giovedì 1 dicembre 2011

Charles De Foucauld: La mia fede 2


LA MIA FEDE
Città Nuova Editrice, 1974


PARTE SECONDA: LE GRANDI INTUIZIONI DELLA FEDE

Charles de Foucauld non è un teologo, e non bisogna perciò aspettarsi da lui una sintesi della fede cristiana. La sua stessa vocazione non è di facile comprensione, se la si vuole inquadrare in un contesto logico, ben definito e classificato. Bisogna porsi in una diversa prospettiva, se si vuol comprendere la sua anima. Per ciò, più che parlare del contenuto della sua fede, è preferibile parlare delle intuizioni della sua fede. Chi dice intuizione, dice luce penetrante, che quale freccia acuminata arriva al fondo di una verità, e lascia nel cuore una ferita inguaribile. Le intuizioni si moltiplicano e nuovi fuochi si accendono. Ma non bisogna cercarvi concordanze, concatenamenti, e neppure una sintesi intellettuale. Sono slanci sempre nuovi, che recano il segno della libertà dello Spirito.

« Il vento spira dove vuole, tu ne odi la voce, ma non sai donde venga né dove vada; cosí è di chiunque è nato dallo Spirito » (Gv. 3, 8).

Non è solo dello Spirito che si dice: « Non sai donde venga né dove vada » ma anche di chi è nato dallo Spirito, cioè di colui che crede e vive di fede.

Così, la fede di fratel Charles è caratterizzata, come la sua vita, da grandi intuizioni, ciascuna delle quali gli appariva come assoluta, totale, alla quale apre la sua anima come si trattasse dell'intuizione ultima e definitiva - ma anche come fosse la prima ricevuta nella freschezza dell'anima - donde lo slancio di giovinezza che gli fu proprio e il suo bisogno imperioso di correre dritto allo scopo.

I capitoli che seguono vorrebbero porre in risalto queste intuizioni, ma leggendole bisogna pensare che ognuna di queste intuizioni potrebbe essere ritenuta come l'unica intuizione, quella che esprime l'essenziale della sua fede e della sua vita.

GESÙ DI NAZARET

Riscoperta di Dio nei sacramenti della penitenza e dell'eucaristia, sacramenti di Gesù Cristo: ottobre 1886.

Pellegrinaggio in Terra santa, la terra di Gesù. Natale 1888: Betlem. Alcuni giorni dopo, Gerusalemme, il Cenacolo, il Monte degli Ulivi, il Calvario. Gennaio 1889: Nazareth.

Nella Chiesa di Cristo, bisogna passare attraverso Gesù Cristo per arrivare a Dio. «Nessuno viene al Padre, se non per mezzo mio» (Gv. 14, 16). Ma il mistero di Cristo è molteplice. Come molteplici sono i modi, per ognuno di coloro che sono salvati nel nome di Gesù, in cui si è attuato questo contatto di fede col Figlio di Dio fatto uomo, al punto da fargli gridare: «Mio Signore e mio Dio!», come Tommaso, quando toccò le piaghe di Cristo risorto.

Per Charles de Foucauld, il modo fu « Gesù di Nazareth », cioè, come lui dice con frase espressiva: «Dio, operaio di Nazareth». In questo mistero la sua fede attinse all'incarnazione del Verbo e Gesù divenne per lui: « il mio Bene-Amato Fratello e Signore Gesù ».

Gesù di Nazareth, per lui, è Gesù nel suo stato di abbassamento, il suo stato di povertà, il farsi piccolo, umile, in una vita che egli definisce: « abiezione, povertà, umile lavoro, oscurità ». Queste espressioni ricorrono continuamente nei suoi scritti. Non dimenticherà mai, in tutta la sua vita, una frase ripresa da una predica dell'abate Huvelín: «Gesù ha scelto talmente l'ultimo posto, che nessuno mai ha potuto avere l'ambizione di strapparglielo». Da ciò il suo grido: «Ogni giorno di più, desidero precipitare nell'estremo abbassamento, al seguito di Nostro Signore».

Così gli appariva Gesù di Nazareth dopo quel giorno del gennaio 1889, quando per la prima volta mise piede a Nazareth. Il 24 giugno 1896 così scriverà:

«Ho gran sete di vivere finalmente questa vita, che ricerco da sette anni, che (... ) ho intravista, immaginata, percorrendo le strade di Nazareth, percorse da Nostro Signore, povero artigiano, inabissato nell'oblio e nell'oscurità».

Ugualmente il 12 aprile 1897, alcuni giorni dopo il suo arrivo a Nazareth:

«Mi sono stabilito a Nazareth (...) Dio nella sua bontà mi ha fatto trovare qui tutto ciò che cercavo: povertà, solitudine, abbandono, lavoro umilissimo, dimenticanza completa, la più perfetta imitazione di quella che fu la vita dei Signore Gesù in questa stessa Nazareth (... ). Ho abbracciato qui l'umile e oscura esistenza di Dio, operaio di Nazareth».

Io credo che queste parole traducono perfettamente la primordiale intuizione della sua fede in Gesù Cristo, Figlio di Dio fatto uomo: «l'esistenza umile e oscura di Dio, operaio di Nazaret».

Non si tratta d'altro che, tradotta nel suo linguaggio che sottolinea questa condizione dell'Uomo di Nazareth, dell'intuizione dell'umiltà fondamentale del mistero di Cristo, così come è stato espresso da san Paolo:

« Lui che era Dio non volle tenere per sé gelosamente il rango che l'uguagliava a Dio. Ma annientò se stesso assumendo la condizione di schiavo e facendosi simile agli uomini » (Fil. 2, 6-7).

«L’incarnazione - scrive Charles de Foucauld - ha la sua origine nella bontà di Dio (... ). Ma una cosa appare innanzi tutto sì meravigliosa, sì stupefacente, da risplendere come luce abbagliante: è l'umiltà infinita che racchiude in sé tale mistero Dio, l'Essere, l'infinito, la Perfezione, il Creatore, l'Onnipotente, l'immenso e sovrano Signore di tutto, si fa uomo (... ); compare sulla terra come un uomo, anzi come l'ultimo degli uomini».

Non vedere Gesù, nel presepio, durante i suoi trent'anni a Nazareth, sulle strade di Galilea e Giudea, fino alla Croce, non vederlo che nell'umiltà, nella povertà, nell'abbandono, nell’abiezione, nella solitudine, nella sofferenza, nel disprezzo, sempre come « l'ultimo degli uomini », è legittimo, è frutto di una conoscenza obiettiva del Vangelo?

La fede non è una luce razionale, essa penetra come un dardo nel cuore del mistero, e con la conoscenza intuitiva che ne ricava, getta luce sulla totalità del mistero. Sembra semplificazione del mistero, ma è sapienza divina e linguaggio dello Spirito di Dio.

San Paolo afferma che non vuol «conoscere altro che Gesù Cristo, e Gesù Cristo Crocifisso» (1 Cor. 2, 2).

Il profeta vede alla stessa maniera dell'Apostolo. Parlando del « Servo » dice:

« Privo di bellezza, di splendore, sgradevole a vedersi, fatto oggetto di disprezzo e rifiutato dall'umanità, uomo di dolore, provato dalla sofferenza. Come un uomo di fronte al quale ci si copre il volto, fu vilipeso e rigettato » (Is. 53, 3).

E il salmo 22, di cui Cristo, sulla Croce, ha pronunciato le prime parole, aggiunge:

« Io, verme e non uomo, vergogna del genere umano, rifiuto del popolo ».

Essere crocifisso, quando si è il Figlio unico di Dio, non è l'estremo limite dell'abiezione?

Si capisce come i sapienti, i profeti e gli apostoli proiettino su tutta la vita umana di Cristo questa luce che brucia gli occhi e fa «piangere di dolore e di amore».


L'EUCARESTIA È GESÙ

«Eccomi rientrato nella mia clausura, ai piedi del Tabernacolo di Dio, per condurvi, sotto gli occhi dell'Amato, una vita simile a quella della divina casa di Nazaret, fino a quando il mio cuore meschino potrà permettermelo».

Questo testo, stilato a Béni-Abbès, l'8 aprile 1905, e che avrebbe potuto scrivere in qualunque momento della sua vita, dopo il suo arrivo a Nazaret, il 4 marzo 1897, fino al l dicembre 1916 a Tamanrasset, ci mostra Charles de Jésus che vive giorno e notte alla presenza del divin Sacramento, quasi si trovasse dentro la casa di Nazaret, a viver là, in presenza di Gesú, e sotto i suoi occhi, come Maria e Giuseppe.

