Il 6 agosto del 1978, alle ore 21 e 40, nella residenza estiva di Castelgandolfo, si concludeva l’esperienza terrena di Paolo VI.
Nato a Concesio, in provincia di Brescia, il 26 settembre del 1897, Giovanni Battista Montini è stato un protagonista della vita della Chiesa e della storia del Novecento.
Esponente di una nota famiglia bresciana - il padre Giorgio fu promotore del movimento cattolico e tra i fondatori del Partito popolare italiano, la madre, Giuditta Alghisi, fu anch’essa impegnata in diverse attività sociali - maturò la scelta del sacerdozio sulla scia dell’educazione religiosa ricevuta dai genitori e seguendo l’esempio di due sacerdoti incontrati a Brescia, gli oratoriani Giulio Bevilacqua e Paolo Caresana.
Ordinato sacerdote dal vescovo di Brescia Giacinto Gaggia nel maggio del 1920, entrò successivamente a far parte della diplomazia pontificia, prima come minutante presso la Nunziatura di Varsavia e poi in Vaticano, dove prestò servizio nella Segreteria di Stato dei papi Pio XI e Pio XII. Molto stretto si rivelò il rapporto con papa Pacelli, di cui Montini fu uno dei principali collaboratori, tanto da divenire nel 1952 Pro Segretario di Stato.
Due anni dopo papa Pacelli scelse Montini come nuovo arcivescovo di Milano. Una sorta di investitura, se si tiene presente il prestigio della sede ambrosiana ed il fatto che a Montini mancava un’esperienza pastorale al di fuori del Vaticano.
Nel conclave del 1958, pur non essendo ancora cardinale, il suo nome ottenne delle preferenze. La berretta cardinalizia arrivò poco dopo dalle mani del nuovo pontefice, Giovanni XXIII, grande estimatore dell’arcivescovo di Milano. Da cardinale, Montini prese parte ai lavori del Concilio Vaticano II, adoperandosi per l’avvio dei lavori e per la loro conclusione, quando, dopo la morte di papa Roncalli, fu eletto nel giugno del 1963 al soglio di Pietro.
Chiamato alla guida della Chiesa in uno dei momenti più delicati della storia dell’umanità, gli anni Sessanta e Settanta, caratterizzati dall’acuirsi della guerra fredda e dall’esplosione dei movimenti contestatori, affrontò i problemi con spirito di sacrificio, testimoniando la sua devozione per la Chiesa e per il genere umano.
Nella prima parte del suo pontificato viaggiò molto, inaugurando una tradizione poi seguita dai suoi successori; visitò la Terra Santa, gli Stati Uniti d’America, l’India, la Turchia, la Colombia, il Portogallo, la Svizzera, l’Africa, l’Asia e l’Oceania. Sceso dall’aereo baciava la terra che lo accoglieva e lo ospitava.
Scrisse sette encicliche, tra le quali la Populorum progressio (26 marzo 1967), un documento apprezzato anche da ambienti estranei alla Chiesa, la cui attualità rimane ad oggi evidente. Creò cardinali i suoi diretti successori: Karol Wojtila, Albino Luciani e Joseph Ratzinger.
Nel 1978 seguì con grande partecipazione il sequestro del presidente Aldo Moro, che Montini conosceva dai tempi della FUCI, adoperandosi in prima persona per la sua liberazione. Indirizzò, invano, una pubblica lettera ai rapitori: «Io scrivo a voi, uomini delle Brigate Rosse: restituite alla libertà, alla sua Famiglia, alla vita civile l’onorevole Aldo Moto. Io non vi conosco, e non ho modo d’aver alcun contatto con voi.
Per questo vi scrivo pubblicamente, profittando del margine di tempo, che rimane alla scadenza della minaccia di morte, che voi avete annunciata contro di lui, Uomo buono e onesto, che nessuno può incolpare di qualsiasi reato, o accusare di scarso senso sociale e di mancato servizio di giustizia e alla pacifica convivenza civile». L’assassinio di Moro segnò profondamente il papa.
Gli ultimi anni del magistero si rivelarono difficili, caratterizzati dai problemi di salute del pontefice, che prese in considerazione l’idea delle dimissioni, e dalla crisi della società contemporanea. Nel suo primo Angelus, il successore Giovanni Paolo I disse che in papa Montini ammirava «come si soffre per la Chiesa».
Papa Wojtila definì Montini «una figura gigantesca, che in un periodo non certo facile della storia della Chiesa ci ha insegnato, con un quotidiano martirio di sollecitudini e di lavoro, che cosa significhi amare e servire veramente Cristo e le anime».
