lunedì 14 maggio 2012

Sullo Spirito "Consolatore" - 2



Saggi di esegesi sul Vangelo di oggi, 14 maggio, 
lunedi della VI settimana di Pasqua.



1. J. Ratzinger - Benedetto XVI


"Vedere Gesù" nel Vangelo di Giovanni

I discorsi dell'addio, tramandati nel Vangelo di Giovanni, oscillano in maniera tutta singolare tra tempo ed eternità, tra l'incombere della passione di Gesù e una sua nuova presenza, essendo la passione già di per sé anche "esaltazione" del Figlio. Da una parte grava su questi discorsi l'oscurità del tradimento e della diserzione, del consegnarsi di Gesù all'estrema umiliazione della croce; dall'altra, tutto questo sembra già vinto e trasfigurato nella gloria a venire. Gesù indica la sua passione come un andarsene, preludio di un nuovo e più intenso ritorno, come un cammino di cui i discepoli già sono a conoscenza. E la domanda di Tommaso non si fa attendere: «Signore, non sappiamo dove vai, come possiamo conoscere la via?». La ri-sposta di Gesù è divenuta una proposizione centrale della cristologia: «Io sono la Via e la Verità e la Vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me». Questa rivelazione del Signore suscita una nuova domanda - o piuttosto una richiesta - questa volta presentata da Filippo: «Signore, mostraci il Padre e ci basta». Gesù risponde con una nuova rivelazione, che sotto altro aspetto introduce nella profondità della sua coscienza, nel cuore della fede cristologica della Chiesa: «Chi ha visto me, ha visto il Padre» (Gv 14,2-9). L'ancestrale aspirazione dell'uomo alla visione di Dio si era espressa nell'Antico Testamento come "ricerca del volto di Dio". Anche i discepoli di Gesù sono dei cercatori del volto di Dio: per questo hanno seguito il Maestro. E ora, nella sorprendente risposta data a Filippo ecco condensata, come in un cristallo, tutta la novità del Nuovo Testamento che irrompe attraverso Cristo: Dio si può vedere, è visibile in Cristo. Questa rivelazione, che qualifica il cristianesimo come religione della compiutezza, ovvero della presenza divina, dà adito immediato ad una nuova domanda, volta a comprendere che cosa significhi il "già-e-non-ancora" come struttura fondamentale dell'esistenza cristiana. Un interrogativo che sentiamo risuonare in tutto il cristianesimo post-apostolico: com'è possibile vedere Cristo e contemporaneamente vedere il Padre? Il Vangelo di Giovanni affronta la questione non nei discorsi del cenacolo, ma il giorno del festoso ingresso in Gerusalemme, allorché alcuni greci, venuti per la Pasqua, si presentano a Filippo, il discepolo che nel cenacolo chiederà di poter vedere il Padre.Filippo è originario di Betsaida di Galilea, una regione fortemente ellenizzata della Terra Santa, e il desiderio espresso dai greci suona: «Signore, vogliamo vedere Gesù» (Gv 12,20s). E la richiesta del mondo pagano, ma è anche quella dei cristiani di tutti i tempi, e pure la nostra: Vogliamo vedere Gesù! Ma com'è possibile questo? Filippo la trasmette al Signore, facendosi accompagnare da Andrea; ma non sappiamo se l'incontro dei greci con Gesù sia realmente avvenuto. Abbiamo però la risposta di Gesù, misteriosa come quasi tutte le risposte che nel quarto Vangelo il Maestro riserva ai grandi interrogativi dell'umanità. Con le sue parole egli dischiude un orizzonte del tutto inatteso in questo momento; vede infatti, in tale richiesta, l'approssimarsi della sua glorificazione, che esprime con queste parole: «... se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (12,24). La glorificazione avviene nella passione, e da essa deriva il frutto abbondante: cioè - possiamo noi completare - la Chiesa dei gentili, l'incontro di Cristo con i greci, rappresentanti di tutti i popoli della terra.
La risposta di Gesù, in questo modo, va oltre la situazione del momento per proiettarsi nel futuro: «Certamente i greci mi vedranno, e non solo questi venuti da Filippo, ma tutto il mondo dei greci. Mi vedranno non nella mia esistenza terrena e storica, "secondo la carne" (cfr. 2Cor 5,16), ma attraverso la mia passione. Attraverso di essa io vengo, e non più soltanto in un limitato spazio fisico ma oltre tutti i confini geografici, nella vastità del mondo che desidera vedere il Padre». Gesù annuncia la sua venuta con la risurrezione, nella potenza dello Spirito Santo, e quindi un nuovo modo di "vedere" nella fede. Perciò la passione non è accantonata come qualcosa di obsoleto, ma rimane il luogo dal quale e nel quale soltanto egli può essere visto. Gesù estende la parabola del chicco di grano, che soltanto morendo diventa fecondo, a norma basilare di un'esistenza umana autentica, di un'esistenza nella fede: «Chi ama la sua vita la perde, e chi odia la sua vita in questo mondo la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuole servire mi segua, e dove sono io là sarà anche il mio servo» (Gv 12,25s). Il vedere si realizza nella sequela, che significa vivere nel luogo dove Gesù dimora. Questo luogo è la sua passione, qui soltanto è presente la sua gloria. Che cos'è accaduto? L'idea del "vedere" ha assunto una dinamica insospettata. Si vede mediante un modo di vita definito "sequela". Si vede prendendo parte alla passione di Gesù. E lì che, in lui, si vede anche il Padre. Acquista così tutto il suo alto significato la profezia riportata da Giovanni a conclusione del racconto della passione: «Guarderanno a colui che hanno trafitto» (Gv 19,37; cfr. Zc 12,10)2. Vedere Gesù, vedendo in lui allo stesso tempo il Padre, è un atto dell'intera esistenza. Sotto l'aspetto terminologico occorre precisare che l'espressione "volto di Cristo" non compare nei testi giovannei, che tuttavia appaiono intimamente legati ad una tematica centrale dell'Antico Testamento, il cui contenuto religioso si esprime in tutta una serie di testi come "ricerca del volto di Dio". Esiste pertanto una stretta continuità tra il giovanneo "guardare a Cristo" e il tendere veterotestamentario alla visione del volto di Dio. Paolo dà risalto anche al legame terminologico quando, nella seconda lettera ai Corinzi, parla della gloria di Dio che risplende sul volto di Cristo (4,6). Su questo torneremo più avanti. I passi neotestamentari (Giovanni e Paolo) sul vedere Dio in Cristo sono profondamente ispirati dalla pietà d'Israele e mediante essa si collegano alla storia universale delle religioni; o meglio: essi orientano verso Cristo l'indistinta aspirazione della religiosità umana, portandola a incontrare la risposta. Se vogliamo comprendere, in tutta la sua profondità, la teologia neo-testamentaria del volto di Cristo, dobbiamo richiamarci all'Antico Testamento.