Realismo della sua fede nella presenza di Gesú e anche frutto che gli proviene dalla Terra santa. Scriverà poi, con questo stesso dono di ritenersi presente in uno di quei luoghi, che egli ha toccato, venerato, baciato perché Gesú li ha santificati durante la sua vita mortale:

« Siamo ancora nel tempo di Natale. Col corpo sono a Nazaret (... ), ma con lo spirito è piú di un mese che sono a Betlem; è dunque vicino al presepe, tra Maria e Giuseppe, che le scrivo. Il tempo è ottimo:, fuori freddo e neve, immagini del mondo. Ma nella piccola grotta, illuminata da Gesú, come si sta bene, come è dolce, calda, luminosa! Il nostro buono e caro padre abate vuol sapere da me ciò che il dolce Gesú Bambino mi vien sussurrando da un mese a questa parte, quando lo contemplo, quando veglio ai suoi piedi, durante la notte, fra i suoi santi genitori, quando viene tra le mie braccia, sul mio cuore e nel mio cuore, con la santa comunione. Non fa che ripetermi: 'Volontà di Dio, volontà di Dio' » (... ).

Non si ferma ad analizzare, da teologo, che cosa sia la presenza reale; non si dà pensiero alcuno di esprimersi correttamente circa i segni sacramentali dell'Eucaristia. Per lui, il cui unico pensiero è amare, basta solo credere:

« La santa Eucaristia: è Gesú, è tutto Gesú!... Nella santa Eucaristia Tu ti trovi tutto intero, tutto vivo, mio Bene-Amato Gesú, con la stessa interezza con cui stavi nella casa della santa famiglia di Nazaret (... ). Oh, non stiamo mai fuori della presenza della santa Eucaristia, non perdiamo un solo istante di quelli che Gesú ci concede per star lí ».

Quando esprime in tal modo la sua fede nell'Eucaristia, Charles de Foucauld non si inganna. almeno non piú del curato d'Ars che, in lagrime, sull'altare, teneva stretta tra le mani l'ostia consacrata, e diceva: «Gesú, se sapessi di non doverti incontrare in cielo, non ti lascerei piú».

« L'Eucaristia, è Gesú, presente sui nostri altari, tutti i giorni fino alla consumazione dei secoli vero Emmanuele, vero 'Dio con noi', che si presenta, ogni ora, su tutti i luoghi della terra, ai nostri sguardi, alla nostra adorazione, al nostro amore, pronto a trasformare, con questa sua presenza perpetua, la notte della nostra vita, in una illuminazione deliziosa ».

Cosí Charles de Foucauld vede, innanzi tutto, nell'Eucaristia, la presenza di Gesú, presenza tanto reale, nel tabernacolo, che egli la vede gettare torrenti di luce sulla contrada, divenuta sorgente di santificazione e di salvezza per tutti gli uomini che le abitano d'intorno, come in altro tempo la presenza silenziosa e nascosta di Gesú a Nazaret fu fonte di grazie per i suoi concittadini. Ed è questa presenza di Gesú che fratel Charles vuole sempre con sé dappertutto, nella solitudine del deserto; che vuol mettere dappertutto dove va, sia che drizzi la sua tenda o si costruisca una capanna di frasche, un eremo o una fraternità, e che cosí sia sempre «la casa di Nazaret, [dove] tra Maria e Giuseppe, [egli è] stretto come un piccolo fratello vicino al Fratello piú grande Gesú, notte e giorno presente nell'Ostia Santa »

Parole semplici e dolci come il linguaggio di un fanciullo ma fede di un uomo che può vivere, solo, nel deserto, durante quindici anni, giorno e notte, fedele adoratore della presenza di Dio.

L'Eucaristia è anche il pane di vita, pane che per lui fu veramente «il pane quotidiano», dal giorno in cui nella comunione ricevette il dono totale della fede, e di cui dice, seguendo il realismo di san Giovanni Crisostomo, le cui opere conosceva assai bene: « Nella santa comunione, Dio entra in noi corporalmente; con la nostra bocca noi tocchiamo il corpo di Nostro Signore, come lo toccarono le labbra di Maria».

Da ultimo, la santa Eucaristia è il sacrificio della messa, dove Gesú iminolato, «si offre in sacrificio al Padre suo». E per poter offrire questo sacrificio, e rendere cosí la piú grande gloria possibile a Dio, Charles, fin dall'aprile 1900, ha cominciato a nutrire il desiderio di ricevere il sacerdozio. Per lungo tempo ne aveva scartato l'idea, per restare sempre nell'umiltà e nell'abiezione della vita di Nazaret, ma un giorno scrive:

«Giammai un uomo può imitare piú perfettamente Nostro Signore che quando offre il Santo Sacrificio (... ). Io debbo riporre l'umiltà dove Nostro Signore l'ha messa, praticarla come Lui l'ha praticata, e per questo, praticarla, nel sacerdozio, secondo il suo esempio».

Si esce un po' fuori dalla logica del suo pensiero, che procede non per mezzo di una piú approfondita analisi o comprensione del dogma, ma tramite l'approccio contemplativo al mistero della sua conformazione a Cristo. Vuol essere «prete come Gesú». Ma poiché ha contemplato il «sacerdozio di Gesú negli ultimi istanti della sua vita, dopo la Cena, fino al suo estremo respiro», scrive queste parole che mettono in luce il senso eucaristico della sua vita:

«I preti devono offrire Gesú al Padre, sull'altare, per la gloria del Padre e la salvezza degli uomini nella santa Eucaristia, come Lui stesso si è offerto nella Cena; e,devono offrirsi con Gesú, al Padre suo, per la sua gloria, per la gloria di Gesú e la salvezza degli uomini, soffrendo sulla Croce con Gesú l'agonia, la passione c,la morte, nella misura in cui piacerà a Gesú di chiamarli a dividere il suo calice e ad essere vittime con Lui».

Offrendo in questo modo il sacrificio della messa, egli penetra piú profondamente nella comprensione del mistero eucaristico come tale, e si prepara alla chiamata che a Gesú effettivamente piacque rivolgergli la sera del l dicembre 1916.

LA FELICITA' Di DIO

La « felicità di Dio », la felicità immutabile del Bene-Amato: queste espressioni ricorrono spesso nelle sue meditazioni e nelle sue lettere.

È certo che questa consapevolezza nacque in lui come una conseguenza logica del suo amore per Gesù. Dalla Trappa di Abbès scrive a Maria de Bondy:

«Qualunque possa essere la mia tristezza, quando mi metto ai piedi dell'altare, e dico a Nostro Signore Gesù: "Signore, Tu sei infinitamente felice e nulla ti manca", non posso fare a meno di aggiungere: 'Allora, anch'io son felice e niente mi manca. La tua felicità mi basta' (... ). È la verità, deve essere così, se amiamo Nostro Signore».

Questa felicità infinita di Colui che egli ama, Charles de Jésus non si sofferma mai ad analizzarla. È una prospettiva semplice della sua fede e una intuizione del suo cuore: Colui che egli ama non soffre più, è risorto, è nella gloria di Dio. Durante il suo ritiro di novembre 1897 a Nazareth, così scrive, sviluppando la sua intuizione:

«Tu risorgi, tu ascendi al cielo Eccoti nella tua gloria! Tu non soffri più, non soffrirai mai più. Tu sei felice, e lo sarai per l'eternità (...). Dio mio, se ti amo, come devo essere felice! Se è il tuo bene che io cerco prima di tutto, come devo sentirmi soddisfatto e felice! (...). Dio mio, Tu sei beato per l'eternità e niente ti manca. Tu sei infinitamente ed eternamente felice! (...). Anch'io son felice, mio Dio, poiché sei Tu ch'io amo prima di tutto. Posso dire che non mi manca nulla che mi trovo in paradiso, che, qualunque cosa succeda o mi succeda, io son felice a motivo della tua felicità».

Charles de Foucauld ha lasciato tutto, la sua famiglia, i suoi amici, la sua patria, per Gesù, ed ora si trova a Nazareth, dove Gesù è vissuto. Gesù, Dio Vivo, gli è più vicino di tutti gli esseri del mondo. Chi crede, vede. Solo per chi non crede, Dio non è vivo. E l'amore è estasi. Chi ama è più in Colui che ama, che in se stesso. Non è così dell'amore umano. E Charles vuole, nella sua fede viva e concreta, che il proprio amore per Gesù segua questa rotta di verità che è propria dell'amore.

Fin da Nazareth, giugno 1897 si scrive questa linea di condotta:

«Il tuo spirito: spirito d'amore di Dio e di oblio di te stesso, nella contemplazione e nella gioia della sua felicità »

Oblio di sé - non soltanto per fronteggiare l'egoismo che ognuno porta visceralmente in se stesso -, ma anche oblio di sé, della propria miseria, dell'esperienza quotidiana della propria debolezza, e della dolorosa coscienza del proprio nulla.

