sabato 4 marzo 2017

I Domenica di Quaresima, Anno A — 5 Marzo 2017. Ambientale, lectio e commento al Vangelo



Nella prima Domenica di Quaresima, la liturgia della Parola ci propone il Libro della Genesi, che racconta il peccato originale di Adamo ed Eva, e il Vangelo in cui Gesù vince le tentazioni del diavolo nel deserto. Il Signore dice: 
«Vàttene, satana! Sta scritto infatti: “Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto”».
Attraverso le letture di questa prima domenica di Quaresima, Dio rivela la nostra situazione esistenziale: dalla ribellione di Adamo ed Eva ogni persona umana sperimenta la morte interiore, la perdita della capacità di amare e la condizione di solitudine ed insoddisfazione derivante dall’egoismo compulsivo che ci domina. Allo stesso modo ci viene annunciato che Gesù Cristo è venuto a difenderci, combattendo contro l’autore della nostra schiavitù, vincendo ogni sua tentazione e offrendoci il riscatto, la natura divina che s’innesta nella nostra. Tutto ciò si compie in modo straordinariamente efficace in questo tempo quaresimale, un’occasione per rigenerare la forza spirituale, una “beauty farm” dell’anima, per rinvigorire il dono di noi stessi. Accogliendo il perdono di Dio nel Sacramento della Confessione, imbracciando le armi luminose del digiuno, della preghiera e dell’elemosina, dal nostro volto spariranno le rughe del peccato, le macchie della superbia e del rancore. I germogli della primavera sono un pallido riflesso e insieme una silenziosa promessa della fioritura di grazie e virtù che lo Spirito Santo vuole elargire nel cuore di chi si mette in cammino con tutta la Chiesa verso la Pasqua, nella sicura speranza di risorgere con Cristo a vita nuova. Che grande grazia ci sta facendo il Signore! (Sanfilippo)
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Commento al Vangelo

Inizia la Quaresima, tempo forte e favorevole per allenarci a vivere. I quaranta giorni che ci attendono, infatti, sono immagine della vita terrena, mentre i cinquanta del tempo Pasquale lo sono di quella celeste.
Per giungere al Cielo occorre vivere bene sulla terra. Ma che significa vivere bene? significa vivere autenticamente, essendo quello che siamo. Al contrario, vivere male significa vivere ipocritamente, essendo quello che non siamo.
Già, ma chi siamo? Molti sono convinti di conoscersi ma non è così. Per diradare la brina della menzogna e la nebbia dell’illusione è necessario andare in un luogo “asciutto”, tanto secco da non esserci acqua.
Il deserto, ecco il posto adatto. È qui che questa domenica la chiesa ci conduce con amore, per riportarci alla realtà nella quale viviamo. É nostra madre e ci conosce perché è l’unica ad avere un’ antropologia autentica, quella rivelata da Dio.
Questa ci dice che l’ uomo vive nel deserto perché ha perduto il Paradiso. Insinuando nel cuore il dubbio sull’ amore di Dio, il serpente ha ingannato Adamo ed Eva spingendoli a cercare se stessi e la propria realizzazione tagliando con Lui.
Cedendo all’orgoglio sollecitato dalla menzogna del demonio si sono ribellati a Dio credendo così di autodeterminarsi. Ma non erano diventati come Lui, anzi. Tagliando con la fonte della vita hanno invece sperimentato la morte. E si sono accorti di essere nudi, il segno che avevano perduto la propria identità.
Per questo si sono nascosti, stretti dalla paura. Erano precipitati nell’assurdo che capovolge l’esistenza di ogni uomo: avevano paura di Dio e del suo amore. Ma così non si può vivere.
Ecco, scacciati dal Paradiso erano finiti in un “deserto”. Non sapevano più chi fossero, condannati a faticare e sudare nell’illusione di poter “trasformare le pietre in pane”; obbligati dall’incapacità di accettare la realtà di dolore e sacrificio, a cercare “pinnacoli” da cui gettarsi, qualcosa di straordinario che cambi la storia; “prostrati” davanti al demonio perché schiavi delle concupiscenze che cercano negli idoli del mondo la sazietà.