La ricerca del volto di Dio nell'AT
Il termine panîm ("volto") ricorre circa 400 volte nell'Antico Testamento; quasi la metà dei passi riguarda una persona umana o qualche misterioso essere intermedio come cherubini e serafini; a Dio stesso si riferisce oltre un quarto dei passi, quindi un buon centinaio'. Questa frequenza del termine in tutta la letteratura veterotestamentaria ci suggerisce l'importanza del concetto di cui esso è tramite. Dovremo anche chiarire alcune espressioni caratteristiche, quali "cercare il volto di Dio", "splendore del volto di Dio", ecc. Come va interpretata questa nostalgia della visione in una religione che, proibendo del tutto le immagini, sembra escludere assolutamente il "vedere" dal culto e dalla pietà? A che cosa mira l'israelita quando cerca il volto di Dio, pur sapendo che non può esistere alcuna immagi-ne di lui? Si è cercato di far risalire tutto questo complesso lessicale, nelle sue svariate forme, ai culti pagani: la "visione del volto" richiamerebbe la contemplazione di un'immagine; la "luce del volto" fa pensare a divinità astrali, e così via. Si tratta di ipotesi indimostrabili, che nell'insieme hanno trovato scarso credito presso gli studiosi. Si può comunque aderire al presupposto che la terminologia della ricerca del volto di Dio provenga in qualche modo dal culto delle immagini. Ciò aiuta a comprendere meglio la radicalità del passo compiuto dall'Antico Testamento: l'immagine è abbandonata, mentre la ricerca del volto rimane. Viene meno la forma concretizzata, la riduzione della divinità ad oggetto, ma Dio conserva il suo volto. Proprio perché non riproducibile in immagini, egli rimane Colui che ha un volto, che può vedere e può essere veduto. L'antica forma cultuale, che aveva materializzato Dio riducendolo ad un "particolare", è stata dissolta, lasciando così emergere il suo significato più profondo: questo Dio ha un volto, è una "persona". Simian-Yofre nel suo art. cit. «Pànim», assai dettagliato sotto il profilo filologico, ha così riassunto la questione: «Per la sua idoneità a esprimere sentimenti e reazioni, pànîm designa il soggetto in quanto si rivolge ad altri... cioè quale soggetto di relazioni. Pànîm è un concetto che esprime relazioni». Possiamo dire che, nel venir meno del culto delle immagini, proprio col vocabolo pànîm ha preso forma il concetto di persona, e precisamente come dimensione relazionale. Accanto a pànîm occorre menzionare, quale ulteriore forma della medesima intuizione, il termine sem ("nome"): il Dio dell'Antico Testamento rivela il suo nome, col quale può essere invocato. Anche il nome è un concetto relazionale: chi ha un nome può ascoltare e rivolgere a sua volta la parola ad altri; attraverso il suo nome può essere invocato. La filosofia greca ha identificato l'idea di natura, ma non ha conosciuto il concetto e la natura della persona. Per essa la persona non esiste; c'è soltanto l'individuo, ma come una delle molteplici espressioni della natura, l'unica realtà che conta. Quella peculiarità che noi definiamo persona è invece venuta alla luce nel quadro della fede biblica, quando dal rifiuto dell'immagine emerse ciò che vi è di più autentico: quell'essenza che può vedere ed essere vista, che può ascoltare, parlare ed essere interpellata. Fu dunque secondo logica che pànîm venisse reso prevalentemente col greco prósópon ("volto/faccia"), una parola assente dalla filosofia greca come termine tecnico. E giustamente prósopon divenne in latino persona, una parola che poco alla volta vide riconosciuto il suo pieno significato anche in ambito filosofico. Inoltre, non fu un caso se l'approfondimento della nuova nozione, l'evidenziarsi del mistero della persona, avvenne proprio nella disputa sulla dottrina della Trinità. Si può ritenere questo: il termine ebraico pànîm esprime Dio come persona, come un essere che si rivolge a noi e ci ascolta, vede, parla, è capace di amare e di adirarsi; un Dio che è al di sopra d'ogni cosa e tuttavia ha davvero un volto. Esattamente in questo l'uomo è simile a Dio, è sua immagine; dal volto egli può riconoscere chi è Dio, che cos'è e com'è. Verso questo volto si orienta, lo cerca con tutto il suo cuore. Mi sembra importante che a entrambi i concetti - "nome" e "volto" -, da un lato sia soggiacente una profonda intuizione spirituale, divenuta possibile soltanto col rifiuto dell'immagine esteriore; e dall'altro che non si alimenti una nozione puramente concettuale: il guardare sensibile e l'idea del volto restano essenziali. Cerchiamo ora, attraverso un paio d'esempi, di cogliere più da vicino come concretamente, nella fede e nella pietà d'Israele, si presenti la relazione evocata dal termine papam. Risalta in primo luogo l'atteggiamento fondamentale della ricerca del volto di Dio. Recita il salmo 105,3s: «Gioisca il cuore di chi cerca.il Signore. Cercate il Signore e la sua potenza, cercate sempre il suo volto». Il salmo 24 enumera le condizioni richieste per chi desidera entrare nella santa dimora del Signore: mani pure e cuore puro. Tutto è poi condensato nelle parole: «Questa è la generazione di coloro che lo cercano, di quanti desiderano il tuo volto, o Dio di Giacobbe» (Sal 24,6). Ambedue i salmi si richiamano all'ingresso nel santuario, al corteo che introduce l'arca santa nel tempio. Non si può dun-que negare un contesto cultuale: il volto di Dio lo si può incontrare nel tempio, lo si cerca ponendosi in cammino verso il luogo santo. Tuttavia il significato di panîm va oltre il puro dato del culto. Ciò è evidente in Os 5,15, dove Dio, riferendosi a Israele, dice: «Me ne tornerò alla mia dimora, finché non si saranno pentiti e cercheranno il mio volto, e si volgeranno di nuovo a me nella loro angoscia». Questo "cercare" e "volgersi" deve abbracciare tutto l'uomo; soltanto quando egli è "giusto" con tutto il suo cuore, essendo secondo Dio, può sperare nell'incontro con il volto del Signore. Giustamente scrive Simian-Yofre: «Cercare il volto del Signore è un comando di valore universale e permanente». Ciò risulta con chiarezza dal salmo 17: la preghiera del giusto che non si lascia distogliere dalla via di Dio, anche se deve subire le aspre minacce dei suoi persecutori. Nell'insieme si delineano due forme d'esistenza. Da una parte, coloro che si affidano totalmente alle realtà materiali e se ne saziano. Senza provare invidia, il giusto sofferente dice al Signore: «Ricolma pure dei tuoi beni il loro ventre, se ne sazino anche i figli e ne avanzi per la loro prole». L'orante, invece, vede il proprio destino diversamente: «Nella giustizia io contemplerò il tuo volto, al risveglio mi sazierò della tua presenza». Egli vuole un appagamento che non è quello del ventre; desidera saziarsi alla vista del suo Dio; sa che la sua ricerca troverà compimento nella visione. Due aspetti sono importanti in quest'ultimo testo. Innanzitutto, ciò che conferisce all' orante la capacità di vedere Dio è la giustizia. Una parola che compendia l'atteggiamento basilare della pietà veterotestamentaria, ed è l'esatto corrispondente di ciò che il Nuovo Testamento e la Chiesa chiameranno fede. La giustizia è un modo di vita conformato sulla parola di Dio, è un dimorare in questa parola mettendola in pratica. Possiamo dire: giustizia è vita secondo Dio. Il salmo 17 è in consonanza col salmo 24: la ricerca del volto di Dio è un atteggiamento che coinvolge tutta la vita; per poter alla fine contemplare il volto di Dio, l'uomo dev'essere da Dio totalmente illuminato. Va inoltre osservato che il giusto si attende il dono della visione -della beatitudine che darà compimento a tutti i suoi desideri -per il momento del "risveglio". Il salmo, in questo modo, si proietta chiaramente oltre l'esistenza storica dell'uomo; è l'attesa di un risveglio che segnerà l'inizio della vera vita. Proprio per questo il giusto si distingue dai suoi avversari senza Dio, i quali ripongono tutta la loro felicità, e quindi il fine dell'esi-stenza umana, unicamente nella soddisfazione del momento, nel successo e nella sazietà materiale. Essi restano nell'ambito del mondano, imbrigliati nei limiti temporali della vita terrena. Di conseguenza, non può valere per loro il criterio della "giustizia"; si deve allungare la mano là dove sono disponibili successo e soddisfazioni. La giustizia, come "vita secondo Dio", rinvia oltre la nuda materialità e temporalità dell'esistenza terrena. In questa luce, l'osservanza dei precetti di Dio e la prospettiva escatologica appaiono intimamente connesse. Anche se l'idea della vita nuova è qui semplicemente accennata, senza ulteriore sviluppo, l'orientamento escatologico dell'esistenza è di fatto ben evidente per chi cerca il volto di Dio con tutta la sua vita, nella certezza di poterlo contemplare "al risveglio". La ricerca del volto di Dio comporta il superamento del tempo e la speranza escatologica. L'Antico Testamento offre tuttavia anche un anticipo di "ciò che sarà". Nel salmo 24 abbiamo osservato la connessione tra la ricerca del volto di Dio e il culto, rilevando peraltro la necessità di andare oltre il culto. Nel salmo 17 l'elemento cultuale è del tutto assente, ma nella maggioranza dei testi veterotestamentari l'espressione "cercare il volto di Dio" ha un significato cultuale, anzi è addirittura un termine tecnico dell'incontro con Dio nel culto. I tre calendari liturgici (Es 23,14-19; 34,18-26; Dt 16,1-17) menzionano due volte ciascuno l'espressione. Con formulazione quasi identica si stabilisce l'obbligo per gli uomini, tre volte l'anno, di visitare il santuario ("contemplare il volto di JHwH"). «Dt 31,11 prevede, ogni sette anni, la proclamazione della legge davanti a tutto il popolo convenuto per la festa delle capanne nel santuario (di Gerusalemme) a "contemplare il volto di JHwH"». Così, l'evento cultuale diviene un incontro con Dio, una forma di contemplazione del divino; ma alla luce dell'insieme dei testi si rivela più che altro come una sorta di anticipazione, che rinvia oltre se stessa.
Quest'orizzonte complessivo si ripropone quando consideriamo le espressioni riferite alla luce del volto di Dio o all'occultarsi della sua faccia. Luce e vita sono, per l'uomo dell'Antico Testamento, concetti intimamente connessi. Quando si parla dello splendore del volto divino, s'indica Dio come fonte della vita. Sal 4,7b supplica: «Risplenda su di noi, o Signore, la luce del tuo volto», e questo per ottenere vita e salvezza. Altrove la richiesta ha come oggetto la fecondità della terra, la liberazione e la prosperità del popolo: "Rialzaci, Signore nostro Dio, fa' splendere il tuo volto e noi saremo salvi"» (Sal 80,4.8.20). Entra in tema anche l'illuminazione del cuore, affinché l'uomo possa riconoscere i suoi peccati (Sal 90,8). Viceversa, quando Dio nasconde la sua faccia, tutto fa ritorno alla polvere. Per questo, la preghiera affinché Dio non nasconda il suo volto è supplica per la vita stessa, per la capacità di vedere, senza di che nulla può esserci di buono. Il silenzio di Dio, l'occultamento della sua faccia significano punizione. Purtroppo, il nascondersi di Dio può suscitare nel peccatore una sicurezza ingannevole, quasi che Dio non esista. Sembra possibile vivere tranquillamente senza di lui, contro di lui, voltandogli le spalle. Questa sicurezza dell'uomo senza Dio è davvero la sua più profonda rovina. Proprio in questo nostro tem-po del silenzio di Dio, quando il suo volto sembra divenuto ir-riconoscibile, non dovremmo riflettere con un po' di timore sul significato del suo nascondimento? Non dovremmo vedere in ciò la vera sciagura del mondo, e quindi con maggior forza e insistenza gridare a Dio affinché mostri il suo volto? Non si è fatta ancora più urgente, in tale situazione, la ricerca del volto di Dio?