Chi conosce se stesso, alla luce della fede, non si ripiega su se stesso, ma è portato a dimenticarsi completamente per ammirare la bellezza di Dio, o, come dice Charles de Foucauld, secondo la sua particolare maniera di accostarsi al mistero, «per pensare alla felicità di Dio». Scrive:

« E' una pace profonda, che inonda l'anima sempre più: si avverte il nulla di tutto ciò che passa. Si sente che si cammina verso Dio, si pensa alla sua immensa felicità, si gioisce senza posa al pensiero della perfetta felicità, infinita, inalterabile di questo Dio diletto. Si è felici della felicità di chi si ama e il pensiero della sua immutabile pace acquieta l'anima (... ). La stessa vista del mio nulla, invece di affliggermi mi aiuta a dimenticarmi e a non pensare che a Colui che è tutto».

Così, l'ardente risoluzione di un cuore che ama e vuole amare appassionatamente, diventa, nell'anima di Charles de Jésus, un'esperienza, un frutto assaporato della contemplazione di Dio, contemplazione che segue la profonda tensione del suo essere, tutto incline ad amare. Egli si perde in una quiete d'amore, più che nello sguardo acuto che scruta il mistero. Ed è inondato dalla pace divina.

Béni-Abbès, lunedì santo del 1903:

« Più l'anima dimentica se stessa ed entra nella contemplazione estatica della felicità di Gesù, più si addentra in quella pace di cui è detto: 'Beati i pacifici'».

Amra (un po' a nord di Idelès), il 15 luglio 1904:

«Tutto è dolce per me, caro amico. Vedo ogni cosa sotto la luce dell'immensa pace di Dio, della sua infinità, della immutabile gloria della beata e sempre immobile Trinità (... ). Tutto perde valore per me davanti alla felicità di sapere che Dio è Dio».

GRIDARE IL VANGELO CON TUTTA LA PROPRIA VITA

Quando si pronunzia la parola «Vangelo», a proposito di fratel Charles, non si può separarla da quest'altra parola «Imitazione di Gesù», perché il Vangelo non è soltanto il libro che gli dà la conoscenza del Signore che lui adora, ma anche l'unico modello che egli deve imitare esclusivamente: «Scruta le Scritture... e sii Me, solo Me».

Moto, congiunto di conoscenza e d'amore, che si traduce in imitazione. Se non si imita Gesù; non soltanto non lo si ama, ma non lo si conosce. Il Vangelo non è un libro, è la parola efficace di Dio, che penetra e trasforma e rende simili a Colui che ha detto: «Se perseverate nella mia parola, sarete veramente miei discepoli: conoscerete la verità, e la verità vi farà liberi » (Gv. 8, 32). Che è quanto dire: per arrivare alla conoscenza della verità. bisogna perseverare nella parola di Gesù, custodirla, cioè mettere in pratica i comandamenti del Maestro e seguirlo come un discepolo.

Chi custodisce allora la parola è abitato dalla parola di Dio, che è il Verbo incarnato, Gesú, e «vive il Vangelo», secondo il detto di fratel Charles. «Torniamo al Vangelo. Se non viviamo il Vangelo, Gesú non vive in noi ».

Fratel Charles non lesse il Vangelo per cercarvi grandi idee e un ideale di vita umana perfetta, o per scoprirvi delle linee di forza o una dialettica efficace per la trasformazione della società. Egli vuole invece:

« Impregnarsi dello Spirito di Gesù, leggendo e rileggendo, meditando e rimeditando senza posa le sue parole e il suo esempio: che cadano sull'anima come la goccia d'acqua che cade e ricade sempre allo stesso punto su una lastra di pietra».

Il Vangelo gli presenta dunque una Persona viva: Gesù, il Maestro, il suo «solo Maestro, perché il solo veramente santo». Non si tratta di un ideale astratto di virtù, non cerca una perfezione spinta all'estremo. ma di imitare Gesù, perché:

«La perfezione consiste nell'essere come il Maestro. E' pura follia e peccato, il solo pensare che sia possibile essere in qualche cosa più perfetti di Lui: e "Chi è come Dio?". Non cerchiamo di essere più grandi di Gesù agli occhi degli uomini (... ). Il Maestro è stato disprezzato, il discepolo non deve essere onorato; il Maestro è stato povero, il discepolo non dev'essere ricco; il Maestro è vissuto con il lavoro delle sue mani, il discepolo non deve vivere di rendita; il Maestro andava a piedi, il discepolo non deve andare a cavallo; il Maestro cercava la compagnia dei piccoli, dei poveri, dei lavoratori, il discepolo non deve farsela con i potenti; il Maestro appariva agli occhi di tutti un lavoratore, il discepolo non deve apparire un potente personaggio; il Maestro è stato calunniato, il discepolo non dev'essere lodato; il Maestro era vestito poveramente, era scarsamente nutrito, era miseramente alloggiato, il discepolo non deve andar vestito in modo elegante, essere ben nutrito, avere una casa comoda; il Maestro ha lavorato, si è stancato, il discepolo non deve pensare al riposo; il Maestro ha voluto apparire piccolo, il discepolo non deve voler sembrare grande».

Questo passo, che è caratteristico della sua maniera di meditare sul Vangelo, ci fa vedere che, quando fratel Charles parla dell'imitazione di Gesù, non si tratta, nella sua mente, della sola imitazione interiore delle sue virtù, o soltanto di una conformità della propria anima a quella di Gesù, ma di una imitazione il più possibile perfetta della vita di lui, cioè delle sue azioni, della sua condizione, delle sue fatiche e del suo lavoro, delle sue sofferenze e delle sue pene.

Egli vuol porre i propri passi sulle orme del Maestro, ma «seguirlo il più possibile da vicino» e, ancor di più, vuol «condividere con lui»: « Non posso concepire l'amore senza un bisogno, un bisogno imperioso di conformità, di somiglianza e soprattutto di partecipazione a ogni pena, ogni difficoltà, ogni asprezza della vita... ».

È proprio dei santi il non vedere Gesù come un personaggio d'altri tempi, ma di vederlo vivo ora e di vivere con lui e di conseguenza condividere la sua vita.

Perciò, agli occhi della sua fede, la vita di Gesù rivive - dal presepe alla Croce -, e fratel Charles diventa, con Gesù, povero e umiliato, impegnato nella preghiera e nel digiuno, intento ad un umile lavoro manuale, «l'umile lavoro di Gesù», come dice. Comincia da Nazareth, perché Gesù visse colà per trent'anni. « Sei vissuto trent'anni, povero operaio in questa Nazareth in cui io ho la gioia di vivere, dove sperimento la felicità indicibile, profonda, inesprimibile, la beatitudine di raccogliere letame... »

Linguaggio di uno che ha lasciato ogni cosa, e che guarda il mondo come un mondo di vanità, di false gioie e di false grandezze, e che ha scoperto che Dio si è fatto povero.

«O Signore Gesù, come diventerà subito povero colui che, amandoti con tutto il suo cuore, non potrà sopportare di essere più ricco del suo Bene-Amato!».

Ed è proprio a Nazareth - gli occhi fissi senza posa in Gesù, in quella solitudine, a tu per tu col suo Bene-Amato - che comprende come la volontà di Dio vuol dire: «essere dove Dio ci vuole, fare ciò che Dio vuole da noi, nello stato dove lui ci chiama; pensare, parlare, agire come Gesù avrebbe pensato, parlato, agito, se il Padre suo lo avesse messo in quel particolare stato».

Questo spiega come dopo essersi messo all'ultimo posto in compagnia di Gesù, «povero oltre ogni misura», Charles de Foucauld abbia voluto rassomigliargli in tutto, non soltanto perché «la somiglianza è proporzionata all'amore», ma perché Gesù ha lasciato Nazareth per annunciare il Vangelo. Però la sua vita sarà sempre e da per tutto una vita di Nazareth: «Che io viva dappertutto in una Nazareth, dappertutto nascosto in Gesù».

Come spiegare questo riferimento costante, fino all'ultimo, a Nazareth, mentre la sua vita ci prospetta un'evoluzione tale che, da domestico delle Clarisse, è divenuto apostolo del Vangelo, pronto a recarsi fino agli estremi confini del mondo?

Il fatto è che il mistero di Nazareth fu la luce iniziale nella quale conobbe il Signore Gesù, e i suoi occhi non riuscirono a staccarsi mai più da esso, di modo che tutto quello che fece o fu portato a fare, sotto la spinta di un amore estremo per Gesù, suo Maestro, e quella del desiderio di fare il più gran bene possibile agli uomini, reca impresso per sempre il sigillo di Nazareth.

Che cos'è mai questo sigillo, questa luce di Nazareth?

Prima di tutto la condizione del povero, dell'umiliato, dell'abbandonato, del piccolo, esposto al disprezzo e all'indifferenza degli uomini.