Nell’estate del 1978, sentendo approssimarsi la fine, si preparò al distacco dal mondo. Nel corso dell’omelia tenuta in occasione del quindicesimo anniversario della sua incoronazione disse alla folla: «Pietro e Paolo “le grandi e giuste colonne” della Chiesa romana e della Chiesa universale! […]. Guardando a loro, noi gettiamo uno sguardo complessivo su quello che è stato il periodo durante il quale il Signore ci ha affidato la Chiesa; e, benché ci consideriamo l’ultimo e indegno successore di Pietro, ci sentiamo a questa soglia estrema confortati e sorretti dalla coscienza di aver instancabilmente ripetuto davanti alla Chiesa e al mondo: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”; anche noi, come Paolo, sentiamo di poter dire: “Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede”». (L. Carlesso)
Fonte: Vatican Insider
* * *
Da "Osservatore Romano di oggi, 6 agosto, di E. Versace.
Nell'estate di cinquant'anni fa, tra il 19 luglio ed il 10 agosto del 1962, l'allora arcivescovo di Milano, Giovanni Battista Montini, intraprese il più lungo viaggio del suo episcopato, attraversando diversi Paesi dell'Africa e sostando in Rhodesia, Sudafrica, Niger e Ghana. Fu quella la prima volta che un cardinale si recava, e per così tanto tempo, nelle lontane nazioni africane - eccettuando la breve sosta compiuta dal cardinale McIntyre, arcivescovo di Los Angeles, nella sola Lagos, in Nigeria, nel 1954, in occasione del Congresso mariano - e comunque quell'avvenimento, accolto con straordinarie ed inattese manifestazioni di entusiasmo dalle popolazioni locali, rappresentò la prima visita di un cardinale europeo nel continente nero. La conoscenza che Montini aveva acquisito sulle vicende africane traeva origine negli anni trascorsi in Segreteria di Stato, quando l'allora Sostituto si interessò direttamente alle sorti dei prigionieri eritrei, etiopi e somali, internati e confinati nei luoghi di prigionia italiani (come attesta anche il recente saggio di Giuseppe Ferraro, "Monsignor Montini e gli internati etiopici in Calabria (1937-1942)" apparso sulla "Rivista calabrese di storia del Novecento", 2, 2011, pagg. 83-92). Ma fu durante il periodo milanese che il nuovo arcivescovo maturò l'idea di fondare una missione in Africa, sostenuta dalla diocesi di Milano. "Quanto sarebbe bello - confidava Montini - che le Chiese locali si prendessero l'impegno, come nelle Chiese primitive, di portare l'annuncio del Vangelo ai popoli ancora ignari del Vangelo di Gesù". "Il viaggio missionario- scriverà al suo ritorno Montini rivolto a monsignor Pignedoli - ha lasciato in me impressioni vivissime, non solo per il carattere esotico e turistico del mio lungo itinerario, ma proprio per lo spettacolo meraviglioso e misterioso del grande continente che prende coscienza di sé e della civiltà, e per i segni commoventi e bellissimi del regno di Dio, che vi è annunciato e che sembra incontrarvi gli eletti al Vangelo dell'ora tardiva".
* * *
«Paolo VI e la Chiesa in Africa» è stato il tema dell’incontro organizzato dall’Istituto Paolo VI di Brescia, il Centro internazionale di studi e documentazione sulla vita e il magistero del Pontefice, insieme alla University of Eastern Africa di Nairobi in Kenya che ha ospitato l’iniziativa svoltasi l’1 e il 2 agosto.
Paolo VI, recatosi in Uganda dal 31 luglio al 2 agosto 1969, è stato il primo Papa a visitare la Chiesa in Africa, impegnandosi per la sua crescita e invitando tutti i suoi componenti a partecipare a una nuova “inculturazione” della fede cristiana. Tra i presenti al convegno i cardinali Re, Turkson, Njue, Pengo, Pasinya.
Di seguito riporto alcuni estratti dell’intervento del cardinale prefetto emerito della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti.
***
Papa Paolo VI era molto attento all’episcopato africano. La sua stessa visita a Kampala, Uganda, nel 1969, può essere considerata una pietra miliare fondamentale nei suoi rapporti con l’episcopato africano. Il giorno stesso del suo arrivo a Kampala inaugurò il Simposio delle Conferenze episcopali di Africa e Madagascar (Secam) e fece il suo discorso memorabile ai vescovi dell’Africa, nel quale, tra le altre cose, dichiarò: «Voi Africani siete oramai i missionari di voi stessi. La Chiesa di Cristo è davvero piantata in questa terra benedetta».