È la nostra vita di ogni giorno, un deserto inospitale. E quella voce maligna che continua a sibilare quel “se” che ci infilza il cuore: “Se sei figlio di Dio”. È proprio qui, nel deserto, che l’avversario continua a tentarci. D’altronde è il suo territorio, lontano da Dio, senza vita.
E non c’è nulla da fare, continuiamo a soccombere. Non possiamo resistergli, “se” vivessimo da figli di Dio non staremmo qui ma a casa di nostro Padre. Nel deserto vivono i figli di questo mondo, schiavi del peccato e, per questo, incapaci di amare oltre la carne.
Si, perché se non è per amore, non si può pazientare e rispettare l’altro. Le “pietre” devono diventare pane, anche il cuore della moglie che è adirato e non ne vuole sapere di donarsi. Anche il carattere del figlio indurito dallo sforzo di crescere. Anche la testa del capo ufficio che ce l’ha con noi e non ci vuol dare queste ferie che ci spettano.
Tutto deve saziarci, subito. La storia che non ci soddisfa non può restare com’è,  deve cambiare. Per questo ci issiamo sui “pinnacoli” sperando che, facendo qualcosa di speciale, gli altri si accorgano di noi, cosi da imprimere finalmente una svolta in famiglia, al lavoro, a scuola. Quanti ragazzi si deturpano il corpo e si spingono al limite con alcool e droghe, pur di sfuggire alla monotonia.
Non viviamo come figli di Dio, e per questo ci prostriamo al nostro patrigno, il demonio, che, in cambio di piaceri effimeri che sfuggono in un baleno senza saziarci, ci obbliga a servirlo nelle malvagità. I giudizi, le gelosie, i rancori, la lussuria e l’avarizia sono i liquami che sboccano da un cuore ridotto a cloaca perché inquinato dalla menzogna.
Ebbene proprio qui, in questo deserto nel quale abbiamo smesso d’essere quello che siamo, è sceso Gesù. E scende ancora, oggi e in questa Quaresima. Lui è Figlio, non ha mai smarrito la sua identità, neanche sulla Croce e nella tomba. Per questo è risorto e viene a consegnarci di nuovo la dignità e la natura di figli che abbiamo perduto.  
Abbiamo bisogno di Cristo, che ci doni di partecipare alla sua vittoria sul peccato. Solo così potremo attraversare questa vita come un esodo verso la terra promessa. La quaresima ci aiuta proprio a convertirci, a lasciare il peccato per unirci a Cristo, attraverso le armi che ci offre la Chiesa, digiuno, preghiera ed elemosina.
Così le insinuazioni del demonio non saranno più comandi a cui dover obbedire, ma torneranno ad essere “tentazioni”, ovvero le “prove” attraverso le quali saremo purificati, perché risplenda in noi l’immagine e la somiglianza con il Padre.
Affrontate con Cristo, le tentazioni ci dischiudono di nuovo le porte del Paradiso. Sono come i metal detector degli aeroporti. Se in noi è vivo Cristo potremo passare senza che scatti alcun allarme; nessuna arma impropria come l’orgoglio sarà nascosta nel cuore.
Al contrario, la natura divina plasmata in noi dallo Spirito Santo ci farà combattere e resistere. Per questo, “se siamo figli di Dio”, il peccato e la morte non hanno più potere su di noi. Potremo amare senza esigere nulla da nessuno, “vivendo” in pienezza anche nel deserto, saziandoci “di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”.
Non avremo bisogno di piegare gli eventi alle nostre voglie, perché un figlio “non tenta” suo Padre, ma lo conosce e obbedisce alla sua volontà, che ha sperimentato come l’unica buona per lui. E saremo finalmente liberi di vivere senza lacci agli idoli di questo mondo, “servendo e adorando solo Dio”, perché Lui ha cura di noi, ci ama e provvede per i suoi figli sempre e solo il meglio.