Poi, virtù evangeliche, umiltà, mansuetudine, «essere colui che serve», desiderio di soffrire; bisogno di andare «là dove c'è estrema mancanza» di Dio, tra coloro che sono i più malati, i più abbandonati, che vivono nel deserto; e infine essere il fratello universale, soprattutto il fratello dei più poveri, l'amico di quanti non hanno amici.

È questo che fratel Charles chiama: «Gridare il Vangelo con tutta la propria vita».

LA PAROLA DEL VANGELO CHE HA TRASFORMATO LA MIA VITA

Da Tamanrasset, il lº agosto 1916, esattamente quattro mesi prima della sua morte, scrive a Louis Massignon:

«Non c'è, credo, parola del Vangelo che abbia fatto su di me piú profonda impressione, e trasformato del tutto la mia vita, di questa: 'Tutto ciò che fate a uno di questi piccoli, lo ritengo fatto a me'. Se si considera che queste parole sono proferite dalla Verità increata, uscite da quella stessa bocca che ha, detto: 'Questo è il mio corpo... questo è il mio sangue', con quale energia non si è portati a cercare e ad amare Gesú in questi 'piccoli', nei peccatori, nei poveri».

Ciò che va sottolineato in questo passo, non è tanto il riferimento al secondo comandamento.

«in tutto simile al primo», quanto il richiamo all'Eucaristia. E come la sua fede vede, sotto le specie consacrate del pane e del vino, il Corpo e il Sangue di Gesú, cosí vede «in ogni essere umano, dietro il velo delle apparenze, un essere ineffabilmente sacro, un membro, una porzione del Corpo del nostro Bene-Amato Gesú ».

Questo realismo della espressione, che richiama il linguaggio di san Giovanni Crisostomo, traduce la sua fede nel Corpo mistico di Cristo. Tutti gli uomini, per un titolo o per l'altro, sono membra del corpo di Cristo, poiché Cristo, con la sua incarnazione, è diventato in modo eminente uno di loro. Non si danno esclusività, né per il ricco, né per il povero, poiché tutti sono stati creati ad immagine di Dio, ma la preferenza è rivolta al povero.

Mentre scriveva a Nazaret, nel 1899, le costituzioni e il regolamento per il suo progetto di fondazione dei Piccoli Fratelli del Sacro Cuore, cosí descrive la carità universale che vuole veder regnare nella Fraternità:

«Non soltanto i Piccoli Fratelli ricevano con gioia gli ospiti, i poveri e i malati che si presentano loro, ma insistano perché entrino quelli che incontrano nei pressi, chiedendo loro come una grazia, come fece Abramo agli angeli, in ginocchio se necessario, di non 'passare davanti alla soglia dei loro servitori', senza accettare la loro ospitalità, i loro servigi, le manifestazioni del loro amore fraterno. Che si sappia ovunque in giro che la Fraternità è la casa di Dio, dove ogni povero, ogni ospite, ogni malato, è sempre invitato, chiamato, desiderato, accolto con vera gioia e gratitudine da fratelli che lo amano, gli vogliono bene e considerano il suo ingresso sotto il loro tetto come l'arrivo di un tesoro. Essi sono, in realtà, il tesoro dei tesori, Gesú stesso: "Tutto ciò che fate a uno di questi piccoli, lo ritengo tatto a me"».

E cosí si comportò finché rimase a Béni-Abbès.

«Voglio abituare tutti gli abitanti, cristiani. musulmani, ebrei e adoratori di idoli, a guardarmi come loro fratello, il fratello universale (... ). Tutti cominciano a chiamare questa casa ' la Fraternità ' (la Khaoua, in arabo) e questo mi piace moltissimo, e a rendersi conto che i poveri hanno qui un fratello, e non soltanto i poveri, ma tutti gli uomini».

Lui che chiama il Signore Gesú il suo BeneAmato Fratello, il Fratello Maggiore, vuol essere guardato dagli uomini, che son membra di Gesú, come loro fratello. Un medesimo sangue fraterno unisce tutti gli uomini, non soltanto il sangue umano che ci viene da Adamo, ma il sangue di Cristo, Figlio di Dio fatto uomo.

Ora, a Béni-Abbès, nel 1902, come piú tardi al suo arrivo all'Hoggar, nel 1905, la prima angoscia che attanaglia la sua anima è la grande tragedia degli schiavi.

Vuole che si passi subito all'azione, e scrive: «Entrare in minuti particolari sul modo inumano con cui sono trattati gli schiavi del Sahara e delle oasi, mi sembra che significhi impostare male il problema. Sono maltrattati, è vero, ma, trattati bene o male, il vero grande male, l'enorme ingiustizia è che son schiavi».

Altri, oltre lui, si è mostrato indignato per le forme di schiavitù umana, che è una delle manifestazioni piú vergognose e immorali dell'oppressione e dello sfruttamento di persone umane da parte dei propri simili. E anche ai nostri tempi esistono altrettante forme ingiuste di oppressione. Ma per Charles de Foucauld, al di là di questa ribellione dello spirito e del suo cuore, si tratta di una dolorosa percezione per la sua fede di cristiano.

A chi gli consiglia pazienza e prudenza, risponde:

«Non ho il minimo desiderio di mettermi a parlare o scrivere, ma non posso tradire i miei figli, e non posso non fare, per Gesú, che vive nelle sue membra, quello di cui ha bisogno: è Gesú che si trova in questa dolorosa condizione».

Cosí, nell'uomo che soffre, che è oppresso, che è schiavo, la sua fede viva vede Gesú che soffre, che è oppresso, che è schiavo.

Che cosa avverrebbe sulla terra, se tutti i cristiani avessero la stessa fede, lo stesso sguardo soprannaturale?

FU CHIAMATO GESÙ, CHE VUOL DIRE « SALVATORE »

Fu chiamato Gesù, che vuol dire « Salvatore »

Partito, solo per Gesù, dapprima per la Trappa, e poi per Nazareth, perché il primo comandamento dice di amare Dio con tutto il nostro cuore, e che in questo amore bisogna racchiudere ogni altra cosa, e che questo amore spinge alla imitazione perfetta di Colui, che si ama, Charles de Foucauld scopre, nella meditazione continua del Vangelo e nella contemplazione eucaristica, che Gesù ci ha amati soffrendo per noi. E ciò che lo sbalordisce maggiormente nella sofferenza di Cristo è l'immenso amore di Gesù per noi, che una tale sofferenza rivela.

«Tutto ciò, mio Dio, Tu l'hai sofferto per amore, per amor nostro, per farci santi, pei costringerci ad amarti alla vista del tuo immenso amore. Non fu certo per redimerci che Tu hai tanto sofferto, o Gesù (...). Il tuo più piccolo atto ha un valore infinito, perché è l'atto di un Dio, e sarebbe bastato in abbondanza a redimere mille mondi (...). Tu l'hai fatto per farci santi, per portarci, per costringerci ad amarti liberamente, perché l'amore è il mezzo più potente per attrarre l'amore ».

Logica perciò la conclusione, per chi ama Gesù:

«Non ci è possibile amarlo senza imitarLo (...). Poiché ha sofferto ed è morto fra i tormenti, non ci è possibile amarlo e voler essere coronati di rose, mentre Lui è stato coronato di spine (...). AmiamoLo come ci ha amati, alla stessa maniera».

Desiderio di condividere la sofferenza di Gesù, per assomigliare a Lui e dargli una prova d'amore.

In seguito il mistero di Gesú-Salvatore s'impone sempre più alla sua riflessione, essendo la sofferenza di Gesù nella sua passione e la sua morte sulla croce la sofferenza e morte dell'Agnello di Dio, offerte in sacrificio «per la salvezza di molti».

E aggiunge:

«Potessimo noi essere come Te, "vittime per la salvezza di molti", le nostre preghiere unite alle tue, le nostre sofferenze offerte con le tue; potessimo penetrare sino in fondo, dietro al tuo esempio, nello spirito di mortificazione, per aiutarti in, modo efficace nella tua opera di redenzione».

In una parola, egli vede illuminata da questa prospettiva della redenzione, tutta la vita di Gesù. Gesù, il cui nome significa «Salvatore», ha dato inizio all'opera della salvezza degli uomini fin dal suo primo istante di vita sulla terra, con la povertà, l'abiezione, la sofferenza, accettate fin dalla sua nascita; con la preghiera e la penitenza di Nazareth, poi con l'opera di evangelizzazione, fonte di fatiche e pene, di sofferenze fisiche e morali, di persecuzioni e contraddizioni, che lo condussero alla passione, alla croce, alla morte.

Questa contemplazione di Gesú-Salvatore lo porta ad accettare il sacerdozio, per portare il pane di vita ai poveri, alle anime più malate: essere prete come Gesù, per le «pecore senza pastore».

Gli ultimi quindici anni della sua vita non si spiegano che con la sua fedeltà nel seguire, fino al sacrificio supremo, questa chiamata a lavorare insieme con Gesù per la salvezza dei suoi fratelli.