Continuò col dire che, riguardo all’adattamento del Vangelo e della Chiesa alla cultura africana, una volta che la fede è genuinamente cattolica e immutata, «voi potete e dovete avere un cristianesimo africano». Io ho avuto la gioia di essere presente a quell’evento.
Si percepiva una potenza divina pentecostale ed elettrizzante nella cattedrale di Kampala quando il Papa fece la sua allocuzione. Il giorno seguente, il Santo Padre ordinò dodici vescovi per vari Paesi africani. Diede loro e a tutti i vescovi dell’Africa un grande incoraggiamento per andare avanti vigorosamente con la missione di evangelizzazione: «Andate avanti con metodo e coraggio nella consapevolezza del vostro grande compito: quello di costruire la Chiesa».
Durante la visita il Papa consacrò l’altare al Santuario dei ventidue martiri ugandesi, incontrò i vescovi anglicani ugandesi, indirizzò un discorso di grande forza al presidente del Paese, visitò presidenti e notabili, nonché i malati in ospedale, e parlò a sacerdoti, religiosi e fedeli laici. Nel complesso, la visita papale in Uganda fu per i vescovi dell’Africa un messaggio, una pietra miliare e un segno di amore, che Paolo VI coltivò per l’Africa.
A parte alcune zone dell’Angola e dell’attuale Repubblica Democratica del Congo, la maggior parte dei Paesi nell’Africa al sud del Sahara non avevano ancora celebrato cento anni di evangelizzazione nel 1963, quando il cardinale Giovanni Battista Montini divenne Papa Paolo VI.
Consapevole del ruolo chiave del ministero dei vescovi nella Chiesa, e del bisogno di vescovi autoctoni per la costruzione di chiese o diocesi particolari in Paesi di recente evangelizzazione, il Papa, attraverso la Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, prestò speciale attenzione alla nomina dei vescovi nelle diocesi africane. Un buon numero di essi furono nominati durante il suo pontificato.
Papa Paolo VI dimostrò anche la sua fiducia nei vescovi africani nominando sette di loro cardinali e chiamando l’arcivescovo (più tardi cardinale) Bernardin Gantin a lavorare presso la Curia Romana. L’incontro inaugurale del Secam si tenne dal 28 al 31 luglio 1969, nell’Istituto Pastorale dell’Africa Orientale, a Gaba. Il Pontefice incoraggiò, lodò e sollecitò il Secam a fare sempre di più per l’evangelizzazione in Africa.
Il suo discorso storico, il giorno dell’inaugurazione, servì da tabella di marcia e da luce guida da quel giorno in poi. Paolo VI spiegò in modo chiaro e privo di ambiguità il ministero del vescovo in Africa.
Nel rivolgersi ai vescovi dell’Africa nel suo messaggio del 1967, Africae Terrarum, comincia citando il concilio Vaticano: «A voi è affidato il servizio della comunità, presiedendo in luogo di Dio al gregge, di cui siete pastori, quali maestri di dottrina, sacerdoti del sacro culto, ministri del governo della Chiesa» (Lumen Gentium, 20).
«A voi, pertanto, spetta rendere vivo ed efficace l’incontro del Cristianesimo con l’antica tradizione africana» (Africae Terrarum, 23). «Bisogna sempre dare la priorità a iniziative volte a portare Cristo a chi ancora non lo conosce» (cfr. Africae Terrarum, 25).
In occasione dell’ordinazione di dodici vescovi a Kampala, il 1° agosto 1969, ricordò ai vescovi che essi erano apostoli, veicoli e strumenti dell’amore di Cristo per la gente. Il loro lavoro pastorale avrebbe dovuto promuovere le comunità caritatevoli che operano tra la gente e contribuire a costruire la società civile, rimanendo allo stesso tempo liberi da impegni politici e interessi temporali.
Ricevendo i membri del Secam il 26 settembre 1975, il Santo Padre ricordò il dovere del vescovo di evangelizzare. La fede è la priorità in tutto ciò che fa il vescovo. Gli attuali vescovi africani sono, in grande parte, la prima generazione di pastori a emergere dalle popolazioni dell’Africa.
I loro compiti sono di offrire alle popolazioni di Africa e Madagascar la Parola di Dio, l’insegnamento della Chiesa, le richieste della fede. Devono cercare di trovare nuove modalità, e un migliore adattamento, per integrare e perfezionare i valori culturali tradizionali delle persone, con prudenza e saggezza. Non devono avere paura.