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Mons. Francesco Follo
Lectio divina delle Letture della I Domenica di Quaresima – Anno A – 5 marzo 2017


I Domenica di Quaresima – Anno A – 5 marzo 2017
Rito Romano
Gen 2,7-9; 3,1-7; Sal 50; Rm 5,12-19; Mt 4,1-11
Rito Ambrosiano
Premessa:
            All’inizio della Quaresima il Sacerdote impone le Ceneri a quanti si recano alla Messa. Questo rito delle Ceneri messe sul capo o sulla fronte dei fedeli ha un triplice significato. Il primo ricorda la fragilità e debolezza dell’uomo, plasmato dalla polvere del suolo. Il secondo indica che la cenere sulla fronte o sul capo del cristiano è anche il segno esterno di chi si pente del proprio agire cattivo e decide di compiere un rinnovato cammino verso il Signore. Il terzo indica che la nostra povera persona è il frutto di un Incontro cocente. Il cristiano è colui che, passato nel fuoco ardente dell’Amore del Salvatore, è sì cenere, ma è una cenere che purifica e feconda il mondo, una cenere che sprigiona il calore del Creatore.
La Quaresima, dunque, non è soltanto dolore per i propri peccati, non è solo sforzo ascetico per affinare le facoltà dell’anima, ma è la rinnovata scoperta che “gratuitamente abbiamo ricevuto e gratuitamente doniamo”.
“La Quaresima ci aiuta in modo singolare a capire che la vita è redenta in Cristo. Per mezzo dello Spirito Santo, Gesù rinnova la nostra vita e ci rende partecipi di quella stessa vita divina che ci introduce nell’intimità di Dio e ci fa sperimentare il suo amore per noi” (San Giovanni Paolo II).
La Quaresima è una strada che conduce verso una meta sicura: la Pasqua di Risurrezione, la vittoria di Cristo sulla morte.
La Quaresima è anche “tempo di misericordia che ci rivolge un forte invito alla conversione: il cristiano è chiamato a tornare a Dio ‘con tutto il cuore’ (Gl 2,12), per non accontentarsi di una vita mediocre, ma crescere nell’amicizia con il Signore. Gesù è l’amico fedele che non ci abbandona mai, perché, anche quando pecchiamo, attende con pazienza il nostro ritorno a Lui e, con questa attesa, manifesta la sua volontà di perdono” (Papa Francesco, Messaggio per la Quaresima 2017).
            1) Dalla misericordia alla misericordia.
E’ importante ricordare che la perfezione del nostro essere cristiani non si compie se diciamo “abbiamo abbandonato tutto”, ma se diciamo a Cristo: “Abbiamo abbandonato tutto e abbiamo seguito Te”.  La Chiesa ci educa a questa sequela facendoci passare ogni anno attraverso il Mercoledì delle Ceneri, la Quaresima e la Settimana Santa. In questo cammino i nostro cuori sono purificati e così la gioia di Pasqua appare non a persone accecate dalle incrostazioni del  peccato ma a persone aperte a Lui, nostra vita, che possiamo vedere perché “i puri di cuore vedono Dio” (Mt 5,8).
Gli antichi ebrei uscirono dalla schiavitù dell’Egitto e impiegarono quarant’anni per arrivare alla Terra Promessa, noi –ogni anno- progrediamo nel cammino quaresimale, perché il vincere noi stessi consista nel lasciare l’Egitto del nostro peccato per vivere unicamente nell’amore di Cristo e per Cristo. Aiutati  dal digiuno, dalla preghiera e dall’elemosina durante la Quaresima facciamo particolare esperienza del misericordia divina che “cancella, lava e monda” (Sal 50, 3-4) noi peccatori e ci trasforma in nuova creatura che ha spirito, lingua labbra, cuore trasfigurati (cfr. Id vv 14-19). E’ con cuore puro come quello dei bambini che nel tempo di Pasqua potremo capire e vivere l’antifona all’introito della Domenica della Misericordia: “Come bambini neonati, siate ragionevoli, bramate il latte spirituale che fa cresce verso la salvezza”. In questa domenica, che era prima chiamata domenica in Albis[1], è ora chiamata domenica della Misericordia[2]. Questo decise San Giovanni Paolo II ispirando a Santa Faustin Kowalska, che scrisse: “Anche se i nostri peccati fossero neri come la notte, la misericordia divina è più forte della nostra miseria. Occorre una cosa sola: che il peccato socchiuda almeno un poco la porta del proprio cuore… il resto lo farà Dio … Ogni cosa ha inizio nella misericordia di Dio e nella Sua misericordia finisce”.