Se si esaminano i suoi scritti di Béni-Abbès e di Tamanrasset, gli ultimi, che vanno dal gennaio al giugno 1916, se ne può trarre questo quadro:

«Fuoco sono venuto a portare». «A salvare ciò che era perduto». «Gesù ha voluto che il suo nome "Salvatore" significasse l'opera della sua vita: la salvezza delle anime. L'opera della nostra vita deve essere ad imitazione del modello unico, la salvezza delle anime».

«In ogni uomo vedere un'anima da salvare». «Perciò: farsi tutto a tutti, con un solo desiderio in cuore, quello di dare Gesù alle anime:

- mettere al primo posto il bene delle anime...

- Offrire in modo perfetto il santo sacrificio...

- Adorare il più possibile, essere buono per tutti...

- Pregare e fare penitenza per tutti... ».

Oltrepassando la ristretta cerchia dei minuscoli villaggi del deserto, Béni-Abbès e Tamanrasset, e le rade popolazioni del Sahara, la sua fede non pensa che alla salvezza di tutti. Nelle risoluzioni dopo il suo ritiro di Nazareth, già annota:

«Zelo per le anime, amore ardente per la salvezza delle anime che, tutte, sono state salvate a caro prezzo. Non disprezzare nessuno, desiderare anzi il più gran bene per tutti gli uomini, poiché tutti sono coperti, come da un grande mantello, dal sangue di Gesù (...). Fare tutto ciò che mi è possibile per la salvezza di tutte le anime, secondo il mio stato, poiché tutte sono costate cosi tanto a Gesù, e sono state tanto amate da Lui».

E qualche mese prima di morire, da Tamanrasset, scrive:

«Santi martiri del Giappone: pregare per la conversione del Giappone, e lavorare per essa, se possibile».

E per salvare le anime, «che sono state salvate a caro prezzo», che pensa di fare ancora?

Non gli mancano certo le parole, la preoccupazione di fare quanto gli è possibile per il bene dei suoi prossimi, ma pensa soprattutto di annientarsi ancor più nelle umiliazioni di Cristo. E' sempre la medesima prospettiva.

«Praticare il Vangelo nel suo insegnamento di abiezione e di povertà »

« Se potessi - ma non mi è possibile - far qualcosa di diverso dal perdermi totalmente nell'unione con la sua divina Volontà, preferirei per me il totale insuccesso, la perpetua solitudine e il fallimento in tutto. Qui si trova una tale unione con l'abiezione e la croce del nostro Bene-Amato, che mi è sempre sembrata la cosa da preferirsi a qualunque altra».

«Perché è nell'ora del maggiore annientamento che il Salvatore ha compiuto la nostra redenzione» secondo il detto di san Giovanni della Croce, che fratel Charles ama ripetere e che scriverà ancora, il lº dicembre 1916 a Massignon.

Gli si rivela come il commento della parola di Gesù: «Se il chicco di grano non cade in terra e non muore, rimane solo; se muore, porta molto frutto» (Gv. 12, 24).

«Gesù ha salvato il mondo con la croce; con la croce - lasciamo Gesù vivere e completare in noi, attraverso le nostre sofferenze, quel che manca alla sua passione - noi dobbiamo continuare, fino alla fine dei tempi, l'opera della redenzione. Senza croce, non c'è unione con Gesù crocifisso, né con Gesù Salvatore».

Quest'ultima citazione è tratta dal Directoire, scritto per i cristiani che, stando nel mondo, vogliono consacrare la loro vita alla diffusione dei regno di Gesù.

LA FONTE DELLA GIOIA

A leggere continuamente negli scritti di fratel Charles parole come: «povertà, abiezione, sofferenza, annientamento » (...), viene spontanea una domanda: in tal modo, non si finisce per avere della vita cristiana una visione troppo tetra, caratterizzata soltanto dal dolore e priva di gioia?

Bisogna certamente precisare che fratel Charles scrive spesso per aiutare se stesso, per incoraggiarsi: le sue sono meditazioni, risoluzioni prese nei ritiri, esami di coscienza. Ma bisogna anche dire che spinto dall'amore, e da un amore senza misura, ha teso il suo arco fino al limite estremo. «È l'ora d'amare Dio».

Ma nonostante ciò fratel Charles fu un uomo felice, e non soltanto quando gli veniva dato di assaporare le dolcezze del Signore, la sua Presenza, la sua immensa Pace, e la gioia di essere da Lui amato e di amarlo. «La dolcezza e la pace sono così profonde, così divine, quando ci si inabissa nel cuore di Gesù, e nel suo puro amore».

Ma fu sempre felice, soprattutto perché aveva scoperto una fonte viva, un'acqua zampillante incessantemente. Questa fonte, in lui, fu la somiglianza con Gesù: essere come Lui, agire come Lui. Non c'è gioia più grande, per chi ama, che l'essere simile al suo Bene-Amato. «Tutto ciò che fa essere simili all'Amato, unisce a Lui ed è felicità perfetta».

Egli prega come Gesù, digiuna come Lui, è povero, è spiritualmente piccolo come lui, lavora con le proprie mani come Lui... La sua casa è come la casa della Sacra Famiglia a Nazareth. E «Tamanrasset, coi suoi quaranta focolari di poveri contadini, assomiglia proprio a quella che poteva essere la Nazareth e la Betlem dei tempi di Nostro Signore», scrive il 4 dicembre 1912.

È dono del cuore che ama, trovare in ogni cosa una traccia dell'Amato. Charles de Foucauld è un uomo che pensa, riflette e agisce con perspicacia. energia e precisione, in tutto ciò che fa. Ma il suo occhio si spinge al di là delle cose visibili, e la sua fede è di una semplicità tale che tutto gli appare «illuminato da una luce celeste e bello della bellezza divina».

Tutto gli ricorda Gesù, tutto lo riporta a. Gesù; i più piccoli avvenimenti della sua vita, come i più importanti. Tutto è riportato all'immagine di Gesù. E questo suo vedere gli ispira frasi delicate, di una limpidità e tenerezza ineffabili, come queste:

«Camminare a piedi e senza alcun bagaglio, lavorare con le mie mani, come faceva Gesù a Nazareth».

«Servire i malati, i poveri come Gesù che lavava i piedi dei suoi apostoli».

«Dare agli ospiti più che a me stesso vedendo in tutti gli uomini Gesù. Per me, pane d'orzo e non di grano. Lasciare il pane di grano a Gesù».

«Desiderare di essere derubato. Affidare, come Gesù, il poco che ho a un ladro (...)».

Quale fede e quale eccesso d'amore non rivelano queste parole! E quale estremo desiderio di essere in tutto simile con Colui che è amato in modo così appassionato.

Come stupirsi allora se fratel Charles parla sia di «far compagnia a Gesù», e sia che «Gesù gli fa compagnia». Arrivato all'Hoggar per stabilirvisi, nell'agosto 1905 costruisce a Tamanrasset una capanna, una casa di argilla e di pietre, di due vani, ciascuno di metri uno e settantacinque per due e settantacinque. Il 26 agosto 1905 scrive:

«Ch'io possa essere fedele a Gesù, che si è fatto così piccolino da venirmi a fare compagnia, in questa casa più piccola di quella di Nazareth».

TUTTO CIÒ CHE UNISCE ALLA CHIESA... UNISCE A GESÙ

Queste parole, scritte a Nazareth, mi sembrano essere la sintesi della sua fede nella Chiesa.

Il mistero della Chiesa, che si rivelò per la prima volta alla sua anima, quando ricevette dall'abate Huvelin l'assoluzione dei suoi peccati, gli si manifestò all'inizio come legato al mistero dell'obbedienza cristiana, cioè all'obbligo che il cristiano ha di cercare la volontà di Dio nell'obbedienza alla Chiesa. Ad un uomo tutto d'un pezzo, dalla volontà energica e indomabile, capace di fare, da solo, cose che nessuno aveva mai fatto, era necessaria, quando la grazia lo prese e gli sconvolse la vita, l'obbedienza a chi rappresentava ai suoi occhi la Chiesa. Altrimenti, a quali eccessi non sarebbe egli giunto? Si sottomise a questa autorità: lo si vede chiaramente attraverso i fatti della sua vita, in quella sua ricerca appassionata della volontà di Dio, lungo strade che nessuno aveva percorso.

Non gli fu facile. E spesso dovette rimeditare le parole che Gesù aveva detto ai suoi apostoli «Chi ascolta voi, ascolta me».

Così scrive da Béni-Abbès all'abate Huvelin, il 13 dicembre 1903, in un momento in cui si sente come spinto ad inoltrarsi ancor di più verso il Sud:

«Mi scriva o mi telegrafi (Béni-Abbès, per Béni-Unif, Sud-Orano), e io obbedirò immediatamente alla sua parola, come alla parola stessa di Gesù: 'Chi ascolta voi, ascolta me' (...)».