Il fatto che la fede radicata nei rispettivi Paesi abbia in pochi decenni fatto sorgere vescovi locali, abbia nutrito molte vocazioni sacerdotali e religiose, comunità di fedeli ferventi e generosi, catechisti impegnati e perfino la testimonianza di martiri: non è tutto questo un segno di autentica cristianità?
Nella sua prima udienza generale del mercoledì, al suo ritorno in Vaticano da Kampala, il Papa, a Castel Gandolfo, il 6 agosto 1969, comunicò alla gente le sue impressioni sulla visita in Uganda e sottolineò tre punti: la Chiesa è missionaria, universale e un modello di umanità nella sua attenzione a tutta la persona umana e alla sua dignità. Per il ruolo di guida proprio di un vescovo, queste osservazioni sono preziose.
In molte occasioni, Paolo VI sottolineò ai vescovi dell’Africa l’importanza della gratitudine nei confronti dei missionari che portavano la fede ai loro popoli. I missionari vennero in Africa per «partecipare agli Africani il messaggio di pace e di redenzione affidato alla Chiesa dal suo Divino Fondatore. Per amore di Lui, essi lasciarono la patria e la famiglia e moltissimi sacrificarono la vita al bene dell’Africa” (Africae Terrarum, 24).
Il Papa incoraggiò l’unione e la comunione tra il vescovo e gli operatori apostolici nella sua diocesi, specialmente i sacerdoti, i religiosi e i capi dei fedeli laici. Parlando ai sacerdoti, ai religiosi e ai catechisti nella cattedrale di Kampala il 2 agosto 1969, esortò: «Il vescovo! Il vostro vescovo! Siategli sempre vicini, comprendete i suoi desideri e i suoi bisogni, date forma e azione alla nuova organizzazione della comunità ecclesiale, fate in modo che la sua obbedienza sia amorevole e semplice, e vedete nel vescovo il vostro pastore; anzi, vedete in lui Gesù Cristo stesso (Lumen Gentium, 21).
Il Santo Padre esortò anche alla collaborazione per la missione della Chiesa in Africa tra più diocesi più antiche in altre parti del mondo, sacerdoti fidei donum, istituti missionari e religiosi, e ausiliari laici, tutti operanti di comune accordo con il vescovo diocesano (cfr. Africae Terrarum, 26-28).
Nel suo storico discorso al Secam alla sua inaugurazione a Kampala il 31 luglio 1969, Paolo VI, nell’incoraggiare l’azione per un autentico cristianesimo africano, menzionò alcuni primi requisiti preparatori: «Occorrerà un’incubazione del “mistero” cristiano nel genio del vostro popolo, perché poi la sua voce nativa, più limpida e più franca, si innalzi armoniosa nel coro delle altre voci della Chiesa universale. Dobbiamo noi ricordarvi, a questo proposito, quanto utile sarà per la Chiesa africana avere centri di vita contemplativa e monastica, centri di studi religiosi, centri di addestramento pastorale?».
Fornì altri dettagli nel suo discorso ai rappresentanti del Secam quando li ricevette in udienza nella Città del Vaticano il 26 settembre 1975. Per progredire è necessario che la ricerca rispetti la fede autentica e tradizionale della Chiesa.
Una volta che ciò sia garantito, è necessario promuovere gli studi sulle tradizioni culturali dei vari popoli africani e le relative impalcature filosofiche, per poter discernere elementi non in contraddizione con la religione cristiana e tutto ciò che possa arricchire la riflessione teologica. La ricerca teologica deve sempre essere fatta all’interno della comunione ecclesiale.
L’11 febbraio 1976, il Santo Padre scrisse all’arcivescovo (poi cardinale) Bernard Yago, arcivescovo di Abidjan, un messaggio di buona volontà e incoraggiamento in occasione della costituzione dell’Institut de Sciences Religieuses d’Abidjan. Era l’inizio di quella che sarebbe diventata un’università.
Durante il Sinodo dei vescovi, il 28 ottobre 1977, meno di un anno prima che lasciasse questo mondo, il Papa ricevette in udienza cinque cardinali e trentaquattro vescovi, tutti membri africani del Sinodo, che vennero a ringraziarlo nel decimo anniversario del messaggio papale, Africae Terrarum.
Nel suo discorso, il Santo Padre ripercorse l’incoraggiante crescita della Chiesa in Africa e ritornò sull’importanza dell’acculturazione: «Che cosa è in gioco in questo compito immenso? Come abbiamo scritto dieci anni fa nel nostro Messaggio all’Africa: è, dunque, vostra preoccupazione rendere vivo ed efficace l’incontro tra il cristianesimo e l’antica tradizione dell’Africa. In questo modo possiamo parlare del vero radicamento della Chiesa: è una questione di fondare o di rendere più profonda una nuova civiltà, una civiltà che sia al contempo africana e cristiana.