1) La Quaresima: tempo di misericordia e cammino di conversione.
La Quaresima è la speciale Tempo di misericordia che dura quaranta giorni e la Chiesa di chiede di vivere come cammino spirituale di conversione per prepararci bene alla Pasqua. Si tratta in sostanza di seguire Gesù che si dirige decisamente verso la Croce, culmine della sua missione di salvezza e chiave che apre alla Risurrezione.
La Quaresima è strada di misericordia ricevuta e condivisa, non solo perché se si fanno le opere consigliate per questo periodo: preghiera, digiuno e elemosina, ma perché con queste opere ci radichiamo in Dio convertendoci a Lui con un cuore contrito e un corpo mortificato. In effetti, se è vero che il cuore di pietra dell’uomo a volere il male, è altrettanto vero che  spesso il corpo l’aiuta a commetterlo. D’altra parte, noi essere umani siamo composti dell’uno e dell’altro, e dobbiamo unire entrambi nell’omaggio che rendiamo a Dio. Il corpo avrà parte o alle gioie dell’eternità o ai tormenti dell’inferno. Non c’è, dunque, vita cristiana completa, e neppure valida espiazione, se nell’una e nell’altra il corpo non si associa all’anima.
Naturalmente va ricordato che il principio della vera penitenza sta nel cuore. Il Vangelo ci insegna ciò parlandoci del figliuol prodigo, della peccatrice, di Zaccheo il pubblicano e di san Pietro. Perciò bisogna che il cuore abbandoni per sempre il peccato, che se ne abbia un profondo dolore, che lo detesti e ne fugga le occasioni.
Per indicare questa disposizione del cuore la Bibbia usa una parola che è entrata nel linguaggio cristiano e che descrive molto bene lo stato della persona umana a sinceramente pentita per i suoi peccati: è la Conversione. Durante la Quaresima, siamo invitati ad esercitarci nella penitenza del cuore e considerarla come il fondamento essenziale di tutti gli atti caratteristici di questo santo tempo. Ma sarebbe sempre una conversione illusoria, se non aggiungesse l’omaggio del corpo ai sentimenti interni ch’essa ispira. Il Salvatore, sulla montagna non si accontenta di piangere sui nostri peccati: li espia con la sofferenza del proprio corpo; e la Chiesa, ch’è la sua infallibile interprete, ci ammonisce che non sarà accolta la penitenza del nostro cuore, se non l’uniremo all’esatta osservanza dell’astinenza e del digiuno.
2) Quaresima: pellegrinaggio verso e con Cristo, fonte di misericordia.
La Quaresima è il tempo privilegiato, con il quale la Chiesa ci conduce verso Colui che è la fonte della misericordia. E’ un pellegrinaggio in cui Lui stesso accompagna attraverso il deserto della nostra povertà, sostenendoci nel cammino verso la gioia viva della Pasqua. Ma questo cammino non è esente da prove, ed è per questo che la Liturgia della Prima Domenica di Pasqua ci fa meditare sulle tentazioni affrontate da Cristo nel deserto.
Come Mosè, come il popolo di Israele, anche Gesù trascorre un periodo nel deserto, per provare la sua fedeltà, per dare solide basi alla propria azione.
Ma mentre il popolo di Israele nel deserto non ha saputo resistere alla fatica e alla tentazione e più volte ha mancato di fedeltà a Dio, Gesù supera le tre tentazioni: quella del pane (Come parlare di Dio a chi ha abbondanza di tutto? Come parlare di Dio a chi sente la fame?), quella del prestigio (prestigio della scienza, del denaro, della condotta morale irreprensibile, della bella figura, del nome, dell’onore), quella del potere (là dove due persone si incontrano, sorge una relazione di potere).
Sono prove mascherate da una promessa che vuole staccare il Figlio dal Padre. Tre volte il diavolo dice a Gesù “Se sei figlio di Dio, fai…” e per tre volte Lui risponde: “Mio Padre”. Fedele all’amore del Padre Cristo resiste alle tre forme di un’unica tentazione quella di una vita costruita autonomamente come quella del primo Adamo (“Diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male …”) e una vita di confidenza e obbedienza a Dio, quella del secondo Adamo. Gesù qui dice: “Adora il Signore e a lui solo rendi culto”, e al Getsemani dirà: “Non la mia ma la tua volontà sia fatta” (Lc 22,42).