Quale obbedienza e quale impazienza; e non si trova a Béni-Abbès che da due anni! E nella lettera non dimentica di aggiungere: «Ho la sensazione, il presentimento ben preciso di dover partire il 10 gennaio».

Charles de Foucauld è uomo di azione, e un fuoco lo brucia dentro. Però sa ubbidire come un bambino, poiché Dio si è fatto ubbidiente, da Nazareth alla croce. Ascolta Gesù che gli dice:

« Quando predico a Nazareth (...) sull'obbedienza, io che vissi sottomesso per trent'anni ai miei genitori, santi certamente, ma uomini, e io sono Dio! ... come potete voi, - dopo avermi visto ubbidire così a quelli cui non dovevo alcuna ubbidienza, dei quali anzi ero il Maestro sovrano, il Creatore e il Giudice - rifiutare un'obbedienza perfetta a coloro di cui, io, vostro Dio, vi dico: "Chi ascolta voi, ascolta me"?».

Va precisato che nello stesso momento in cui vede riflessa su tutta la vita umana di Cristo la luce dell'«Uomo dei dolori», vede anche riflessa in essa la gloria divina dei Creatore. Il suo modo di vedere fa astrazione dal tempo, per cui può scrivere nella sua meditazione: «così ubbidiente a persone cui non dovevo nessuna ubbidienza». Non bisogna cercarvi un pensiero teologico sull’Incarnazione.

Il mistero della Chiesa è anche il mistero del Corpo mistico di Cristo, composto da tutte le membra viventi di Cristo.

Charles de Foucauld vede dapprima la Chiesa in tutta la sua estensione, ed è preoccupato di unirsi a questa enorme Chiesa, composta da tutti i figli di Dio, da tutti coloro «che lo Spirito di Dio vivifica», e - idea schiettamente paolina vi aggiunge tutta «la creazione, che in attesa, aspira alla rivelazione dei figli di Dio e spera di essere liberata dalla servitù e dalla corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio » (Rom. 8, 18-21).

In questa sua volontà di essere unito alla Chiesa, Charles de Foucauld perviene a ciò che costituisce la vocazione primaria della creazione e della Chiesa dei figli di Dio: l'adorazione e il rendimento di grazie, la lode e l'amore.

E così, recitando l'Ufficio divino, egli unisce la sua preghiera alla preghiera della Chiesa, «della diletta Chiesa, sposa di Cristo» nel suo triplice stato di Chiesa terrestre, di Chiesa che soffre e di Chiesa della Gerusalemme celeste.

La Chiesa terrestre Charles de Foucauld vede soprattutto come la sposa del Cristo crocifisso, poiché, dopo la morte di Cristo sulla croce, essa deve continuare l'opera di lui, la redenzione del mondo. E tale salvezza, tale redenzione non la si può compiere senza la croce.

«La via regale della croce: la sola via degli eletti, la sola via della Chiesa, la sola via per ciascun fedele. Questa è la legge fino alla fine del mondo: la Chiesa e le anime, spose dello Sposo crocifisso, dovranno condividere le sue spine e portare la croce con Lui. La legge dell'amore vuole che la sposa condivida la sorte dello Sposo».

. Alla Chiesa tutta, e a ciascuno dei suoi membri, si applica la parola di Gesù sull'efficacia di ogni ministero, di ogni apostolato. «Se il chicco di grano non cade in terra e non muore, resta solo; se invece muore, porta gran frutto » (Gv. 12, 24). E come precisa san Giovanni della Croce: «E' nel momento del suo supremo annientamento, della sua morte, che Gesù ha salvato il mondo».

Visione della fede e mistero di perfetta speranza, che non conducono ad una rassegnata accettazione del fallimento o a una timidezza e a una prudenza naturali, ma che suppongono che la Chiesa, fedele alla sua missione di predicare il vangelo ad ogni creatura, gridi, a tutti, queste forti parole di Gesù: «Fuoco son venuto a portare sulla terra, e che altro voglio se non che sia acceso! Io sono in attesa di ricevere un battesimo, e quale non è la mia angoscia fino a che non l'avrò ricevuto!».

E Charles de Jésus non sopporta che la Chiesa abbia paura, o che sia timida e prudente. Così scrive ai suoi superiori che gli consigliano prudenza a proposito di quanto andava facendo in favore degli schiavi:

«Le ragioni che lei ha la bontà di espormi con tanto affetto, e che per me hanno tanto peso perché vengono da lei (...), e per il loro incontestabile intrinseco valore, non possono impedirmi - sia detto un’ultima volta, affinché l'anima dei figlio non abbia alcun segreto per quella del padre e si apra interamente, senza alcuna reticenza, ad essa - di rilevare con mio sommo rincrescimento che i rappresentanti di Gesù si limitano a difendere 'in un orecchio' (e non 'sui tetti') quella che è la causa della giustizia e della carità».

E' con questo tono umile che i santi ricordano alla Chiesa le esigenze della sua missione.

LA VERGINE MARIA E I SANTI

Charles de Foucauld amò moltissimo i santi, ma a modo suo, un modo assai personale. Lui, il cui unico amore è Gesù, il cui unico modello è Gesù, non vuol essere discepolo di nessun altro.

Leggerà gli scritti dei santi, soprattutto quelli di san Giovanni Crisostomo, di santa Teresa d'Avila e di san Giovanni della Croce, che hanno avuto grande influenza sulla sua anima. Ma dice: «Accogliamo il Vangelo. È sul Vangelo, secondo il Vangelo, che saremo giudicati (... ), non secondo questo o quel libro, secondo questo o quel maestro spirituale, secondo questo o quel dottore, questo o quel santo».

Leggerà anche alcune vite di santi, poiché la loro vita è «una specie di commento al Vangelo», per cui: «Guardiamo pure ai santi, ma non fermiamoci troppo a contemplarli. Contempliamo piuttosto insieme ad essi Colui la cui contemplazione ha riempito tutta la loro vita (... ), cogliendo da ognuno ciò che ci sembra maggiormente conforme alle parole e agli esempi del Signore Gesù, nostro unico e vero modello, servendoci così delle loro lezioni, non per imitare loro, ma per meglio imitare Gesù».

È il commento alla parola di Gesù: « Voi non avete che un solo Maestro, un solo Dottore: il Cristo» (Mt. 23, 8-10) e la sovrana libertà di chi non ha che un solo amore.

Se si vuol dunque comprendere qual è il posto dei santi nella sua vita, bisogna fare questa prima

osservazione: non troveremo certamente in lui la conclusione di una riflessione teologica sull'unico

Mediatore che è il Cristo, ma il frutto di una visione di fede e di una meditazione del Vangelo. Egli fa dire a Gesù: «Sii me, me solo (... ). Non venire a Bethania per vedere me, ed anche per vedere Lazzaro; vieni per me, me, me solo».

S'impone una seconda osservazione.

I santi che ama di più, quelli con cui vive nella sua solitudine, dopo il suo soggiorno in Terra santa, sono i santi del Vangelo, cioè i santi che hanno vissuto con Gesù durante la sua vita terrena. La ragione profonda è questa: fratel Charles, per la sua fede vivissima e l'ardore del suo amore, è diventato il contemporaneo di Gesù. Non che viva nel. passato, ma sua vita è «una vita con Gesù», come se Gesù non avesse mai lasciato la terra. Cosa d'altronde più che legittima, poiché dopo la venuta del Figlio di Dio fatto uomo, la terra reca in sé una Presenza divina.

Scrive a Béni-Abbès:

« Mi trovo nella casa di Nazareth, tra Maria e Giuseppe, stretto come un fratello più piccolo accanto al mio fratello maggiore Gesù, presente notte e giorno nell'Ostia Santa».

E da Tamanrasset, il 16 dicembre 1905, scrive:

«Non tormentarti di vedermi solo, senza amici, senza aiuto spirituale: non soffro minimamente per la solitudine, che trovo invece dolcissima. Ho il santo Sacramento, il migliore degli amici, con cui parlare giorno e notte; ho la santa Vergine e san Giuseppe, ho tutti i santi».

I santi del Vangelo, popolando in tal modo la sua solitudine, sono i suoi invisibili compagni di ogni giorno.

E prima fra tutti, la Vergine Maria, che egli chiama sua Madre, poiché egli è «il piccolo fratello» di Gesù, e poiché la contempla - dal momento dell’annunciazione alla croce, o seguendo l'ordine delle festività liturgiche, o secondo il succedersi delle sue meditazioni, delle sue particolari occupazioni e degli avvenimenti della sua vita - con nell'anima il desiderio di amarla come Gesù l'amava, e di fare per lei tutto ciò che Gesù faceva. Perciò, entrando nella santa Famiglia, diventa, anche lui, per la gente di Nazareth: «l'operaio, figlio di Maria».