E affermiamo qui a voi che questo programma può essere realizzato, attraverso la grazia di Dio: che il cristianesimo può e deve essere del tutto “a casa” nelle culture africane, e che l’anima africana è destinata e preparata a ricevere la salvezza di Cristo» (Insegnamenti di Paolo VI, XV, 1977, p. 977). Perché tutto questo possa funzionare bene, il Papa ha dettato quattro condizioni: la fede deve vivificare da dentro le tradizioni e la civiltà che queste tradizioni comportano; la formazione di sacerdoti e religiosi è molto importante; la fede dovrebbe trasformare le relazioni umane, comprese quelle tra razze diverse; e i fedeli laici devono partecipare attivamente alla missione della Chiesa.
Ecco un esempio di come Paolo VI diede agli africani un buon esempio di come la Chiesa condivida «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d'oggi» (Gaudium et Spes, 1). La Federazione nigeriana condusse una guerra feroce contro la sua parte orientale che si autoproclamò Repubblica del Biafra.
La guerra ha imperversato dal luglio 1967 al gennaio 1970 e ha portato alla morte di almeno un milione di persone in Biafra a causa della fame e di migliaia di persone sui fronti di guerra. Il Santo Padre fece molti appelli. La Chiesa cattolica, sotto la guida della Caritas Internationalis, organizzò un’imponente azione di sostegno. Così fecero altri cristiani. Ma ciò che merita una menzione speciale qui è l’iniziativa di Papa Paolo VI che coinvolse direttamente i vescovi di Nigeria.
Nel 1969 il Santo Padre invitò i tre arcivescovi del Paese, di Kaduna, Lagos e Onitsha, e un altro vescovo di ognuna delle loro province ecclesiastiche, a venire in Vaticano. Ciò che vi era di notevole in questo evento è che sotto la guida del Vicario di Cristo, vescovi di due fazioni in guerra si incontrarono, meditarono insieme, pregarono insieme e, senza prendere una posizione politica, fecero appello a entrambi gli schieramenti del conflitto perché deponessero le armi, si prendessero cura del popolo sofferente e si impegnassero in una riconciliazione. È stato un privilegio e una scuola di evangelizzazione per me essere stato uno di quei sei vescovi ed essere vicino al grande Pontefice che fu Papa Paolo VI.
* * *
Di seguito il testo dell'omelia del cardinale Tettamanzi nella Messa della Solennità della Trasfigurazione del Signore in San Pietro.
Carissimi, in questa santa liturgia il Signore ci raggiunge ancora una volta con il dono della sua parola: una parola che penetra nel cuore ed è destinata a rinnovare la nostra vita nella logica e nel dinamismo della fede. Ci è dato così,nell’ascolto della parola di Dio,di fare nostra – in un certo senso - la visione del profeta Daniele (7, 9-10.13-14).
Con i suoi occhi contempliamo la figura del Vegliardo, cioè dell’Eterno, di Dio che è tutto candore e fuoco, servito e assistito da migliaia e miriadi di persone. E un’altra visioneancora ci è offerta: “Ecco venire con le nubi del cielo uno simile a un figlio d’uomo”, al quale vengono dati “potere, gloria e regno”; un potere eterno e universale, un regno che non sarà mai distrutto. È il Messia, il Figlio prediletto di Dio, il capo e salvatore della nuova umanità.
La parola di Dio ci regala oggi anche la testimonianza vissuta dall’apostolo Pietro (2 Pt1,16-19): l’aver ascoltato una voce straordinaria che, come vertice, porta a compimento tutte le voci dei profeti: “Questi è il Figlio mio, l’amato, nel quale ho posto il mio compiacimento”. L’apostolo poi ci invita alla grande attesa: “finchè non spunti il giorno e non sorga nei nostri cuori la stella del mattino”. È l’attesa tipica della speranza cristiana, ossia l’incontro personale definitivo con Cristo, il Figlio amato, nella visione del suo splendidissimovolto in un oceano di gioia per sempre.
Infine il racconto dell’evangelista Marco (9,2-10) ci immerge e ci invita a prendere parte all’esperienza spirituale vissuta dai tre apostoli scelti da Gesù: Pietro, Giacomo e Giovanni. Siamo così portati – insieme con loro – “su un alto monte”, quasi un nuovo Sinai; qui vediamo Gesù trasfigurato con le sue vesti “splendenti, bianchissime”, in colloquio familiare con Elia e Mosè: uno spettacolo che ci incanta, come avviene per Pietro che esclama: “Maestro, è bello per noi stare qui”.