Mosè e Cristo
A completamento di questi accenni sui presupposti veterotestamentari della ricerca del volto di Cristo e di Dio come ce la propone il NT, desidero ancora prendere in esame un testo basilare dell'AT, che lo stesso Paolo - come già è stato accennato - ha ripreso in 2Cor 3,4 - 4,6 leggendolo alla luce di Cristo. Diventa così ancor più palese tutta la novità del cristianesimo, come l'intima unità dei due Testamenti. Intendo il complesso di Es 32-34, dove si racconta il peccato d'Israele, l'adorazione del vitello d'oro, la punizione dei peccatori e infine la contesa di Mosè con Dio, per indurlo ad accogliere di nuovo il suo popolo, dal quale minacciad'allontanarsi. L'intercessione di Mosè raggiunge il suo culmine nell'offerta che fa di se stesso: «Ecco, questo popolo ha com-messo un grande peccato... Ma ora, se tu perdonassi il loro peccato... Se no, cancellami dal tuo libro che hai scritto!» (32,31s). Nel cap. 33 dell'Esodo il nostro tema compare in due passi che sembrano quasi contraddirsi, ma che si sono rivelati di somma importanza per la ricerca cristiana del volto di Dio. Dapprima si descrive il confidenziale rapporto tra Mosè e Dio: «Il Signore parlava con Mosè faccia a faccia, come un uomo parla con il suo vicino» (33,11). In seguito Mosè chiede a Dio: «Fammi vedere la tua gloria!». Questa è la risposta: «Tu non puoi vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo. [...] Ecco un luogo vicino a me. Tu starai sulla rupe: quando passerà la mia gloria, io ti porrò nella cavità della rupe e ti coprirò con la mano finché sarò passato. Poi toglierò la mano e tu vedrai le mie spalle. Ma il mio volto non si può vedere» (33,18.20-23). Da una parte, dunque, c'è il colloquiare faccia a faccia come tra amici, dall'altra l'impossibilità di vedere in questa vita il volto di Dio: l'uomo può conoscerlo soltanto di spalle. Ovvia-mente, nella rilettura cristiana dell'Antico Testamento, questo passo doveva assumere un nuovo significato. Dalle parole di Stefano davanti al sinedrio (At 7,37) deduciamo che la promessa contenuta nel Deuteronomio restava ben presente ai cristiani: «Il Signore tuo Dio susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a me. A lui darete ascolto» (Dt 18,15). Ma in seguito Israele dovette prendere atto della malinconica considerazione con cui si chiude il Deuteronomio: «Non è più sorto in Israele un profeta come Mosè, col quale il Signore s'intratteneva faccia a faccia» (34,10). Stefano vuol di-re che la promessa, fino allora rimasta aperta, si è finalmente avverata in Gesù di Nazaret, il quale, come Mosè sul monte, ha offerto se stesso quale vittima d'espiazione. L'offerta di Mosè non era stata accolta; Cristo invece è divenuto realmente per noi peccato, ha preso su di sé la maledizione (Gal 3,13) e ora è nostro intercessore presso il Padre (1 Gv 2,1). Egli stava ininterrottamente faccia a faccia con il Padre - assai più che un profeta, assai più che un amico, ma come Figlio -, e sul suo volto rifulge per noi la gloria di Dio (2Cor 4,6). Da allora, per gli uomini, la ricerca del volto di Dio si è fatta più concreta: consiste nell'incontro con Cristo, nell'amicizia con lui, che non ci chiama più servi, ma amici (Gv 15,10). Se il conversare di Mosè faccia a faccia con Dio era per il lettore cristiano dell'Esodo un evidente richiamo a Cristo, l'impossibilità della visione piena, limitata alle "spalle di Dio", non poteva però riguardare allo stesso modo Gesù. Nella figura di Mosè era quindi significato sia il mistero di Cristo, sia il cammino dei suoi discepoli, ai quali - perciò a tutti noi, seguaci di Cristo - andava riferito il secondo testo. E questa, fondamentalmente, l'interpretazione di Es 33 presso i Padri; varia tuttavia nei particolari, in specie per il difficile riferimento alla visione delle "spalle di Dio", allo stare nella fenditura della roccia, alle mani di Dio che ci ricoprono. Personalmente, sono sempre attratto dall'interpretazione che ne dà Gregorio di Nissa. Che cosa significa poter vedere Dio soltanto di spalle - scrive il Nisseno - se non che ci è possibile incontrare Dio esclusivamente camminando dietro a Gesù; perciò solamente attraverso la sequela, che è un procedere sulle orme di Gesù, quindi alle spalle di Dio?. Vedere Dio, in questo mondo, significa fare di tutta la nostra esistenza un cammino verso il Dio vivente, nella sequela di Gesù Cristo, il quale ci addita la sua strada, che è l'itinerario del mistero pasquale di passione e morte, di risurrezione e ascensione.

Contemplare Cristo nell'esistenza cristiana
La testimonianza centrale dell'AT sulla visione del volto di Dio ci ha introdotti al NT. In che cosa consiste la vera novità nel Nuovo Testamento? Non si tratta certo di un'idea. La novità è un fatto, o meglio una persona: Gesù Cristo. Nella sua luce numerosi aspetti della religiosità veterotestamentaria si riorganizzano e assumono, soprattutto dopo la distruzione del tempio, una nuova concretezza. Adesso è lui il volto di Dio per noi. Sulla base di questa coscienza ha preso vita la grande arte delle icone, che tuttavia non possono pretendere di rappresentare la meta finale della nostra ricerca del volto di Cristo. Questo vale naturalmente anche per le cosiddette achiropite, ovvero immagini "non fatte da mano d'uomo" che secondo la tradizione avrebbero ispirato le icone di Cristo. Nella disputa tra culto delle immagini e iconoclastia era questo il punto discriminante: l'icona non può diventare un'immagine di Dio a sé stante, quasi a voler rendere la divinità materialmente afferrabile. Deve invece esprimere il dinamismo del superamento, cioè rinviare oltre se stessa, farsi invito a intraprendere la ricerca del volto del Signore: un richiamo a oltrepassare la dimensione materiale e a mantenersi sull'itinerario della sequela, che non potrà mai concludersi in questa vita. Per esprimerci ad un livello teologicamente più rigoroso: l'icona reca in sé una tensione escatologica, e soltanto in questa prospettiva è possibile contemplarla correttamente. Nel secolo XIX da questi impulsi rinasce, collegandosi a forme di pietà tardomedievale, la devozione al Sacro Volto, che giunge ad espressione somma con Teresa di Lisieux, la quale non esita a definirsi "del Bambino Gesù e del Volto Santo". Entrambi questi titoli fanno riferimento alla kénosis di Dio, al suo farsi piccolo in Cristo, al suo discendere nella povertà dell' esistenza umana. E mentre il primo sottolinea preferibilmente l'amabilità di questa discesa, il secondo mette l'accento sull'aspetto della passione, poiché in questo mondo Cristo si presenta col "capo coperto di sangue e ferite" (O caput cruentatum!). In tal modo egli rivela tutto il mistero dell'amore di Dio e il suo vero volto. Volendo approfondire ulteriormente, possiamo distinguere tre momenti basilari nella pietà cristiana - fondata sul Nuovo Testamento - della ricerca del volto di Cristo e del volto di Dio. In primo luogo la sequela, ovvero l'intera esistenza orientata all'incontro con Gesù. In essa il posto centrale spetta all'amore del prossimo; quell'amore che alla luce del crocifisso ci fa riconoscere il volto di Gesù in chi è povero, debole e sofferente. Mettendoci al servizio dei bisognosi, è lui che amiamo, a lui ci accostiamo, lo vediamo e lo tocchiamo (cfr. Mt 25,31-46). Nella realtà, ci è possibile riconoscere Gesù nei poveri soltanto se il suo vero volto già ci è divenuto familiare e prossimo, e questo soprattutto nel mistero dell'Eucaristia, dove continuamente si ripropone per noi la contesa di Mosè sul monte: ora sul monte c'è il Signore Gesù, che per noi "si fa peccato". Egli è il chicco di grano che muore, per potersi donare a tutti noi nell'Eucaristia, vero pane di vita nelle nostre mani. L'Eucaristia, come già per i discepoli di Emmaus, diventa un "vedere": lo riconosciamo allo spezzare del pane, ci cadono dagli occhi le scaglie, guardiamo a colui che abbiamo trafitto, contempliamo il suo capo insanguinato. Così, imparando a conoscere lui, possiamo riconoscerlo nei poveri. In questo senso, appartengono alla pietà liturgica la personale devozione alla passione, l'incontro intimo con Gesù e la stessa pietà popolare. La vera icona nasce da quest'incontro con Gesù e conduce a lui, e di conseguenza, irresistibilmente, anche al prossimo.
Oltre a questi due momenti, tra loro inseparabili, della contemplazione del volto di Cristo, ne riconosciamo un terzo: quello escatologico. Come l'icona è destinata a rinviare sempre oltre se stessa, così la celebrazione eucaristica esprime una ten-sione dinamica verso il Cristo che viene, verso quel "risveglio" in cui egli ci sazierà con il suo volto, con il volto del Dio trinitario. La stessa attenzione al prossimo, le varie forme dell'impegno sociale, devono mirare oltre il momento presente. L'amore, certamente, interviene dove adesso è necessario, soccorre i sofferenti e i bisognosi al presente. La teologia politica voleva posporre quest'aiuto, da offrire subito, al compito primario della costruzione di un mondo migliore. Ma si trattava, e si tratta, d'un intento presuntuoso, col quale si riducono gli individui a strumenti di sogni politici futuri, destinati per lo più a rimanere irrealizzabili. Nemmeno qui, però, manca il solito "granello di verità": in effetti, l'offerta d'aiuto al singolo fa parte della grande lotta dell'amore, della lotta della fede per il compimento del regno di Dio. Il Regno non è una realtà politica realizzabile dall'uomo, ma è dono di Dio, che a noi non è concesso di forzare. E tuttavia sta in rapporto col nostro impegno di sequela nel servizio, poiché l'amore che attraverso l'aiuto materiale non offrisse anche Dio, che non conducesse anche a Dio, che non orientasse al suo volto, darebbe sempre troppo poco. Amore del prossimo e culto sono anticipazioni di ciò che in questo mondo sopravvive come speranza; sono energie della speranza che conducono a ciò che di più grande sta per venire, cioè alla vera salvezza e al vero compimento: la contemplazione del volto di Dio.
Le religioni mondiali e la fede
A conclusione della nostra riflessione vogliamo tornare sul problema della connessione di questa tematica con la storia delle religioni nel suo insieme. Avevamo osservato come l'abolizione delle immagini cultuali - che peraltro avevano mantenuto viva la ricerca del volto di Dio - conducesse al riconoscimento di un Dio personale, e in seguito al concetto di per-sona. E a questo punto che si dividono le vie della storia religiosa. Le grandi costruzioni religiose che non conoscono un Dio personale (ad es. il neoplatonismo e il buddismo, o importanti correnti dell'induismo) enumerano comunque numerose divinità alle quali vengono rivolte preghiere, essendo in grado di aiutare o di nuocere. Queste sono raffigurabili con immagini, hanno un volto, in qualche modo sono anche persone. Sono "dèi", ma non sono Dio. Rappresentano delle potenze operanti in quello spazio intermedio, oltre il quale molti non riescono ad andare. Non appartengono al regno del "definitivo", del "totalmente altro", del vero "autentico". La realtà autentica - che Plotino chiama l'Uno, al di sopra d' ogni essere e d' ogni nome, e che nella concezione buddistica è il Nulla assoluto - non ha nome e non ha volto. Il fine ultimo di ogni purificazione e di ogni forma di salvezza sta nell'uscire dalla cerchia dei nomi e dei volti, delle distinzioni e delle contrapposizioni, per entrare nell'anonimato dell'Uno o del Nulla. La novità della religione biblica era e consiste nel fatto che quest'essere originario, il Dio vero di cui non può darsi alcuna immagine, ha nondimeno un volto e un nome, è persona. La salvezza non sta più nel cadere nell'anonimato, ma in quel "saziarsi del suo volto", che al nostro "risveglio" ci verrà concesso. A questo risveglio, a questo saziarsi il cristiano va incontro, tenendo fisso lo sguardo sul Trafitto, cercando il volto di Gesù Cristo.
In J. Ratzinger, In cammino verso Gesù, Milano 2004
 
