa”. Sicuramente passiamo sopra con autoindulgenza alle troppe “volte che celebriamo soltanto noi stessi senza neanche renderci conto di Lui!”. E’ vero, “quanta sporcizia c’è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a lui! Quanta superbia, quanta autosufficienza!” (J Ratzinger). Lo riconosco, spesso per quanto mi riguarda è proprio così.
Ma tutto questo non cambia la realtà dolorosa e tragica dell’aborto. L’ipocrisia che alberga in alcuni membri della Chiesa (anche se, detto con sincerità, quella che conosco io è composta nella stragrande maggioranza di poveri santi peccatori) non può offrire il destro per accettare e legittimare l’aborto come un diritto legato alla libera disposizione del proprio corpo. No, questa è ideologia che non ha nulla a che fare con il dramma delle donne (e molte volte degli uomini che sono loro accanto). Di più, è un’offesa alla loro dignità, uno stupro beffardo che le violenta nella mente e nel cuore, frantumando l’altissima dignità del loro corpo, ridotto a una macchina di piacere a comando. Questa ideologia assassina non ha orecchi per ascoltare, perché incarna la menzogna di colui che non ha perseverato nella verità. Questa ideologia non coincide con le persone, è solo l’abito inadeguato che ne deturpa la bellezza originaria. Questa ideologia va denunciata e smascherata per quello che è, altrimenti neanche l’uomo più santo che annunciasse le parole di misericordia più dolci potrebbe arrivare al cuore di chi ne è schiavo.
Un amico che dicesse al suo amico che sente tossire continuamente di non preoccuparsi, che non è niente e passerà, vuole davvero il bene dell’altro? O quando un marito che sbaglia è convinto del contrario, e con il suo atteggiamento compromette la crescita dei figli, la moglie può restarsene zitta,  o addirittura incoraggiarlo a perseverare nel suo atteggiamento? Facendo così lo amerà davvero? E se invece gli dicesse che picchiare continuamente con ira i figli non è buono, che c’è un’altra possibilità ed è quella di farsi aiutare per guarire alla fonte la sua debolezza, sarà per questo tacciabile di ipocrisia e insensibilità? Vorrà per questo privare suo marito di un suo diritto inalienabile? Ecco, il problema che la Chiesa e i cristiani incontrano non è l’aborto, che è cosa di persone concrete, ma l’ideologia perversa che vorrebbe strappare dal cuore delle madri perfino il dolore per l’aborto compiuto, diluendolo nella menzogna dei diritti e dell’autodeterminazione. Bugia che però si rivela sempre per quello che è, perché nessuno come una donna sa nel suo intimo che non esiste persona che possa vivere autodeterminandosi. Proprio quando è incinta sperimenta infatti di dipendere da quella vita che le è apparsa nel grembo. E sa che amare è perdere la sua vita, il suo tempo, spesso la carriera e la realizzazione di molti sogni e progetti. Come lo sa qualsiasi persona che ami davvero chi le è accanto.
Ci sta eccome che questo amore sia difficile, a volte impossibile. Ci sta perché tutti siamo debolissimi, anche se nascondiamo la fragilità dietro le nostre presunte sicurezze. Mai la precarietà del cuore e della mente dell’uomo è stata un problema per la Chiesa. Mai neppure i peccati le hanno impedito di accogliere senza giudicare ogni uomo. Ne sono testimone, come lo è chi mi conosce per quello che sono. Solo la stessa barriera dell’ipocrisia che ha incontrato Gesù nel suo ministero terreno può impedire alla Chiesa di abbracciare una donna con il suo dramma, prima o dopo un aborto. Solo cioè l’ideologia che pretende di occultare e anestetizzare la verità più intima di ogni persona che è la sua estrema fragilità. Il nostro problema, dice il Signore, non è l’essere ciechi, ma l’aver creduto alla menzogna con cui il nemico ci ha convinto di non esserlo. Abbiamo sperimentato tutti il potere quasi assoluto del pensiero maligno infilato nella maschera di una logica solo apparente che ci seduce e accoglie nella sua fortezza inespugnabile. Tutti ci siamo illusi di cancellare il dolore e dimenticare la morte interiore conseguente ai nostri errori indossando la corazza dei criteri e delle certezze.