Ed ora eccoci di fronte al segno della presenza viva di Dio stesso: “Si formò una nube che li avvolse nell’ombra e uscì una voce dalla nube: ‘Questi è il Figlio mio prediletto: ascoltatelo!’”. Infine, la sorpresa di trovare “Gesù solo” e di ricevere da lui, scendendo dal monte, l’ordine perentorio di “non raccontare a nessuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risuscitato dai morti”.
Ma perché? Lo stesso evangelista ci offre un interessante spunto di risposta quando scrive degli apostoli che obbediscono sì al comando di Cristo, ma tenendosi aperta nel cuore una domanda: “domandandosi però che cosa volesse dire risuscitare dai morti”.
Emerge così il senso profondo che Gesù da al suo trasfigurarsi davanti agli apostoli e in loro a tutti noi: è profezia di quella gloria che il Padre gli riserveràfacendolo risorgere da morte come frutto dell’amore e del dono totale di sè vissuto nelle tenebre delle sofferenze incontrate nella passione e sulla croce per la salvezza dell’umanità: di tutti e di ciascuno.
Riflettendo ora, nell’ascolto della Parola di Dio e nella preghiera, su questo senso della Trasfigurazione di Gesù possiamo coglierne i frutti di grazia e le esigenze morali per la nostra vita cristiana.
In questo ci è di aiuto l’esperienza spirituale e la parola di Papa Paolo VI, della cui piissima morte facciamo amorosa e commossa memoria in questa celebrazione eucaristica.
Si sa che Papa Montini amava molto la solennità liturgica della Trasfigurazione del Signore: la sentiva come momento di grande e profonda spiritualità.
È significativo, ad esempio, che la sua prima enciclica, Ecclesiam suam, sia stata pubblicata con la data del 6 agosto 1964. Un altro piccolissimo ma degno particolare è questo: per l’abside della rinnovata cappella del Seminario Lombardo dei Santi Ambrogio e Carlo in Roma, richiesto di un parere da parte del Rettore, Paolo VI suggeriva immediatamente la raffigurazione mosaicale del mistero della Trasfigurazione.
Soprattutto ci è dato, come singolare regalo,il testo del Discorso preparato per l’Angelus del 6 agosto 1978,che il Ponteficeperò non potè pronunciare a Castel Gandolfo perché malato. Come si sa, la sera di quello stesso giorno veniva lui stesso “trasfigurato” dalla morte.
Le parole di questo Discorso sono diventate realtà: dicono ormai, ne siamo certi, la condizione definitiva della vita beata di Paolo VI, accesa per sempre nel cuore stesso di Dio. E confido qui il mio ardente desiderio – e sono sicuro che è condiviso da tanti (tutti) – che presto la Chiesa possa venerare Paolo VI come beato: un desiderio che mi si riaccende ogniqualvolta leggo i suoi scritti e penso al suo servizio d’amore alla Chiesa e all’umanità.
Ecco le sue parole: “La Trasfigurazione del Signore… getta una luce abbagliante sulla nostra vita quotidiana e ci fa rivolgere la mente al destino immortale che quel fatto in sé adombra.
Sulla cima del Tabor, Cristo disvela per qualche istante lo splendore della sua divinità, e si manifesta ai testimoni prescelti quale realmente egli è, il Figlio di Dio, «l'irradiazione della gloria del Padre e l'impronta della sua sostanza» (Cfr. Hebr. 1, 3); ma fa vedere anche il trascendente destino della nostra natura umana, ch'egli ha assunto per salvarci, destinata anch'essa, perché redenta dal suo sacrificio d'amore irrevocabile, a partecipare alla pienezza della vita, alla «sorte dei santi nella luce» (Col. 1, 12).
Quel corpo, che si trasfigura davanti agli occhi attoniti degli apostoli, è il corpo di Cristo nostro fratello, ma è anche il nostro corpo chiamato alla gloria; quella luce che lo inonda è e sarà anche la nostra parte di eredità e di splendore. Siamo chiamati a condividere tanta gloria, perché siamo «partecipi della natura divina» (2 Petr. 1, 4).
Una sorte incomparabile ci attende, se avremo fatto onore alla nostra vocazione cristiana: se saremo vissuti nella logica consequenzialità di parole e di comportamento, che gli impegni del nostro battesimo ci impongono”.