Imitiamo Gesù in questo amore al Padre e allora questo cammino diventerà un percorso di sequela a Lui, il Redentore. In questa sequela ci è di aiuto l’esempio di alcuni personaggi del Vangelo che San Gregorio  di Nazianzo descrive così:
“Se sei Simone di Cirene, prendi la croce e segui Cristo.
Se sei il ladro e se sarai appeso alla croce, se cioè sarai punito,
fai come il buon ladrone e riconosci onestamente Dio, che ti aspettava alla prova. 
Egli fu annoverato tra i malfattori per te e per il tuo peccato,
e tu diventa giusto per lui.
Se sei Giuseppe d’Arimatea, richiedi il corpo a colui che lo ha crocifisso,
assumi cioè quel corpo e rendi tua propria, così, l’espiazione del mondo.
Se sei Nicodemo, il notturno adoratore di Dio,
seppellisci il suo corpo e ungilo con gli unguenti di rito,
cioè circondalo del tuo culto e della tua adorazione.
E se tu sei una delle Marie, spargi al mattino le tue lacrime.
Fa’ di vedere per prima la pietra rovesciata,
vai incontro agli angeli, anzi allo stesso Gesù.

Ecco che cosa significa rendersi partecipi della Pasqua di Cristo, vivendo bene la Quaresima”.
Volendo continuare questo elenco con persone non presenti nel Vangelo, ma che vivono evangelicamente, mi permetto di aggiungere: “Se sei vergine consacrata, sii come una delle vergini prudenti che attendevano lo Sposo con abbondanza di olio (che indica fedeltà e la perseveranza), perché la lampada dell’amore non si spegnesse”. La vergine che si consacra al Redentore si mette con definitività sul cammino di conversione, cioè la costante unione con Cristo Sposo. Con la consacrazione l’appartenenza a Cristo, che era iniziata con il Battesimo, assume una fisionomia di assolutezza, di amore indiviso, perché il cuore della consacrata è ormai incapace di essere soddisfatto da qualsiasi altro amore. Cristo è il vero tesoro, nascosto, la perla preziosa per avere la quale chi l’ha trovata vende tutti i suoi averi e la compere (cfr. Mt 13, 44- 46). A Dio che le dice: “Non temere, perché ti ho riscattata, ti ho chiamata per nome: tu mi appartieni” (cfr Is 43, 1), la vergine consacrata dice: “Eccomi” e la sua vita diventa feconda come quella della Vergine Maria, Madre di Cristo e di tutta l’umanità.
Prima della Lettura Patristica propongo questa preghiera per la Quaresima
Rendimi, o Signore Dio mio,
obbediente senza ribellione
povero senza avvilimenti,
casto senza decadimento,
paziente senza mormorazione,
umile senza finzione,
allegro senza ilarità,
maturo senza pesantezza,
agile senza leggerezza,
timoroso di Te senza disperazione,
veritiero senza doppiezza,
operatore di bene senza presunzione,
capace di correggere il prossimo senza asprezza
e di edificarlo con la parola e con l’esempio,
senza ipocrisia.
(San Tommaso d’Aquino)
Lettura patristica
San Gregorio Magno (540 – 604)
Hom. 16, 1-6
Le tentazioni del Redentore
Non era indegno del nostro Redentore il voler essere tentato, lui che ;era venuto per essere ucciso. Era anzi giusto che vincesse le nostre tentazioni con le sue tentazioni, dato che era venuto a vincere la nostra morte con la sua morte. Ma dobbiamo sapere che la tentazione passa per tre stadi: la suggestione, la dilettazione e il consenso. Noi, quando siamo tentati, cadiamo per lo più nella dilettazione o addirittura nel consenso, perché siamo nati da una carne di peccato e portiamo in noi stessi ciò che ci muove tante battaglie. Ma Dio, che s’incarnò nel grembo della Vergine, venne nel mondo senza peccato e non provò in sè alcuna contraddizione. Egli poté dunque essere tentato per suggestione, ma l’anima sua non provò la compiacenza del peccato. Pertanto tutta quella tentazione diabolica fu all’esterno, non all’interno.