Carissime donne, carissimi uomini che vi sentite così feriti, insultati e disprezzati dalla Chiesa Cattolica, prima di pensare all’aborto, e all’eutanasia, e a ogni altro diritto che difendete e che vorreste non fossero insidiati dai cristiani, vi invito a scrutare sino in fondo il vostro cuore. E di spingervi sino a quel suo recesso dove ciascuno è se stesso, al di là di ciò che i condizionamenti culturali e sociali vi hanno fatto diventare. Vi invito ad entrare nella cella più intima che, lo so per esperienza, ci spaventa terribilmente. La famosa parabola del figlio prodigo che di sicuro conoscete, dice che ad un certo punto, dopo aver dilapidato l’eredità, scontrandosi con la fame e l’impossibilità di saziarla, quel giovane “rientrò in se stesso”. Ecco, la buona notizia che desidero annunciare a tutti voi è che esiste un “se stesso” inviolabile a qualunque condizionamento, anche a quello della propria storia e degli errori personali e quelli subiti dagli altri. Un “se stesso” che appartiene anche al figlio del più efferato mafioso, cresciuto a pane e lupara. Anche a chi ha subito violenze di ogni tipo, e ha sofferto ingiustizie inenarrabili. Se non fosse vero dovremmo affermare che per alcuni, o più probabilmente per molti di noi, non c’è proprio speranza. E invece no, in tutti esiste un luogo immacolato dove ci possiamo conoscere davvero. Dove una madre che ha in cuore di abortire può ascoltare il grido vergine e sincero che sorge da quell’anfratto incontaminato, l’unico posto dove può decidere nella libertà totale e incondizionata. Per un momento, lasciate fuori gli altri, le parole e i concetti, le esperienze e le certezze, e incontratevi faccia a faccia con la parte più autentica di voi stessi.
Io l’ho fatto, e continuo a farlo, e vi assicuro che non è una bella sensazione scoprire che nell’intimo desidero e spero ben altro di ciò per cui mi impegno, combatto e affatico. Non è bello andare al di là dell’intercapedine che mi isola dalla verità inscritta nel mio cuore, e accorgermi della schizofrenia alla quale mi costringe la morsa suadente del pensiero mondano. Fa soffrire vedere disintegrarsi certezze acquisite e difese con i denti. E’ doloroso, ma è necessario, altrimenti la mia persona resterebbe dipendente dai condizionamenti esterni che mi strappano a ciò che mi costituisce e mi dà dignità e identità. Occorre infatti scoprire che, anche se l’altro e i fatti della storia di ciascuno feriscono, la sofferenza più crudele non mi viene da fuori, ma da dentro. Che tutti soffriamo perché la vita che conduciamo, pur abbellita da splendidi ideali e spesa con onesti sforzi onesti per raggiungerli, a volte o spesso, non è adeguata a ciò che reclama il nostro intimo più nascosto. Soprattutto e fondamentalmente per questo l’aborto è un dramma, oltre ovviamente alla soppressione di una vita innocente.
Perché se una donna, anche quando fosse certa del fatto che quello che ha in grembo non è una persona ma solo un grumo di cellule non definite, potesse scendere fin dentro le profondità del suo cuore, scoprirebbe che quella vita non vorrebbe o non avrebbe voluto sopprimerla per nessuna ragione al mondo. Se potesse cioè superare l’angoscia e il dolore per essere stata violentata, o perché gli anticoncezionali hanno fatto cilecca, o per la disattenzione, o perché quel bambino è gravemente malato o perché non ci sono i soldi, o perché aveva altri progetti per la propria vita; se cioè una donna accerchiata da problemi gravi e senza soluzione potesse, anche per un breve momento, scendere nel fondo di se stessa, incontrerebbe il suo desiderio più autentico scontrarsi con la propria totale debolezza. Ecco, è lì che potrebbe decidere davvero libera. E’ lì che potrebbe scegliere se affidarsi all’ideologia, alla cultura, ai criteri che aveva lasciato fuori e la stavano spingendo verso una soluzione che contrasta drammaticamente con il suo desiderio più autentico, o chiedere aiuto, non importa a chi, (io direi a quanti nella Chiesa hanno esperienza di questo), ma di certo a qualcuno che può proteggere e portare a compimento quello che vuole la parte incontaminata del suo cuore.