Carissimi, nei riguardi della Trasfigurazione del Signore - come in rapporto a tutti gli altri “misteri” riguardanti la persona, la vita e la missione di Cristo – siamoinvitati al “sì” gioioso e impegnativo della fede.Possiamo fare della nostra fede un canto servendoci del Prefazio ambrosiano: “Cristo rivelò la sua gloria davanti a testimoni da lui prescelti e nella povertà della nostra comune natura fece risplendere una luce incomparabile. Preparò così i suoi discepoli a sostenere lo scandalo della croce, anticipando nella trasfigurazione il destino mirabile di tutta la Chiesa, sua sposa e suo corpo, chiamata a condividere la sorte del suo Capo e Signore”.
Il “sì” della nostra fede in questo mistero significa, in concreto, impegno diconoscenza, di contemplazione e preghiera, di vita coerente, testimonianza e slancio missionario e grande letizia spirituale. A sollecitarci in questo è l’imminente Anno della Fede, indetto da Benedetto XVI nel cinquantesimo anniversario del Concilio Vaticano II. Esso ci ricorda l’analogo Anno della Fede voluto da Paolo VI nel 1967.
Ed è a lui che in tema di fede desideriamo lasciare l’ultima parola, riprendendola da una sua udienza del mercoledì: “E cantando ora il Credo sul sepolcro dell’Apostolo, che ha avuto da Cristo la missione di confermare nella fede i fratelli, meglio comprenderemo il valore della fede nella vita cristiana: non più peso essa ci sembrerà, ma energia e gaudio; non più temeremo di immergerci nella vita profana del mondo, dove non saremo sperduti e naufraghi, ma testimoni sereni e forti d’una luce vigiliare e notturna, la fede nel tempo presente, foriera della luce piena del giorno eterno” (Udienza del mercoledì, 20 aprile 1966).
Così sia.
* * *
Da "Osservatore Romano di oggi, 6 agosto, di E. Versace.
Nell'estate di cinquant'anni fa, tra il 19 luglio ed il 10 agosto del 1962, l'allora arcivescovo di Milano, Giovanni Battista Montini, intraprese il più lungo viaggio del suo episcopato, attraversando diversi Paesi dell'Africa e sostando in Rhodesia, Sudafrica, Niger e Ghana. Fu quella la prima volta che un cardinale si recava, e per così tanto tempo, nelle lontane nazioni africane - eccettuando la breve sosta compiuta dal cardinale McIntyre, arcivescovo di Los Angeles, nella sola Lagos, in Nigeria, nel 1954, in occasione del Congresso mariano - e comunque quell'avvenimento, accolto con straordinarie ed inattese manifestazioni di entusiasmo dalle popolazioni locali, rappresentò la prima visita di un cardinale europeo nel continente nero. La conoscenza che Montini aveva acquisito sulle vicende africane traeva origine negli anni trascorsi in Segreteria di Stato, quando l'allora Sostituto si interessò direttamente alle sorti dei prigionieri eritrei, etiopi e somali, internati e confinati nei luoghi di prigionia italiani (come attesta anche il recente saggio di Giuseppe Ferraro, "Monsignor Montini e gli internati etiopici in Calabria (1937-1942)" apparso sulla "Rivista calabrese di storia del Novecento", 2, 2011, pagg. 83-92). Ma fu durante il periodo milanese che il nuovo arcivescovo maturò l'idea di fondare una missione in Africa, sostenuta dalla diocesi di Milano. "Quanto sarebbe bello - confidava Montini - che le Chiese locali si prendessero l'impegno, come nelle Chiese primitive, di portare l'annuncio del Vangelo ai popoli ancora ignari del Vangelo di Gesù". "Il viaggio missionario- scriverà al suo ritorno Montini rivolto a monsignor Pignedoli - ha lasciato in me impressioni vivissime, non solo per il carattere esotico e turistico del mio lungo itinerario, ma proprio per lo spettacolo meraviglioso e misterioso del grande continente che prende coscienza di sé e della civiltà, e per i segni commoventi e bellissimi del regno di Dio, che vi è annunciato e che sembra incontrarvi gli eletti al Vangelo dell'ora tardiva".
* * *
«Paolo VI e la Chiesa in Africa» è stato il tema dell’incontro organizzato dall’Istituto Paolo VI di Brescia, il Centro internazionale di studi e documentazione sulla vita e il magistero del Pontefice, insieme alla University of Eastern Africa di Nairobi in Kenya che ha ospitato l’iniziativa svoltasi l’1 e il 2 agosto.
Paolo VI, recatosi in Uganda dal 31 luglio al 2 agosto 1969, è stato il primo Papa a visitare la Chiesa in Africa, impegnandosi per la sua crescita e invitando tutti i suoi componenti a partecipare a una nuova “inculturazione” della fede cristiana. Tra i presenti al convegno i cardinali Re, Turkson, Njue, Pengo, Pasinya.