Ma se guardiamo l’ordine secondo cui fu tentato, capiremo quanto bene noi siamo stati liberati dalla tentazione. L’antico avversario si rivolse contro il primo Adamo, nostro padre, con tre tentazioni, poiché lo tentò di gola, di vanagloria e di avarizia; ma tentandolo lo vinse, perché lo sottomise a sé mediante il consenso. Lo tentò di gola quando gli mostrò il frutto dell’albero proibito, perché ne mangiasse. Lo tentò poi di vanagloria quando disse: “Sarete simili a Dio” (Gn 3,5). Lo tentò di avarizia quando disse: “Conoscerete il bene e il male“. L’avarizia infatti non riguarda soltanto il denaro, ma anche gli onori. Giustamente si dice avarizia il desiderio smodato di stare in alto. Se il carpire onori non appartenesse all’avarizia, Paolo non direbbe, riguardo al Figlio unigenito di Dio: “Non stimò una rapina la sua uguaglianza con Dio” (Ph 2,6). In ciò poi il diavolo attrasse il nostro padre alla superbia, poiché lo spinse a quel tipo di avarizia che è il desiderio di eccellere.
Ma con quegli stessi mezzi coi quali abbattè il primo Adamo, fu vinto dal secondo Adamo da lui tentato. [Il diavolo] lo tenta infatti nella gola quando dice: “Comanda che queste pietre diventino pane“. Lo tenta di vanagloria quando dice: Se tu sei figlio di Dio, gettati di sotto. Lo tenta con l’avarizia degli onori quando mostra tutti i regni del mondo, dicendo: “Tutto io ti darò, se ti prostri e mi adori“. Ma è vinto dal secondo Adamo proprio con quei mezzi coi quali si vantava di aver vinto il primo, così da uscire dai nostri cuori, scornato, passando per quella stessa strada per la quale si era introdotto, per dominarci. Ma c’è un’altra cosa, fratelli carissimi, che dobbiamo considerare in questa tentazione del Signore; tentato dal diavolo, il Signore risponde con i precetti della Sacra Scrittura, e colui che, essendo quella Parola, poteva cacciare il tentatore nell’abisso, non mostrò la virtù della sua potenza ma soltanto ripeté i divini comandi della Scrittura, per darci così l’esempio della sua pazienza; di modo che, tutte le volte che soffriamo a causa di uomini malvagi, siamo portati a rispondere con la dottrina piuttosto che con la vendetta. Pensate quanto è grande la pazienza di Dio e quanto è grande la nostra impazienza! Noi, se siamo provocati con qualche ingiuria o con qualche offesa, ci infuriamo e ci vendichiamo quanto possiamo, o minacciamo ciò che non possiamo fare. Invece il Signore sperimentò l’avversità del diavolo e non gli rispose se non con parole di mitezza. Sopportò colui che poteva punire, affinché gli tornasse a maggior gloria il fatto di aver vinto il nemico non annientandolo, ma bensì sopportandolo.
Bisogna fare attenzione a quello che segue, che cioè gli angeli lo servivano dopo che il diavolo se ne fu andato. Cos’altro si ricava da ciò se non la duplice natura nell’unità della persona? È un uomo, infatti, colui che il diavolo tenta, ma è anche Dio colui che è servito dagli angeli. Riconosciamo dunque in lui la nostra natura, in quanto se il diavolo non l’avesse conosciuto uomo, non l’avrebbe tentato, adoriamo in lui la divinità, in quanto se non fosse Dio che è al di sopra di tutte le cose, gli angeli non lo servirebbero.