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2. F. Manns - "Gerusalemme e il dono dello Spirito"
 
La Chiesa Madre di Gerusalemme, nata nel Cenacolo il giorno della Pentecoste, non poteva ignorare questa data. Alla Chiesa Latina è stato rimproverato di aver ignorato lo Spirito per troppo lungo tempo, ma l’avvicinarsi del Giubileo del Duemila la porta a tornare alle sorgenti. E la sorgente della Chiesa è lo Spirito.

Gerusalemme è un microcosmo unico nel suo genere. Non solo vi sono rappresentate tutte le Chiese, ma anche tutti i figli di Abramo. Essere Chiesa a Gerusalemme significa lavorare concretamente al dialogo ecumenico e interreligioso. Lo Spirito di Gesù è Spirito di unità, che egli ha donato morendo sulla croce per radunare i figli di Dio dispersi.

L’anno scorso la Chiesa di Gerusalemme ha cercato di rispondere alla domanda di Gesù: Chi sono io per voi? Quest’anno utilizza del tempo pasquale per prepararsi in modo speciale alla Pentecoste e al dono dello Spirito. La riflessione che si farà dal 30 aprile fino al 2 maggio seguirà una triplice direzione: dopo aver interrogato le Scritture, passerà all’approfondimento patristico e quindi all’esame delle varie liturgie. Infatti nella diversità delle liturgie lo Spirito continua a pregare e a parlare alle Chiese. Tale diversità presenta inoltre l’esegesi vissuta della Chiesa Madre.

Le Scritture insegnano che lo Spirito non è solo un soffio cosmico, ma è capace di ispirare i profeti e i saggi. Una lettura anche rapida della Bibbia mostra che una grande inclusione letteraria delimita il Libro sacro. All’inizio della Genesi lo Spirito di Dio aleggia sopra le acque e alla fine dell’Apocalisse risuona l’invocazione: “Lo Spirito e la Sposa dicono: Vieni, Signore Gesù”.

Così la fine dell’Apocalisse corrisponde all’inizio della Genesi e tutta la Scrittura è posta sotto il patrocinio dello Spirito. Anzi tutta la storia della salvezza è illuminata dallo Spirito di Dio. E’ lo Spirito la chiave che apre le Scritture e la storia della salvezza, così come per conoscere lo Spirito bisogna scrutare le Scritture. Spirito e Parola sono legati da un rapporto speciale.

La tradizione cristiana guidata dallo Spirito ha approfondito incessantemente le Scritture. Origene, fondatore della scuola biblica di Cesarea, nei suoi commenti così ricchi e istruttivi apre una linea di pensiero che sarà ripresa in Oriente, mentre Agostino è il caposcuola della tradizione occidentale. La Chiesa respira con due polmoni ed è a Gerusalemme che lo si scopre concretamente.

Per la tradizione orientale lo Spirito è estasi e dono. E’ l’apertura, il dinamismo della carità divina che si manifesta nella creazione, nella profezia e nell’Incarnazione del Figlio di Dio. Il Padre è la sorgente, il Figlio la Parola uscita dal silenzio di Dio e lo Spirito è il dinamismo divino. Il Padre opera nella creazione per mezzo delle sue Due Mani che sono il Figlio e lo Spirito, secondo l’espressione di S. Ireneo (Adv. haer. 1,22,1; 5,6,1). Queste Due Mani sono inseparabili nella loro azione rivelatrice del Padre e tuttavia sono ineffabilmente distinte. Il Verbo è in qualche modo la Mano che sbozza l’opera e lo Spirito è la Mano che la perfeziona.

Lo Spirito inonda la terra come un’acqua benefica che amalgama i fedeli in un’unica pasta, che rinfresca il suolo e fa crescere dappertutto il frumento di Cristo. La Chiesa diffusa su tutta la terra deve la sua coesione allo stesso Spirito che ispirò i profeti e che per mezzo dei quattro evangelisti dissemina il Vangelo ai quattro angoli della terra. Dio, gloria dell’uomo, si compiace di fare di lui il ricettacolo della sua sapienza. La vita presente non è che un tirocinio della vita incorruttibile data dallo Spirito.

Per la tradizione occidentale, rappresentata da S. Agostino, lo Spirito è vincolo di unità tra l’amato e l’amante, essendo lui stesso l’amore. E’ il silenzio della comunione divina. Il Padre e il Figlio sono l’uno per l’altro, relativi l’uno all’altro, mentre lo Spirito è colui che li unisce.

La tradizione orientale gli ha riconosciuto un ruolo creatore e dinamico. Lo Spirito apre la comunione dinamica a chi non è divino; è abitazione di Dio là dove Dio si trova in qualche modo fuori di se stesso. Per questo è chiamato amore. E’ l’estasi di Dio verso il suo altro, la creatura. Lo Spirito è in Dio il termine della comunicazione sostanziale.

Queste diverse teologie dello Spirito sono vissute nelle liturgie delle Chiese orientali e occidentali. La liturgia utilizza la simbolica dei colori quando prega lo Spirito; La veste liturgica secondo la tradizione armena richiama che “il culto esteriore è l’immagine di un ornamento spirituale luminoso” (Nerses Shorali). Lo Spirito riveste colui che si avvicina a Dio.

Il cristianesimo medievale ha costruito intorno al colore rosso una teologia popolare dello Spirito. Il colore è anzitutto luce tanto sul piano teologico che su quello della sensibilità. Il rosso è il colore del sangue e del vino, che è il sangue della vite. E’ anche il colore del fuoco che arde e divampa nella notte. Suggerisce la passione di Cristo e insieme simboleggia lo Spirito. In qualche modo è lo stesso mistero che si comunica col colore rosso. Cristologia e pneumatologia sono associate, benché lo Spirito sia oltre il Verbo. “Il Cristo si è offerto in uno Spirito eterno”, afferma l’autore della lettera agli Ebrei (9,14). Nel mistero della Pentecoste il rosso evoca le lingue di fuoco che scesero sui discepoli. Così lo Spirito li rende capaci di parlare. Il rosso è insieme luce e soffio, potenza e calore; brilla, illumina e purifica.

Le liturgie orientali che celebrano la divinizzazione dell’uomo, evocano un altro simbolo dello Spirito: quello dell’acqua. Nel Cristo Dio ha radunato l’umanità dispersa la quale diviene il corpo di Cristo. Il sangue sgorgato dal costato del Cristo inebria l’uomo di questo grande amore. All’unità del sangue fa riscontro la diversità del fuoco; ma di fatto il fuoco brucia già nel sangue. Il sangue è caldo; lo Spirito è fuoco. Ecco perché il diacono prima della comunione versa nel vino un po’ di acqua calda per simbolizzare il fuoco dllo Spirito.
La riflessione della Chiesa di Gerusalemme vuole essere ecumenica dato che ne fanno parte vescovi greci, armeni, latini, copti, siriani e melchiti. Vuole essere ugualmente interreligiosa e per questo un ebreo e un musulmano parteciperanno alle tavole rotonde. Il giudaismo conosce una teologia dello Spirito molto varia mentre l’Islam somiglia in parte al giudeo-cristianesimo.

Lo Spirito è la memoria della Chiesa e anche il Maestro che la istruisce. Il dono messianico dello Spirito è stato annunciato sotto forma di unzione. Questa unzione viene fatta su ogni cristiano al momento della confermazione e su chi accetta a nome della Chiesa il sacerdozio ministeriale. Il cristiano fa parte di un popolo sacerdotale che per mezzo del Cristo può offrire sacrifici spirituali a Dio graditi. È lo Spirito che gli assegna il compito di annuniare le meraviglie che Dio ha realizzato facendolo passare alla vera libertà dei figli di Dio.

Lo Spirito conferito per mezzo del simbolo dell’unzione fa del cristiano un lottatore che annuncia il Vangelo anche in mezzo ai più grandi ostacoli. Cirillo di Gerusalemme nella Catechesi 18,3 richiama che “come il pane eucaristico dopo l’epiclesi non è più pane ordinario ma il cropo di Cristo, così il santo crisma non è più un olio ordinario”.

Come ricorda lo stesso Cirillo, “la grazia dello Spirito è necessaria se vogliamo parlare dello Spirito Santo. Poiché non possiamo parlare di lui in modo adeguato, possiamo farlo senza degenerare limitandoci a quello che ne dicono le divine Scritture” (Catechesi 16,1).