«Ritorno alla mia vita di 'operaio, figlio di Maria'», scrive il giorno 8 maggio 1899 - parole che evocano in modo meraviglioso la sua identificazione col suo Amato fratello Gesù.

La vita della santa Famiglia continua; ed egli ne vive gli avvenimenti successivi, innestati sugli avvenimenti della propria vita. Da Tamanrasset, così scrive il 9 giugno 1908:

«Ho due eremi, a mille e cinquecento chilometri l'uno dall'altro! Passo tre mesi in quello del Nord, sei mesi in quello del Sud, tre mesi per andare e venire, ogni anno. Quando mi trovo in un eremo, vivo in clausura, sforzandomi di farvi una vita di lavoro e di preghiera. Durante il viaggio, penso alla fuga in Egitto, e ai viaggi annuali della santa Famiglia a Gerusalemme».

Dopo la Vergine e san Giuseppe, il capo della santa Famiglia, vengono il precursore san Giovanni Battista, gli apostoli, le pie donne, e soprattutto Maria Maddalena, che egli identifica - come si sosteneva ai suoi tempi - con Maria di Bethania, sorella di Marta e di Lazzaro.

Così tutti gli amici di Gesù sono diventati suoi amici. Con loro legge il Vangelo; con loro guarda e ascolta il Signore, lo adora, lo loda, ha compassione per le sue sofferenze, e gioisce delle sue gioie. E quando rivolge ad essi la preghiera, è per chiedere che lo aiutino ad amare sempre più l'unico Bene-Amato.

Cominciando a scrivere alcune meditazioni sul Vangelo, nota:

«Madre mia, santa Maddalena, san Giuseppe, san Giovanni Battista, san Pietro, san Paolo, mio caro Angelo, pie donne che avete spezzato i vostri vasi di profumi per imbalsamare il Signore, spezzate questo mio lavoro, e spezzate me, soprattutto me, e diffondetemi, come un profumo di soave odore, sui piedi del Signore».

LA « SAINTE BAUME » CHE È NELL'HOGGAR

La « Sainte-Baume » è una montagna che si erge tra la Provenza ed il Rodano, nel Massiccio Centrale francese. Una leggenda vuole che in una delle sue grotte naturali abbia trascorso i suoi ultimi anni nella contemplazione, Maria di Bethania, sorella di Marta e di Lazzaro, dalla tradizione e da Charles de Foucauld identificata con la Maddalena, la peccatrice. «Sainte-Baume» letteralmente significa «Sacro-Balsamo», proprio a ricordo del gesto compiuto da Maria, nei confronti di Gesù, durante la Cena di Betania, narrata in Gv. 12, 1-11. Charles de Jésus rileva due significati di «SainteBaume»: uno attinente all'espressione letterale, che è quella da noi ricordata; l'altro che si rifà alla contemplazione, quale gradino ultimo dell'ascesi mistica e che viene ad equivalere al termine più noto di monte Carmelo. Charles opera qui, naturalmente, una trasposizione geografica, in quanto parla non del monte francese, ma, presumibilmente, del monte Atakor (m. 2918), il più alto del Massiccio dell'Hoggar sahariano, ribattezzato «Sainte-Baume» ed investito di significato mistico (N.d.E.).

Al di là del monte Oreb, nel Sinai, chi vuol adorare, il Signore e contemplarne il volto, ascende solitario la montagna. La tradizione contemplativa della Chiesa a ricordo del profeta Elia, e dopo san Giovanni della Croce, ha chiamato questo alto monte della contemplazione il monte Carmelo.

Fratel Charles de Jésus lo chiama la «SainteBaume». Sopravvivenza di una tradizione provenzale che voleva che alla «Sainte-Baume» fosse vissuta, sola, tutta assorta nella contemplazione e nell'amore purissimo di Dio, Maria Maddalena, durante gli ultimi anni della sua vita. E Charles de Foucauld, attribuendole il gesto di Maria, sorella di Lazzaro, la vede in Bethania mentre «prende una libbra di profumo di nardo prezioso e ne unge i piedi di Gesù » (Gv. 12, 3): «Essa, o Signore, ti dà tutto il suo essere (... ), tutto ciò che è e tutto ciò che ha, come farà più tardi alla «Sainte-Baume».

Questo monte simbolico, la «Sainte-Baume» è, per fratel Charles, una esperienza immaginosa, che gli ricorda il destino, la vocazione essenziale del cristiano che ha ricevuto la rivelazione perfetta: «La vita eterna» - dice Gesù - «è che riconoscano Te; o Padre, il solo vero Dio, e colui che Tu hai mandato, Gesù Cristo» (Gv. 17,3).

«Conoscere Dio, così come si è rivelato, contemplarlo per adorarlo ed amarlo al di là di ogni limite»: quanti cristiani hanno dimenticato questa verità essenziale della loro fede, essendosi lasciati prendere dalle tenebre del mondo moderno, angosciato dalla paura della solitudine e del silenzio. I cristiani del nostro tempo dovrebbero meditare queste parole scritte da Charles de Foucauld a Maria de Bondy, il 16 gennaio 19 12, da Tamanrasset:

« L'anima non è fatta per il frastuono, ma per il raccoglimento, e la vita dev’essere una preparazione al cielo, non soltanto per mezzo delle opere meritorie, ma per mezzo della pace e del raccoglimento in Dio. L'uomo invece s'è gettato in discussioni infinite; la medesima soddisfazione che ricava dal frastuono, basterebbe a provare quanto egli si smarrisca lontano dalla sua vera vocazione»

Come gli ebrei, come Mosè, come i profeti e molti santi, «bisogna passare attraverso il deserto, e soggiornarvi per ricevere la grazia di Dio: è là che uno si svuota, là che uno scaccia via da sé tutto ciò che non è Dio (... ). In questa solitudine, in questa vita, vissuta soli con Dio solo (... ), Dio si dà totalmente a colui che totalmente si dà a lui».

È quanto Charles de Foucauld fece con se stesso. Partito dalla Sainte-Baume il 9 settembre 1901, di buon mattino, s'imbarcò a Marsiglia a mezzogiorno, e per quindici anni, fino al giorno della sua morte, non vi fu per lui che il deserto, prima di Béni-Abbès, poi dell'Hoggar, fino a quest'alta montagna, l'Askrem.

Esperienza vissuta, ma soprattutto simbolo di una vita in solitudine, e di un cammino silenzioso verso quel Dio che l'uomo, chiamato e salvato da Lui, non finirà mai di conoscere e d'amare.

E Gesù gli dice: «Bisogna frantumare tutto ciò che non sono io (... ); bisogna che tu ti faccia un deserto, dove vivere solo con me allo stesso modo con cui santa Maddalena era sola, nel suo deserto, con me»

Dove si trova questo deserto? Qual è questo sentiero sconosciuto che conduce non sulle montagne della terra, l'Oreb, la «Sainte-Baume», l'Askrem, ma su quella montagna dove l'anima è sola con Gesù, la montagna della stessa anima dove abita Dio?

È il deserto, il sentiero sconosciuto della fede pura e della nuda speranza.

L'inizio del sentiero è la preghiera, lunga e silenziosa, umile e perseverante, tutta volta all'adorazione e all'amore. «Moltissimi giorni e moltissime notti davanti al santo Sacramento (... ), ore di silenzio ai piedi dell'Ostia Santa »( ... ). «Dolce Sainte-Baume!», dirà quando, in marcia con una carovana nel deserto, scrive il 21 gennaio 1904, tra Béni-Abbès e Adrar: «Credo di fare la volontà di Dio, e cammino in pace; ma come desidererei giorni di solitudine ai piedi del Tabernacolo! Come mi appare dolce la ' Sainte-Baume» .

Spinto dall'amore salvifico di Gesù, si addentra poco dopo nel deserto, dove dovrà restare solo, «sotto gli occhi di Dio», così scrive. E aggiunge: «Sono il più felice degli uomini! La solitudine in compagnia di Gesù è un colloquio pieno di ogni delizia». Ma che fede non richiede il perseverare, giorno dopo giorno, in tale solitudine. Come doveva esser vero, lungo i dieci anni di permanenza nell'Hoggar, quanto scriveva già dal 6 giugno 1897: «Bisogna che io trovi un aggancio nella vita di fede»; come lo stanno a provare queste altre parole, scritte il 15 luglio 1916 da Tamanrasset, e che rivelano l'indomabile energia della sua anima sotto la spinta della fede: «L'amore consiste non nel sentire che si ama, ma nel voler amare. Quando si vuole amare, si ama; quando si vuole amare sopra ogni cosa, si ama sopra ogni cosa».

E, giorno dietro giorno, vive solo, in pace, solo, di fronte alla violenza degli uomini - fin dal primo giorno sapeva che quella vita non era senza rischi -, solo di fronte alla malattia e ai rischi della fame, in un paese arido, non avendo come custode che Gesù solo, che Dio solo. Il cammino della nuda speranza.