Ma poiché questa lettura si adatta al presente periodo – infatti, noi che iniziamo il tempo quaresimale, abbiamo udito che la penitenza del nostro Redentore è durata quaranta giorni -, dobbiamo cercar di capire perché questa penitenza è osservata per quaranta giorni… Mentre l’anno è composto di trecentosessantacinque giorni, noi facciamo penitenza per trentasei giorni, come se dessimo a Dio la decima sul nostro anno, affinché, dopo aver vissuto per noi stessi il resto dell’anno, ci mortifichiamo nell’astinenza in onore del nostro Creatore per la decima parte dell’anno stesso. Perciò, fratelli carissimi, come nella Legge ci è imposto di offrire le decime di tutte le cose (cf. Lv 27,30s), così dovete cercare di offrire a lui anche la decima dei vostri giorni. Ognuno, secondo quanto gli è possibile, maceri la sua carne e ne affligga le brame, ne uccida le concupiscenze disoneste, affinché, secondo la parola di Paolo, divenga una vittima viva (Rm 12,1). Certo la vittima è immolata ed è viva, quando l’uomo non muore e tuttavia uccide se stesso nei desideri carnali. La nostra carne, soddisfatta, ci portò al peccato; mortificata, ci conduca al perdono. Colui che fu autore della nostra morte trasgredì i precetti della vita mediante il frutto dell’albero proibito. Noi dunque, che ci siamo allontanati dalle gioie del paradiso per colpa del cibo, procuriamo di tornare ad esse grazie all’astinenza.
Ma nessuno creda che l’astinenza da sola possa bastargli dal momento che il Signore dice per bocca del Profeta: “Non è forse maggiore di questo il digiuno che bramo?“, aggiungendo: “Dividi il pane con l’affamato, e introduci in casa tua i miseri, senza tetto; quando vedrai uno nudo, soccorrilo, e non disprezzare la tua carne” (Is 58,6 Is 58,7). Dio dunque gradisce quel digiuno che una mano piena di elemosine presenta ai suoi occhi, quel digiuno che si congiunge all’amore del prossimo ed è ornato dalla pietà. Ciò che togli a te stesso, dallo a un altro, affinché cio di cui si affligge la tua carne serva di ristoro alla carne del povero. Così infatti dice il Signore per bocca del Profeta: “Quando avete fatto digiuni e lamenti, forse avete digiunato per me? E quando avete mangiato e bevuto, forse non avete mangiato bevuto per voi stessi?” (Za 7,5-6). Infatti mangia e beve per sé chi prende i cibi del corpo, i quali sono donati a tutti dal Creatore, senza parteciparli ai bisognosi. E digiuna per sé chi non distribuisce ai poveri quelle cose di cui si è privato temporaneamente, ma anzi le serba per darle al suo ventre in altra occasione. Perciò è detto per bocca di Gioele: “Santificate il digiuno” (Jl 1,14 Jl 2,15). Santificare il digiuno significa offrire un’astinenza dalle carni degna di Dio, dopo aver aggiunto altri doni. Cessi l’ira, si plachino i litigi. Invano la carne è afflitta, se l’animo non si frena nei suoi malvagi desideri, come dice il Signore per bocca del Profeta: “Ecco, nel giorno del vostro digiuno si trova la vostra volontà. Ecco, voi digiunate fra litigi e alterchi e colpendo con pugni iniqui, e ricercate tutti i vostri debitori” (Is 58,3). Né commette ingiustizia chi richiede dal suo debitore quanto gli aveva prestato; è bene tuttavia che quando uno si macera nella penitenza, si astenga anche da ciò che gli spetta con giustizia. Così Dio perdona a noi, afflitti e penitenti, ciò che abbiamo fatto di male, se per amor suo rinunciamo anche a ciò che giustamente potremmo esigere.
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[1] Il nome di Domenica in Albis (sottinteso deponendis, nel Rito Ambrosiano è chiamata Domenica in Albis Depositis , letteralmente: “domenica in cui le vesti bianche vengono deposte”) è legato al rito del Battesimo: in esso i nuovi battezzati ricevono e indossano una veste bianca, segno della vita divina appena ricevuta; gli adulti battezzati nella solenne Veglia Pasquale la indossano poi per tutta la settimana dell’Ottava di Pasqua, fino alla domenica successiva, detta perciò domenica in cui si depongono le bianche vesti.
[2] Questa domenica è stata proclamata Festa della Divina Misericordia da papa San Giovanni Paolo II nel 2000. Il culto della Divina Misericordia è legato alla figura di Santa Faustina Kowalska, la mistica polacca canonizzata nel nell’Anno Santo del 2000, e di cui Giovanni Paolo II è stato molto devoto, come testimonia la sua Enciclica Dives in Misericordia, scritta nel 1980 e dedicata appunto alla Divina misericordia