* * *
 
3.VERITÀ BIBLICA E VERITÀ CRISTIANA
di p.Ignace de la Potterie
(da I. de la Potterie, Studi di cristologia giovannea, Marietti, Genova, 1986)

Secondo la giusta osservazione fatta da diversi autori negli ultimi tempi, stiamo attraversando oggi una crisi del senso della verità. Un filosofo italiano, M.F.Sciacca, analizzando con acutezza la situazione culturale del nostro tempo, denunciava il pericolo di una vera e propria eliminazione della verità. E, tempo addietro, nell'introduzione all'edizione italiana di tre saggi del teologo tedesco W.Pannenberg, tra cui uno su “ Cos'è verità? ”, Vittorino Grossi scriveva: “Il pensiero moderno ha un suo travaglio e disagio particolare quando tratta della “verità””.


Quali sono le ragioni di questo stato di cose? Saranno da ricercare nel prevalere crescente del soggettivismo nel pensiero moderno, cominciato con Kant o forse già con i filosofi del Rinascimento. Ma non è compito nostro indagare le cause profonde della crisi. Ciò che invece intendiamo fare è analizzare nelle sue grandi linee la situazione attuale; ci domanderemo che cosa significa per la mentalità moderna la nozione di verità, per fare poi un paragone con la concezione tradizionale, tramandataci dalla Grecia antica. Ma accanto all'idea classica esiste una nozione specificamente cristiana della verità. Cercheremo di mostrare in che cosa essa si distingua dalla concezione profana. Dopo questo chiarimento delle nozioni, vorremmo, in una seconda parte, approfondire la concezione cristiana della verità alla luce dei dati della S.Scrittura. Infine faremo un confronto tra la concezione cristiana e le idee moderne sulla verità, per vedere in quale senso il messaggio cristiano risponda alle domande degli uomini del nostro tempo.


1. Verità profana e verità cristiana

1. Esistono diversi concetti di verità: la verità metafisica, la verità scientifica, la verità processuale (nel campo della giustizia), la verità nell'informazione; si potrebbe anche analizzare la verità etica, la verità storica, oppure la verità dell'arte, della poesia, del mito, ecc. Noi parleremo della verità religiosa e cristiana. Però, come abbiamo detto, per cogliere meglio la distinzione tra concezione cristiana e concezione profana, vogliamo prima chiederci che significhi la nozione di verità per il pensiero moderno.
Possiamo distinguere qui tre correnti principali.

a) Consideriamo in primo luogo la corrente esistenzialistica derivata da S.Kierkegaard. Questo filosofo danese, fondatore dell'esistenzialismo moderno, ha scritto la frase famosa: “La verità è la soggettività”, oppure, rovesciando la formula, “La soggettività è la verità”. Per Kierkegaard, sembra fosse indifferente se l'adesione soggettiva dello spirito veniva applicata a un soggetto buono o a un soggetto cattivo. Ma la tradizione esistenzialistica che si è sviluppata dopo di lui mette indubbiamente l'accento in maniera quasi esclusiva sul soggetto. Quella che si cerca non è più la verità in assoluto, ma la verità individuale, cioè l'autenticità nel proprio comportamento. Kierkegaard diceva per esempio che la preghiera vera non è necessariamente quella del cristiano che prega il vero Dio, ma che gli parla senza convinzione; il pagano invece, il cui sguardo si ferma su un idolo, ma che lo invoca con tutta la passione del suo cuore, è un uomo che prega “in verità”.
Indubbiamente, questa concezione esistenzialistica contiene molto di vero; essa rappresenta per ciascuno un pressante invito all'autenticità nelle sue convinzioni e ad un impegno sincero per esse. Però può anche esporre gli uomini al pericolo di confondere verità e sincerità e di non dare più quasi nessuna importanza a ciò in cui credono: tendenza soggettivistica tipica del nostro tempo.

b) Un'altra corrente è quella pragmatistica, la quale fa capo a Nietzsche e a William James. Per il filosofo tedesco della seconda metà dell'Ottocento, la verità non è una realtà ontologica; non esiste una natura assoluta delle cose. Nietzsche ha sferrato un attacco feroce contro ogni pensiero metafisico, che è per lui segno di decadenza. Il vero, secondo Nietzsche, non è una realtà esistente che cerchiamo di scoprire e di conoscere; è qualcosa che si trova davanti a noi, come un fascio di possibilità che noi dobbiamo realizzare. La verità non sta nell'essere, ma nel valore; è vero ciò che riesce nella vita, ciò che produce. Una cosa ha valore e si può chiamare vera, in quanto è utile per l'avvenire e il progresso, in quanto dà all'uomo la possibilità di sorpassare se stesso per produrre il superuomo. Si capisce quindi come Nietzsche abbia scritto, nel suo libro La volontà di potenza: “Il criterio della verità si trova nell'intensificazione del sentimento di potenza”.' Egli dà dunque un primato assoluto al volere sul conoscere, al fare sull'essere, allo sviluppo della vita sulla contemplazione della verità. La norma fondamentale del vero è l'efficacia per il progresso umano, per la preparazione del genio, del superuomo. Si noti quanto vicina sia questa filosofia del progresso con le teorie del marxismo. Ma, cosa più paradossale, un influsso di queste concezioni pragmatistiche si nota anche in certi orientamenti recenti della teologia, secondo i quali la verità deve essere verificata dalla pratica (praxis).
Il P.Schillebeeckx scriveva pochi anni fa: “L'accento viene messo più sull'agire, sul fare, molto più sull'ortoprassi che sull'ortodossia. Ecco la grande svolta, realizzatasi nella concezione dell'esistenza cristiana”. Così si spiega l'apparire, negli ultimi tempi, della “teologia della speranza” e delle cosiddette teologie chiamate “teologia politica” o “teologia della rivoluzione”.
Come bisogna valutare tali tendenze? L'influsso marxista sulla teologia politica è difficilmente negabile. Tuttavia bisogna riconoscere che questa corrente ha messo in luce un aspetto importante della ricerca della verità, e cioè che essa non può essere esclusa dalla vita. Una verità che si può soltanto contemplare e che non cambia niente nel mondo o nell'uomo rimane sterile; è come una cosa astratta, irreale, lontana, che non può interessare. La verità deve essere aperta sull'avvenire, suscitare e nutrire la speranza, spingere all'azione. Ma è ugualmente vero che il primato assoluto dato all'azione toglie all'azione stessa ogni norma direttrice; l'agire deve essere illuminato e guidato dalla verità, altrimenti è disordinato e anarchico; in politica può condurre alla rivoluzione, alla dittatura, alla barbarie. Una visione troppo pragmatistica fa perdere di vista valori essenziali della vita umana, come l'amicizia, la riflessione interiore, la contemplazione, la preghiera, e fa deviare l'uomo dalla sua vocazione ultima più alta che è di entrare in comunione con Dio.

c) Un terzo orientamento della concezione moderna della verità è la sua tendenza verso un certo positivismo. Lo spirito scientifico e la mentalità tecnologica del nostro tempo hanno avuto come conseguenza che si è fortemente tentato di mettere una stretta relazione tra verità e verificazione: è vero solo ciò che si può verificare; gli unici criteri della verità sono quelli delle scienze positive. Secondo il filosofo tedesco W.Kamlah, la nozione moderna di verità si identificherebbe con il concetto di verità scientifica. Certo, gli scienziati autentici non sono più tentati, come al tempo dello scientismo, di dare un valore assoluto alle loro affermazioni. Come ha giustamente affermato E.Agazzi, i cultori delle scienze oggi sono troppo convinti della provvisorietà e della relatività del discorso scientifico: perciò sono piuttosto scettici sulla possibilità di conoscere la verità. Rimane vero però che anche loro sono sempre propensi a non riconoscere altri criteri della verità se non quelli della verificabilità scientifica.
Si può riconoscere qualche aspetto buono anche a questa mentalità, e cioè il suo apprezzamento per i dati concreti e positivi, per le cose oggettive; così questa tendenza critica può servire di contrappeso alla corrente soggettivistica di cui parlavamo sopra. Resta però il fatto che uno spirito formato in maniera troppo unilaterale dal metodo scientifico, non ammette facilmente altre realtà al di fuori di quelle empiriche. Il che significherebbe la rinuncia ai valori superiori di ordine morale, metafisico e religioso; avrebbe come conseguenza di rendere impossibile la conoscenza delle realtà trascendenti, dell'assoluto, di Dio stesso.

2. Di fronte a queste correnti, che sono in parte delle deviazioni, ricordiamo brevemente quale sia la concezione classica della verità, venuta dalla Grecia antica. Per i Greci la verità è fondamentalmente qualcosa di oggettivo: la verità è la realtà stessa di una cosa, in quanto è conosciuta, in quanto si svela allo spirito; è quindi l'essere in quanto è manifestazione, rivelazione, apertura, luce per lo spirito. Si può anche parlare della verità dello spirito, quando lo spirito si apre alla verità delle cose. La verità in questo caso consiste nella corrispondenza dello spirito con la realtà. Questa è la concezione più diffusa, più comune, della verità. Conoscere la verità, quindi, significa conoscere le cose come sono realmente. Questa concezione trova numerose applicazioni nella vita concreta, nel campo del diritto, della storia o della filosofia, ecc.: il giudice che vuol conoscere la verità, cerca di sapere esattamente come si sono svolti i fatti nel delitto per cui si fa un processo; in maniera analoga, lo storico studia documenti antichi per conoscere un periodo determinato dei passato; il filosofo riflette sull'essenza, sull'ultimo fondamento delle cose; perciò la tradizione filosofica diceva che Dio stesso è la verità. Albino, filosofo platonico del II sec. d.C., scriveva: “Il primo Dio è... la divinità, l'essenza, la verità, come il sole è il principio di ogni luce”.
Se paragoniamo questa teoria classica della verità con le idee moderne esposte all'inizio, saltano immediatamente agli occhi delle differenze significative. La concezione greca era caratterizzata dal rispetto dell'oggettività, mentre l'esistenzialismo moderno mette la verità nel soggetto, nell'esperienza personale dell'uomo, nell'autenticità del suo comportamento, nella sua forza creatrice. Un'altra differenza è connessa con la prima: per l'intellettualismo greco la verità era oggetto di contemplazione; secondo il Corpus Hermeticum, una raccolta di scritti d'ispirazione platonica, la beatitudine consiste nel “contemplare la bellezza della verità; è una concezione statica, non spinge all'azione. Molti moderni invece si fanno una idea pragmatistica e dinamica della verità: non la si raggiunge con la contemplazione, ma la si trova nell'agire, nel fare; ha valore ciò che riesce nella vita, ciò che ottiene risultati concreti, oppure ciò che è verificabile.
Da questo rapido confronto risulta che non si tratta semplicemente di scegliere una concezione respingendo l'altra. Bisogna completare l'una con l'altra. Citiamo ancora una volta M.F.Sciacca: “...non c'è l'aut-aut, o il fare, o l'essere; il problema si pone in forma sintetica, perché il fare senza l'essere è cieco e ad un certo punto significa soltanto disfare; d'altra parte l'essere che è fecondo, non deve isterilirsi disinteressandosi del fare. Allora il problema è di essere per fare, oppure potrei dire — usando un termine classico — di contemplare... per conoscere e poi di fare, illuminatamente, proprio perché ci illumina la verità”.