Non so come, ma per il fatto che sono qui a scrivere so che a me è andata come nella seconda ipotesi. Non conosco la mia madre naturale che alla nascita mi ha lasciato in custodia ad un orfanotrofio. Ad un anno poi sono stato adottato da due genitori meravigliosi (oggi ricorre il sedicesimo anniversario della nascita al Cielo di mio padre, e non credo sia una coincidenza), che mi hanno potuto accogliere perché la donna che mi aveva portato in grembo, mia madre nella carne, magari anche perché a quel tempo non c’era la legge 194 (e io sono un testimonial vivente del “meno male che non c’era”), ma anche e soprattutto perché, nella sua debolezza, ha dato ascolto al flebile grido che saliva dal suo cuore, e si è fatta aiutare dallo Stato e da persone che le hanno permesso di affidare suo figlio a una struttura che si è presa cura di lui. Non posso dire di non aver sofferto il trauma dell’abbandono. Come, ne sono certo, ha sofferto anche lei.
Ma tutti e due ci siamo potuti appoggiare a un fatto incontrovertibile, lo stesso piantato nella sua vita e nella mia come un memoriale indelebile: il fatto che io sia nato e sia vivo. Sono persuaso che, pur nell’angoscia dei ricordi e nel dolore di non sapere nulla di quel figlio che aveva dato alla luce, mia madre si è potuta aggrappare a quel brandello di libertà che ha riscattato la sua debolezza di fronte a una nuova vita, rivestendola con lo splendore della verità fatta carne in colui che, comunque, era, è e sarà suo figlio. La sua scelta, quel briciolo di se stessa incontaminato che mi ha permesso di nascere, e conoscere prima i miei genitori, e attraverso la gratuità del loro amore quello incorruttibile di Dio, e poi Gesù Cristo e la sua vittoria sul male e la morte nella Chiesa dove mi avevano condotto, è stato anche per me un segno di speranza nelle notti più buie.
Carissime donne, carissimi uomini che siete chiamati ad essere al loro fianco, non abbiate paura di essere quello che siete. Non temete di scoprirvi deboli e inadeguati. Non vi spaventate della verità, perché solo essa può farci liberi davvero. E se la verità definisce i nostri errori, le scelte ispirate da certezze e desideri contrari a ciò che intesse l’intimo di ogni cuore, sappiate che essa, soprattutto e prima di tutto, rivela un amore che abbraccia nella misericordia ogni persona, così com’è. L’amore infinito di Dio. Solo nella nuda realtà potremo tutti sperimentare e accettare che da soli non ce la facciamo ad essere quello per cui siamo nati e che vorremmo essere. Che è follia pensare di autodeterminarci ad essere felici. Perché la felicità è l’unico autentico diritto di ciascuno, ma consiste nel poter amare oltre la barriera della sofferenza che esso suppone, se autentico e non confuso con la passione e il piacere della genitalità. E per amare così, nel dono totale di se stesso che, paradossalmente, colma e sazia mentre ci si perde, è necessario sperimentare che questo amore esiste. Occorre cioè essere amati così come siamo, deboli e inermi dinanzi al male che ci seduce travestendosi di bene. Perché se non abbiamo dentro un amore sovrabbondante sapremo amare solo a intermittenza, quando il semaforo si faccia verde per passare indenni da sofferenza e sacrificio.
Ma questo amore esiste carissimi, è quello apparso in Gesù Cristo. Guardate alla Croce, fissate su di essa Colui che si è consegnato senza riserve a ciascuno di noi, così come siamo realmente. Nella verità. E lasciatevi abbracciare e colmare del suo amore, infinito come la vita che è pronto a donarci. Accoglietela, è gratuita, e in essa ogni donna e ogni uomo potrà consegnare per amore la propria vita, e dare alla luce quella che, comunque sia andata, qualunque malattia porti dentro, anche in una grande sofferenza, è deposta nel grembo benedetto di ogni madre.