Tre testi vanno citati, che rivelano la sua pace straordinaria:

«Cinque, giorni fa sono stato morso da una vipera. Ho potuto medicarmi subito, perciò non mi sento in pericolo... Di solito, quando si ricevono immediatamente le prime cure, si guarisce subito e senza che rimangano tracce (... ). Il piede però mi duole ancora moltissimo, ed è possibile che vi si formi una brutta piaga. Sto nelle mani di Gesù».

Dopo una malattia:

« Non stare inquieta se sono ancora una volta ammalato e solo; c'è Dio, che aiuta direttamente, come aiuta attraverso gli altri. Sono stato in una grande pace».

E ancora queste parole squisite:

«Mi sono accorto da poco d'esser diventato quasi sordo all'orecchio destro (... ). È probabile che prima o poi lo stesso succederà anche al sinistro: per un eremita, la sordità è la malattia desiderata».

Pace perfetta sotto gli occhi di Colui che egli ama e da cui è riamato. Pace che non muta, che non può essere gustata che sulla sommità della montagna.

«Vivere in alto, non essere più in terra, vivere in cielo come santa Maddalena alla 'Sainte-Baume'. Questa 'Sainte-Baume' che è spesso il più imperioso bisogno dell’anima, e spesso il coronamento della vita terrena».

IL PADRE MIO, CHE E' ANCHE PADRE VOSTRO

Mi sembra che proprio lungo il sentiero della fede pura e della nuda speranza, nel deserto, «sotto gli occhi di Dio», Charles abbia sperimentato ciò che la sua fede gli aveva rivelato, fin dal primo giorno: che Dio è Padre, Padre di Gesù Cristo e Padre nostro. Ed è stato anche il frutto della perfetta rassomiglianza, dell'identificazione della sua anima con quella del suo amato fratello e Signore Gesù, perseguita giorno dopo giorno, da Nazareth a Tamanrasset. Così l'anima del Signore si è come tutta riversata nella sua anima, e le ha comunicato questo sentimento di amore di figlio, quale si è espresso in quella preghiera che vien chiamata «la preghiera dell'abbandono», e che ci dà, sulla paternità divina, una luce maggiore di quanto non potrebbero fare lunghe meditazioni.

Più che di una preghiera, d'altronde, si tratta dell'espressione dello stato della sua anima, delle disposizioni più profonde di tutto il suo essere, di fronte a Dio, nei riguardi di Dio Padre. Per cogliere ciò che questa preghiera rivela, e intenderne tutta la risonanza evangelica, bisogna accostarla ad alcune parole di Gesù.

Padre mio,

«Padre», dice Gesù.

Io m'abbandono a te. Fa' di me quel che ti piacerà.

« Sì, Padre, ti è piaciuto. Non mi hai lasciato solo, poiché io faccio sempre quello che a te piace ».

Qualunque cosa tu voglia fare di me, te ne ringrazio; son pronto a tutto, accetto tutto.

«Se voi sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro che è nei cieli ne darà di buone a tutti coloro che gliele chiederanno».

Purché la tua volontà si compia in me, in tutte le tue creature, non desidero altro, Dio mio.

«Venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà, in terra come in cielo. Abba, Padre: non ciò che voglio io, ma ciò che tu vuoi».

Metto la mia anima nelle tue mani: te la do, mio Dio, con tutto l'amore del mio cuore, perché ti amo,

«Rimetto il mio spirito nelle tue mani». «Bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre e che agisco così come il Padre mi ha ordinato».

e perché per me è un bisogno d'amore il donarmi, l'abbandonarmi nelle tue mani senza misura

«Il mio cibo è fare la Volontà di Colui che mi ha mandato». «Il Padre stesso vi ama, perché voi mi amate».

e con una confidenza infinita:

«Non temete, piccolo gregge, perché è piaciuto al Padre di darvi in dono il regno».

poiché Tu sei mio Padre.

«Il Padre mio, che è anche Padre vostro».

Charles de Jèsus, essendosi abbandonato, senza misura, a Dio, è «nelle mani del Padre», e «nessuno, dice Gesù, può strappare niente dalle mani del Padre» (Gv. 10,29).

PERCHE' MORIRE?

Il mistero sul quale il cristiano deve maggiormente esercitare la sua fede, è il mistero della propria morte. È una scadenza ineluttabile. Ma, se si pensa ad essa, come vi si pensa? E la si desidera?

Qual era il pensiero di fratel Charles?

Aveva sperimentato in modo profondo che cosa significhi la separazione da chi si ama, e questo fu, lo dice lui stesso, il grande, sacrificio della sua vita, quando il 15 gennaio 1890 abbandonò - e sapeva che sarebbe stato in modo definitivo - la sua famiglia, e in modo speciale Maria de Bondy, che lo aveva riportato a Dio.

Per questo non parla della morte come di una separazione da coloro che si amano sulla terra. Avendo voluto «seppellirsi in Nostro Signore», egli è già morto al mondo. Fin dal 1891 scrive:

«Vorrei andare quanto più presto è possibile vicino a Gesù, ma nessuna cosa mi consente tale speranza (... ). Che la sua volontà si compia pienamente, ch'io resti ancora qui per poco o per molto. Ma questo non m'impedisce, al contrario, di benedire il giorno in cui sarò chiamato. Lo ameremmo ben poco quel giorno, se non desiderassimo con tutto il nostro desiderio di giungere a vederlo. Gesù stesso, la sera di Pasqua, desiderava con immenso desiderio di vedere il Padre suo».

Passano gli anni. E il 20 luglio 1914 scrive:

«Non posso dire di desiderare la morte. L'ho desiderata un tempo. Oggi vedo che c'è tanto bene da fare, tante anime senza pastore, cosicché vorrei soprattutto fare un po' di bene e lavorare un po' per la salvezza di queste povere anime. Ma Dio le ama più di me e non ha bisogno di me. Che si compia la sua volontà».

I Sentimenti per nulla contraddittori, perché ispirati da un amore che è insieme amore di Dio e amore degli uomini, e che spesso si trovano espressi in modo analogo dai santi.

Ma ciò che porta il timbro tutto particolare della sua anima, e che raramente si riscontra formulato con pari forza, è il desiderio del martirio.

In una meditazione, durante il suo ritiro a Nazareth nel 1897, scrive:

«Questa vita sarà seguita dalla morte: tu vorresti quella del martire (... ). Sai di essere vile (... ); ma sai che puoi tutto in Colui che ti dà forza, che è l'Onnipotente nelle Sue creature (... ). Chiedila mattina e sera, ponendo però la condizione che tutto avvenga secondo la Sua Volontà (... ) e, abbi fiducia, Egli farà tutto quello che gli chiedi, ciò che Lo glorifica di più (... ). Ma chiedi ciò, beninteso, perché "è la prova del più grande amore dar la propria vita per ciò, che si ama", ed è giustissimo che tu desideri darmi la prova del più grande amore».

E in una meditazione sulla Passione:

«Ti chiedo, in nome tuo, mio Bene-Amato, la grazia di poter donare con amore, con coraggio, in un modo che ti glorifichi al massimo, il mio sangue per Te».

Ormai, la vita di ogni giorno gli sembra non una preparazione alla morte, ma una preparazione al martirio.

Le risoluzioni prese nel ritiro di Béni-Abbès terminano spesso così:

«Prepararsi senza posa al martirio, e riceverlo senza il più piccolo gesto di difesa, come l'Agnello divino:in Gesù, come Gesù, per Gesù».

Il martirio, per Charles de Jésus, sta a significare allo stesso tempo: imitare Gesù nella sua morte dolorosa e cruenta, dargli la prova del più grande amore e raggiungere così l'unione, la fusione di colui che ama in Colui che è amato.

Così la sua vita quotidiana nella fraternità di Béni-Abbès gli appariva allora come l'attesa di un avvenimento assai prossimo.

«Vivere come se dovessi morire oggi stesso martire. In ogni istante, vivere durante il giorno come se dovessi morire martire la sera».

A Tamanrasset, fino a quel 1º dicembre 1916, ebbe sempre questo desiderio.

Un quadernetto, in cui appuntava le cose da ricordare, comincia con queste identiche parole: «Vivere come se dovessi morire oggi stesso martire», e termina con tre preghiere, che ripetono con insistenza la stessa supplica:

«Signore Gesù, che hai detto: 'Nessuno ha un amore più grande di colui che dà la sua vita per i suoi amici', desidero con tutto il mio cuore dare la mia vita per te. Te lo chiedo incessantemente ».

Nel testo della seconda preghiera, dopo: «desidero con tutto il mio cuore dare la mia vita per Te», ha aggiunto:

«Grazie della speranza che Tu me ne hai dato ».