3. Abbiamo premesso queste riflessioni di ordine filosofico per capire meglio, dal confronto con la Verità profana, che cosa sia la verità cristiana. La filosofia classica era realistica, riconosceva il carattere oggettivo della verità; la concezione attuale al contrario è nettamente caratterizzata da ciò che W.Pannenberg chiama la soggettivazione della verità”.
Anche la nozione cristiana della verità, come vedremo, ha conosciuto un'evoluzione analoga, e cioè un'oscillazione tra l'aspetto oggettivo e l'aspetto soggettivo della verità. Ma prima di mostrarlo, cerchiamo di farci un'idea globale sull'essenza della verità, secondo la visione cristiana.

a) La verità cristiana non è identica alla verità dei Greci. E' necessario insistere su questo punto, perché è un'opinione assai diffusa che la rivelazione cristiana è intimamente legata alla filosofia greca. Questo è vero solo fino ad un certo punto: storicamente parlando, il pensiero cristiano si è espresso durante diversi secoli nelle categorie della filosofia greca; tuttavia, la frase di Nietzsche il cristianesimo è platonismo per il popolo”, mi pare inaccettabile. C'è sempre stata una differenza fra cristianesimo e platonismo; il cristianesimo è una religione rivelata, non è una filosofia, anche se si serve di concetti filosofici per formulare ed esplicitare il suo pensiero.
La distinzione tra platonismo e cristianesimo appare molto chiara nella nozione di verità. Molti modi di parlare della tradizione cristiana ci mostrano che cosa sia per essa la verità. Nei primi secoli, Dio veniva più volte chiamato il Dio della veritào il Padre della verità”. Con queste formule i cristiani non volevano esprimere l'idea platonica che Dio è la realtà suprema (idea indubbiamente giusta, ma che non corrispondeva alle loro aspirazioni); queste formule significavano per loro Dio come colui che ha rivolto a noi la sua parola, Dio come fonte della verità e della rivelazione. Troviamo un bell'esempio in una preghiera degli Atti di Tommaso: “ Ti lodo, Signore Gesù, perché tu hai rivelato la tua verità tra questi uomini; perché tu solo e nessun altro sei il Dio della verità. Abbiamo udito la parola decisiva: Tu hai rivelato”. La verità cristiana non è dunque, come nella filosofia greca, l'essere assoluto di Dio stesso, ma la parola di Dio, la divina rivelazione, comunicataci in Gesù Cristo, e che diventa per noi la norma della vita e la fonte della santificazione. Sant'Ireneo scriveva: Dio diede ai suoi apostoli il potere di predicare il Vangelo: per mezzo loro conosciamo la verità, cioè la dottrina del Figlio di Dio”. Osserviamo in questo testo l'equivalenza delle tre espressioni: il vangelo, la verità, la dottrina del Figlio di Dio. Nei secoli successivi troviamo tutta una serie di espressioni dove quel significato della parola e "verità" appare immediatamente; ecco alcune di queste formule: la verità cristiana, la verità cattolica, la verità della fede, la luce della verità, la spada della verità. Il Concilio d'Orange, nel 529, usava come equivalenti le parole verità e l'espressione la predicazione salvifica”, quella del vangelo; nello stesso senso, il Concilio tridentino diceva che il vangelo è la fonte di ogni verità di salvezza: “fontem omnis et salutaris veritatisformula che fu ripresa nel nostro tempo dal Concilio Vaticano II. E' dunque una cosa ovvia; per la tradizione cristiana la verità è la divina rivelazione, il messaggio della salvezza, la vera fede, la dottrina del vangelo predicata dalla Chiesa.

b) Tuttavia, l'abbiamo già detto, la nozione cristiana di verità ha conosciuto delle variazioni analoghe a quelle riscontrate nel concetto profano di verità. Ma mentre per quest'ultima si passava progressivamente a una concezione sempre più soggettiva e personale della verità, si può dire che il concetto cristiano ha conosciuto un'evoluzione in senso contrario. Nella tradizione antica, la verità della rivelazione aveva, sì, un carattere oggettivo, ma era allo stesso tempo concreta e personale: veniva identificata col vangelo predicato, era strettamente connessa con Dio, il Padre della verità”, e più ancora con Gesù Cristo, il quale, come in S.Giovanni, veniva chiamato diverse volte “la Verità”. Nella teologia moderna, invece, dal Concilio di Trento al Concilio Vaticano II, appare una progressiva intellettualizzazione della concezione della verità; questa veniva presentata in maniera molto più astratta: la rivelazione veniva concepita come un sistema, una dottrina, come un insieme di verità rivelate (al plurale), comunicate da Dio e contenute nei libri della S.Scrittura o nella Tradizione, e proposte alla nostra fede dal Magistero ecclesiastico; perciò la S.Scrittura e la Tradizione erano considerate come dei documenti, come le due fonti della rivelazione. La Costituzione Dei Verbum sulla divina Rivelazione del Concilio Vaticano II, cambiò radicalmente quella presentazione intellettualistica della verità, ritornando ad una concezione più personale, molto più vicina alla S.Scrittura e alla tradizione antica. La verità viene presentata dal Concilio come la manifestazione di Dio nella storia della salvezza, manifestazione che si realizza pienamente nella persona di Cristo. Il cap. I insegna che la verità, sia di Dio sia della salvezza degli uomini, “risplende a noi in Cristo, il quale è insieme il mediatore e la pienezza di tutta intera la rivelazione”. Al cap. V si dice che “ogni verità (è) racchiusa nel mistero di Cristo”. E, secondo la Dichiarazione Dignitatis humanae sulla libertà religiosa, “la Chiesa cattolica è maestra di verità, e sua missione è di annunziare e di insegnare, con competenza, la verità che è Cristo”.

c) Possiamo concludere questa prima parte. Dai diversi testi citati, che ci fanno percorrere venti secoli di tradizione, risulta evidente che il cristianesimo possiede una sua concezione propria della verità; esiste una differenza essenziale tra la religione cristiana e ogni filosofia umana. La verità cristiana è la divina rivelazione, la parola di Dio rivolta all'umanità in Gesù Cristo, non solo per svelare i misteri della vita divina, ma anche per portare all'uomo un messaggio di salvezza e quindi per invitarlo a sorpassare se stesso per prendere parte alla vita di Dio.

2. Verità cristiana e verità biblica

Secondo il Concilio Vaticano II (Costituzione Dei Verbum, nr. 24), la teologia si basa sulla S.Scrittura come su un fondamento perenne; in essa rigorosamente si consolida e ringiovanisce sempre: perciò lo studio delle Sacre Scritture deve essere come l'anima della teologia.
Ora, abbiamo costatato sopra, che, nella storia della teologia, l'idea di verità cristiana non è sempre stata mantenuta in tutta la sua purezza, in specie nella teologia post-tridentina. Anzi, parecchi teologi non sembrano sempre rendersi sufficientemente conto che esiste una nozione specifica della verità cristiana, una nozione cioè che non è identica a quella di Platone o di Aristotele, o magari di S.Tommaso, ma che viene dalla S.Scrittura e che si ritrova in tutti i periodi della tradizione, specialmente nei documenti del Magistero e nei testi liturgici; quella concezione è meno frequente presso i Padri della Chiesa, perché erano troppo influenzati dalla filosofia antica. Vogliamo illustrare queste affermazioni sulla continuità tra l'uso biblico e l'uso liturgico del tema della verità, presentando due o tre testi significativi. Prima dell'ultima riforma liturgica, il messale romano al venerdì santo, in una orazione per i Giudei, faceva domandare a Dio “che riconoscano la luce della tua verità, che è Cristo”; il testo attuale dice in maniera equivalente che riconoscano anch'essi il Redentore di tutti”. Nella messa per la propagazione della fede si prega così: O Dio, che vuoi che tutti gli uomini siano salvi e giungano alla conoscenza della verità, manda, ti preghiamo, operai nella tua messe”. La formula giungere alla conoscenza della veritàè ripresa testualmente dalla prima lettera a Timoteo (2, 4), il che dimostra come questa formula liturgica rimane vicina ai testi biblici.
Perciò, rivolgendosi direttamente alla S.Scrittura, vogliamo adesso esaminare più a fondo quella nozione di verità rivelata.

1. Il tema viene dall'AT. Nella tradizione sapienziale e in Daniele, l'ultimo dei grandi profeti, la verità designa la dottrina di sapienza, la verità rivelata. Più volte troviamo ravvicinate le nozioni di verità e di sapienza. Così, per es., nei libro dei Proverbi: “Acquista la verità, non venderla: saggezza, disciplina e intelligenza!” (23, 23). E l'autore dell'Ecclesiastico rivolge ai suoi discepoli questa magnifica esortazione così attuale oggi: “Fino alla morte lotta per la verità, il Signore Iddio combatterà per te” (testo greco, 4, 28).
Ma in diversi testi passa in primo piano l'idea di rivelazione. La verità designa allora la rivelazione del piano divino della salvezza. In uno degli inni di Qumran si legge, per esempio, questa preghiera: “Voglio lodarti, o Signore, perché tu mi hai dato l'intelligenza della tua verità e mi hai fatto conoscere i tuoi meravigliosi misteri” (1 QH 7, 26-27).

2. Nel NT i testi dove si parla più frequentemente della verità, sono gli scritti più teologici, cioè le lettere paoline e giovannee, e il quarto vangelo.

a) Per Paolo, l'apostolo delle genti, la verità si identifica col messaggio del vangelo (Gal 2, 5-14); egli ricorda ai cristiani di Efeso: “Voi (avete udito) la parola della verità, il vangelo della vostra salvezza” (Ef 1, 13). Pertanto “giungere alla conoscenza della verità” (1 Tim 2, 4; 2 Tim 3, 7) vuoI dire accogliere la buona novella della salvezza, aderire alla vera fede, farsi cristiano.
La verità predicata dall'apostolo non è una teoria astratta, un sistema dottrinale; al centro del suo messaggio sta la persona di Cristo. Paolo dice agli Efesini: “la verità è in Gesù” (Ef 4, 21). Accogliere la verità del vangelo significa per lui: “imparare il Cristo..., udire di lui, essere ammaestrato in lui” (Ef 4, 20-21). Nella seconda lettera ai Corinti, Paolo sottolinea con forza che la parola del vangelo è la rivelazione del mistero di Cristo: lo scopo della sua opera apostolica è di “manifestare la verità”, di “far rifulgere lo splendore del vangelo della gloria del Cristo”, di “far risplendere la conoscenza della gloria di Dio che è sul volto di Gesù Cristo” (2 Cor 4, 2-6).

b) Ma l'autore che ha approfondito di più il tema della verità e che ha fortemente messo in risalto la sua relazione col mistero di Cristo è indubbiamente S.Giovanni.
Per l'autore del quarto vangelo, Gesù è innanzitutto il Rivelatore del Padre. L'evangelista descrive la sua missione nei seguenti termini: “Colui che viene dal cielo è superiore a tutti, e attesta ciò che ha veduto e udito; eppure nessuno accetta la sua testimonianza” (3, 31-32). E Gesù stesso dichiara ai Giudei di Gerusalemme: “Io vi ho proclamato la verità, quale io l'ho udita da Dio... Ma a me, che vi dico la verità, non credete” (8, 40-45).
Se l'idea di rivelazione è tanto centrale per S.Giovanni, si capisce bene come egli abbia scritto nel prologo: “La legge fu data da Mosè; la grazia e la verità (la pienezza della rivelazione) venne a noi in Gesù Cristo” (1, 17). Ma il testo fondamentale si trova nei discorsi di Gesù all'ultima Cena: “Io sono la via, la verità e la vita” (14, 6). Gesù si chiama la verità, non nel senso della metafisica platonica, come se egli volesse svelare in se stesso l'essere assoluto e divino. Gesù usa qui il linguaggio della tradizione biblica e giudaica in cui la “verità” è un messaggio di salvezza, la parola di rivelazione: egli è dunque la verità, in quanto egli, l'uomo Gesù, è per noi la pienezza della rivelazione. Approfondire la verità cristiana vuol dire: approfondire il mistero di Cristo, scoprire sempre più, nel processo stesso della nostra fede, che egli, l'uomo Gesù si manifesta a noi come Figlio di Dio; così Cristo è per noi anche la vita, perché, nella comunione con lui, partecipiamo alla vita di Dio. In questo invito sta tutto il senso della vita cristiana. Per attuare e realizzare questa vocazione, viene mandato ai credenti il Paraclito, chiamato nel quarto vangelo lo Spirito di verità. Compito suo non è di portare una nuova rivelazione, un'altra verità, distinta da quella di Gesù, ma di far comprendere, di far interiorizzare e assimilare la verità di Gesù. Cristo stesso diceva nell'ultima Cena: “Lo Spirito Santo, che il Padre vi manderà nel mio nome, egli Vi insegnerà e vi farà ricordare tutto quello che io vi ho detto” (14,28); “lo Spirito di verità vi condurrà verso tutta intera la verità” (16, 13). La missione dello Spirito sarà dunque di far penetrare nel cuore dei credenti il messaggio di Gesù, di darne loro una comprensione personale ed esistenziale, un'intelligenza di fede.
Così si potrà sviluppare la vita nuova dei discepoli di Cristo; per S.Giovanni questa vita è una vita nella verità, una vita nella luce di Cristo. Più che ogni altro autore del NT egli insiste sul ruolo della verità nella vita dei credenti. La verità non è per lui, come per il pensiero greco, un oggetto di pura contemplazione intellettuale, ma il principio fondamentale della morale cristiana, della trasformazione e del rinnovamento dell'uomo. Perciò s. Giovanni usa molte espressioni per descrivere la funzione della verità nel comportamento e nell'agire del cristiano.
La prima cosa che si aspetta da un uomo che viene messo a confronto con Cristo e con la sua verità è che egli “faccia la verità”; questa formula biblica “fare la verità” non significa come si potrebbe pensare: vivere in conformità con la verità. “Fare la verità” comporta nel quarto vangelo tutto il processo di assimilazione della verità, il cammino del progresso nella fede, significa “far propria la verità” di Gesù, ascoltando la sua parola e contemplando la sua persona e le sue azioni. Così l'uomo entra progressivamente nel mistero di Cristo e diventa cristiano.
Ma credere non basta. Il credente deve approfondire la sua fede. E' ciò che Giovanni chiama “conoscere la verità”. Questa conoscenza profonda non si acquista in un giorno; essa si ottiene a poco a poco, col ritmo stesso dello sviluppo della fede.
Gesù diceva ai Giudei: “Se voi restate nella mia parola, sarete veramente miei discepoli; così voi conoscerete la verità” (cioè voi la penetrerete progressivamente) (8, 32). La condizione è chiara: bisogna, nel pieno senso della parola, diventare personalmente discepolo di Gesù. Così si arriva ad “essere dalla verità”, come dice ancora Giovanni (18, 37; 1 Gv 3, 19); il vero cristiano è colui che ha messo la sua vita in armonia con la verità; egli vive in modo abituale nell'irraggiamento della verità, vi si ispira in tutto il suo modo di agire.
Questa esigenza è molto importante. Per essere cristiano, secondo S.Giovanni, non basta quindi accettare intellettualmente alcune verità di fede, senza impegno personale. Il cristiano vive nella verità soltanto quando egli cerca continuamente di assimilarla, per lasciarsi progressivamente trasformare da essa. E' la condanna di ogni formalismo, di ogni superficialità, di ogni cristianesimo indifferente, non autentico. La dottrina giovannea sulla verità richiede che il cristiano diventi un credente disponibile, convinto, impegnato. Il fermento, il segreto di quel rinnovamento sta nella sua conoscenza intima e personale della verità, nel suo incontro esistenziale con Cristo.
Diverse altre formule giovannee descrivono l'azione concreta dell'uomo che è stato così rinnovato dalla verità. Nei suoi rapporti con Dio, egli adorerà il Padre “nello Spirito e nella Verità(4, 23-24); la sua preghiera, ispirata dallo Spirito di verità, si farà in comunione intima con Cristo, il Figlio di Dio; sarà una preghiera filiale, il che è la caratteristica fondamentale dell'autentica preghiera cristiana. Questo progresso dei credenti nella vita dei figli di Dio è precisamente ciò che Gesù intendeva quando all'ultima Cena, egli pregava affinché i discepoli fossero santificati nella verità” (17, 17). La verità, considerata qui come la sorgente interiore della santificazione, è la rivelazione del nome del Padre; santificarsi nella verità significa dunque: vivere più profondamente la nostra vita di figli di Dio.
Questa vita è allo stesso tempo una liberazione dell'uomo. Perciò Giovanni ha scritto questa formula stupenda, profonda e misteriosa, che ha esercitato un grande fascino sul pensiero occidentale: veritas liberabit vos”, “la verità vi farà liberi” (8, 32). Il potere liberatore della verità vale in tutti i campi; l'espressione giovannea può dunque essere applicata alla verità scientifica, alla verità dell'arte e della letteratura, alla verità filosofica e metafisica. Ma è ovvio che l'autore del quarto vangelo parlava della verità religiosa, della verità cristiana. Essere liberato da questa verità ha un doppio significato, negativo e positivo. L'aspetto negativo consiste in questo; che la verità quando cerchiamo sinceramente di assimilarla, esercita su di noi un'azione purificatrice. Quando la verità di Cristo vive nel cuore di un uomo, lo libera dal peccato, diffonde in lui la serenità, la pace, la gioia, la luce interiore. Ma la verità ha anche un effetto direttamente positivo e cioè, quello di far sì che quell'uomo diventi pienamente se stesso. Anche la filosofia moderna considera come libero l'uomo che può divenire ciò che deve essere, l'uomo che può realizzare al massimo la propria personalità. Per un cristiano questo significa: realizzare la sua vocazione di figlio di Dio; la libertà cristiana è la libertà dei figli di Dio. Ora, questa libertà è il frutto in noi della verità. La verità di Cristo, infatti, è la rivelazione della paternità di Dio; vivere in questa verità ci fa necessariamente progredire nella vita dei figli di Dio.
Ma sarebbe un grande errore pensare che la verità cristiana abbia solo un effetto per la vita interiore e la santificazione personale dei credenti, cioè per i loro rapporti con Dio. Giovanni insiste anche molto sui frutti che la verità deve produrre sul piano orizzontale e comunitario dei rapporti tra gli uomini. Sono frutti di amore, di carità. Giovanni li descrive con la formula biblica: “camminare nella verità” (2 Gv 4; 3 Gv 3.4). Concretamente questa espressione significa: vivere nella carità cristiana. Ma il fatto è che Giovanni non scrive mai “camminare nella carità”, ma unicamente “camminare nella verità”. Perché? La ragione è che Giovanni vuol mostrare che l'autentica carità si pratica nell'irradiamento della verità, la quale è la rivelazione dell'amore del Padre e di Cristo. Si vede dunque che la carità non regola soltanto i rapporti umani, non è puro umanesimo od orizzontalismo; non è soltanto benevolenza o aiuto ai bisognosi, come viene concepita troppo spesso nel nostro mondo secolarizzato; per Giovanni la carità è sempre illuminata dalla rivelazione, dalla verità di Cristo. La carità autenticamente cristiana viene da Dio e porta a Dio; è caratterizzata perciò da una nota di assolutezza, di profondità, di purezza, che manca all'amore semplicemente umano. L'amore cristiano e l'amore profano si distinguono nel fatto che il primo è radicato nella verità di Cristo. Così si spiegano le formule di Giovanni “amare nella verità(2 Gv 1; 3 Gv 1), vivere nella verità e nella carità(2 Gv 4). Questo amore venuto da Dio ed esemplificato in Cristo, è radicalmente diverso dalla fìlantropia: essendo partecipazione all'amore salvifico del Padre e del Figlio, non cerca solo il benessere dell'altro, ma la sua persona, vuole entrare in comunione con lui, desidera la sua felicità integrale. L'amore cristiano, quando è autentico, è dimenticanza di sé, dono totale, perché partecipa all'assolutezza di Dio. Ecco tutto ciò che è richiesto dai cristiani che vogliono veramente “amare nella verità”.

3. Verità cristiana e pensiero moderno

Dopo aver mostrato all'inizio che senso ha la nozione di verità nella mentalità attuale, abbiamo cercato, nella seconda parte, di capire meglio che cosa sia la verità cristiana. In questa parte conclusiva vorremmo ora tentare una specie di sintesi, mostrando che l'autentica concezione cristiana della verità, approfondita con l'insegnamento della Sacra Scrittura, viene pienamente incontro alle preoccupazioni e alle tendenze migliori del mondo contemporaneo.

1. Nel pensiero moderno, l'abbiamo visto, esiste una tendenza al neopositivismo, dovuta alla prevalenza della mentalità scientifica e tecnologica. Certo, il vero positivismo, siccome non ammette la possibilità per l'uomo di conoscere realtà trascendenti, è inconciliabile con il cristianesimo. Tuttavia c'è qualcosa di valido in quella tendenza, dicevamo, e cioè l'esigenza di un cristianesimo concreto, più tangibile.
La verità cristiana e biblica corrisponde perfettamente a quell'attesa. La verità cristiana, difatti, non è un sistema teorico e astratto, ma la rivelazione personale di Dio agli uomini, che si è realizzata nella storia della salvezza con eventi e parole intimamente connessi”, come dice il Concilio Vaticano Il (Costituzione Dei Verbum, nr. 2); e quella rivelazione culmina nell'opera e nella persona di un uomo concreto della nostra storia, l'uomo Gesù: in lui e in nessun altro si trova la pienezza della verità.
E' importante oggi insistere su questa dimensione concreta, storica e cristologica della verità. Il celebre vescovo anglicano J.A.T.Robinson, nel suo libro La seconda riforma, scriveva che la presentazione del messaggio cristiano non deve più partire dall'alto, da Dio, che mandò nel mondo il Suo Figlio. Bisogna partire dal basso, dalla realtà umana; nel nostro caso, questo vuoi dire: partire dall'uomo Gesù, che visse in Palestina e che noi conosciamo dai vangeli. Presentato così, il messaggio cristiano parla molto di più all'uomo moderno che è poco metafisico ed è maggiormente attirato verso le cose concrete.
Però una cristologia che non vedesse niente altro in Gesù, se non la sua umanità, non si potrebbe chiamare una cristologia cristiana. E' importante oggi insistere su questo punto. Il cammino seguito dagli Apostoli deve essere il nostro. Anche loro sono partiti da un incontro con l'uomo Gesù; ma il loro fu un itinerario verso la fede: nell'uomo Gesù hanno intuito un mistero, hanno progressivamente scoperto il Figlio di Dio. Questa è la verità di Gesù che dobbiamo scoprire anche noi. Partire da Gesù significa che cerchiamo di partire, sì, da un dato umano, concreto, storico, che dia un fondamento alla nostra fede; ma se l'uomo Gesù è la verità personificata, è soltanto perché egli è il Figlio Unigenito, sempre rivolto verso il Padre, la rivelazione in mezzo a noi dell'amore di Dio. Così la verità di Cristo interessa anche il destino dell'uomo; anzi quella verità rivela all'uomo il senso ultimo della sua vita. Perciò la vedrà cristiana presente in Gesù diventa nel pieno senso della parola la verità nostra. E' giustissima dunque la riflessione di J.Comblin: La fede è la verità dell'uomo”.

2. Un'altra richiesta del nostro tempo è l'impegno esistenziale. Si aspetta dai cristiani che siano convinti, che siano dei credenti autentici, impegnati, uomini cioè che vivano la loro fede, come diceva Kierkegaard, con tutta la passione del loro cuore. Possiamo solo rallegrarci di questa esigenza di autenticità.
Anche questa richiesta moderna corrisponde perfettamente ai dati del vangelo sulla verità. Gesù faceva ai Giudei questo rimprovero: La mia parola non penetra in voi” (8, 37). Agli Apostoli egli diceva nell'ultima Cena che sarebbero diventati suoi discepoli se le sue parole fossero rimaste in loro (15, 7-8). La stessa dottrina riappare nelle lettere di Giovanni: per lui un vero cristiano è l'uomo nel cuore del quale la verità di Cristo dimora e che per questo conosce pienamente la verità (2 Gv 2). Solo il credente che ha così assimilato la verità di Gesù è cristiano in verità”, secondo l'espressione di Kierkegaard.

3. Infine ricordiamo l'idea pragmatistica di Nietzsche sulla verità: è vero ciò che riesce nella vita, ciò che ha valore per il progresso dell'umanità. La filosofia moderna in genere, che dà tanta importanza alla storicità dell'uomo, è fortemente propensa a dare al divenire il primato sull'essere. La formula degli antichi “veritas filia temporis” dovrebbe piacere molto ai moderni. Una tendenza analoga si può notare nella teologia attuale: essa sta riscoprendo il valore dell'escatologia cristiana; e per realizzare il futuro che si stende davanti a noi, mette l'accento sull'ortoprassi più che sull'ortodossia.
Dire che l'ortoprassi è più importante dell'ortodossia è eccessivo. D'altra parte bisogna riconoscere che il pensiero teologico dei tempi moderni ha troppo negletto l'aspetto dinamico della fede, il suo orientamento verso il futuro, la sua connessione con l'agire dell'uomo. La nozione biblica di verità può aiutarci a ritrovare in maniera equilibrata questi valori fondamentali della fede cristiana.
Secondo la S.Scrittura la rivelazione non è un tesoro inerte che la Chiesa ha ricevuto da Dio, e che deve soltanto trasmettere con fedeltà. La verità cristiana è la parola del Dio vivente; secondo la lettera agli Ebrei essa è “una parola viva ed efficace e più affilata di qualunque spada a due tagli; essa penetra fino a dividere anima e spirito, giunture e midollo, e a distinguere i sentimenti e i pensieri del cuore” (Eb 4,12). La verità non sta solo dietro di noi, come un messaggio comunicatoci da Cristo una volta per sempre; sta anche davanti a noi, come mistero da approfondire, come compito per la nostra azione; e la realizzazione piena, lo svelamento finale della verità, si otterranno solo alla fine dei tempi. Questa è la dottrina del NT. Come lo insegna la seconda lettera di Pietro, i credenti sono già saldi nella presente verità (2 Pt 1, 12); però la parola della S.Scrittura è soltanto una luce che splende in luogo oscuro, finché spunti il giorno e si levi nei cuori dei credenti la stella del mattino (v. 19), la piena luce cioè dell'ultimo giorno. Secondo S.Giovanni, lo Spirito di verità deve guidare gli uomini verso tutta la verità (16, 13), il che suppone che la Chiesa non abbia ancora raggiunto la pienezza di comprensione e la verità. Ritroviamo lo stesso insegnamento nella Costituzione Dei Verbum del Concilio Vaticano II: La Chiesa (è) pellegrina in terra”; “la Chiesa, nel corso dei secoli, tende incessantemente alla pienezza della divina verità, finché in essa vengano a compimento le parole di Dio”. Non si potrebbe maggiormente sottolineare la storicità della Chiesa, la sua vocazione escatologica, il suo dovere di essere sempre in cammino verso la piena realizzazione del Regno di Dio.
Anche l'insistenza moderna sul fare, sull'agire, può e deve quindi essere accolta dal pensiero cristiano, ma sempre in riferimento alla verità di Cristo. La vita cristiana, secondo S.Giovanni, si svolge “in opere et veritate”, “nelle opere e nella verità” (1 Gv 3, 18). Il credente si ispira sempre alla verità di Cristo, ma cerca ugualmente di esprimere la verità in tutte le sue opere; esse saranno opere di luce, opere di amore. Per Giovanni, come per il Concilio che riprende le sue formule, la vita cristiana è un cammino, un progredire; ma è un “camminare nella verità”, nella luce di Cristo; ricordiamo che camminare nella verità” significa: mettere in atto la rivelazione dell'amore fattaci da Cristo, e quindi, vivere nell'amore. Questo è il segno distintivo dei veri cristiani, secondo l'insegnamento di Cristo all'ultima Cena (13, 35).
La verità richiede dunque dal cristiano non solo l'ortodossia, la fedeltà all'insegnamento ricevuto, ma anche l'ortoprassi, un agire nell'amore, per l'edificazione del Regno di Dio. Come dice molto bene il prefazio della festa di Cristo-Re, il Regno di Cristo non è solo un regno di verità”, ma anche un “regno d'amore”. Ciò che richiede la verità cristiana per la trasformazione del mondo è molto più ampio e più bello del programma della volontà di potenza di Nietzsche, più bello anche del programma che ci propone il secolarismo moderno. Come ha detto tanto bene Romano Guardini nel suo ultimo libro: “Nessun umanesimo antico, nessuna profonda intuizione orientale, nessuna moderna teoria del “superuomo”, ha mai preso il mondo e l'uomo così sul serio come la fede cristiana".