Di seguito riporto alcuni estratti dell’intervento del cardinale prefetto emerito della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti.
***
Papa Paolo VI era molto attento all’episcopato africano. La sua stessa visita a Kampala, Uganda, nel 1969, può essere considerata una pietra miliare fondamentale nei suoi rapporti con l’episcopato africano. Il giorno stesso del suo arrivo a Kampala inaugurò il Simposio delle Conferenze episcopali di Africa e Madagascar (Secam) e fece il suo discorso memorabile ai vescovi dell’Africa, nel quale, tra le altre cose, dichiarò: «Voi Africani siete oramai i missionari di voi stessi. La Chiesa di Cristo è davvero piantata in questa terra benedetta».
Continuò col dire che, riguardo all’adattamento del Vangelo e della Chiesa alla cultura africana, una volta che la fede è genuinamente cattolica e immutata, «voi potete e dovete avere un cristianesimo africano». Io ho avuto la gioia di essere presente a quell’evento.
Si percepiva una potenza divina pentecostale ed elettrizzante nella cattedrale di Kampala quando il Papa fece la sua allocuzione. Il giorno seguente, il Santo Padre ordinò dodici vescovi per vari Paesi africani. Diede loro e a tutti i vescovi dell’Africa un grande incoraggiamento per andare avanti vigorosamente con la missione di evangelizzazione: «Andate avanti con metodo e coraggio nella consapevolezza del vostro grande compito: quello di costruire la Chiesa».
Durante la visita il Papa consacrò l’altare al Santuario dei ventidue martiri ugandesi, incontrò i vescovi anglicani ugandesi, indirizzò un discorso di grande forza al presidente del Paese, visitò presidenti e notabili, nonché i malati in ospedale, e parlò a sacerdoti, religiosi e fedeli laici. Nel complesso, la visita papale in Uganda fu per i vescovi dell’Africa un messaggio, una pietra miliare e un segno di amore, che Paolo VI coltivò per l’Africa.
A parte alcune zone dell’Angola e dell’attuale Repubblica Democratica del Congo, la maggior parte dei Paesi nell’Africa al sud del Sahara non avevano ancora celebrato cento anni di evangelizzazione nel 1963, quando il cardinale Giovanni Battista Montini divenne Papa Paolo VI.
Consapevole del ruolo chiave del ministero dei vescovi nella Chiesa, e del bisogno di vescovi autoctoni per la costruzione di chiese o diocesi particolari in Paesi di recente evangelizzazione, il Papa, attraverso la Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, prestò speciale attenzione alla nomina dei vescovi nelle diocesi africane. Un buon numero di essi furono nominati durante il suo pontificato.
Papa Paolo VI dimostrò anche la sua fiducia nei vescovi africani nominando sette di loro cardinali e chiamando l’arcivescovo (più tardi cardinale) Bernardin Gantin a lavorare presso la Curia Romana. L’incontro inaugurale del Secam si tenne dal 28 al 31 luglio 1969, nell’Istituto Pastorale dell’Africa Orientale, a Gaba. Il Pontefice incoraggiò, lodò e sollecitò il Secam a fare sempre di più per l’evangelizzazione in Africa.
Il suo discorso storico, il giorno dell’inaugurazione, servì da tabella di marcia e da luce guida da quel giorno in poi. Paolo VI spiegò in modo chiaro e privo di ambiguità il ministero del vescovo in Africa.
Nel rivolgersi ai vescovi dell’Africa nel suo messaggio del 1967, Africae Terrarum, comincia citando il concilio Vaticano: «A voi è affidato il servizio della comunità, presiedendo in luogo di Dio al gregge, di cui siete pastori, quali maestri di dottrina, sacerdoti del sacro culto, ministri del governo della Chiesa» (Lumen Gentium, 20).
«A voi, pertanto, spetta rendere vivo ed efficace l’incontro del Cristianesimo con l’antica tradizione africana» (Africae Terrarum, 23). «Bisogna sempre dare la priorità a iniziative volte a portare Cristo a chi ancora non lo conosce» (cfr. Africae Terrarum, 25).
In occasione dell’ordinazione di dodici vescovi a Kampala, il 1° agosto 1969, ricordò ai vescovi che essi erano apostoli, veicoli e strumenti dell’amore di Cristo per la gente. Il loro lavoro pastorale avrebbe dovuto promuovere le comunità caritatevoli che operano tra la gente e contribuire a costruire la società civile, rimanendo allo stesso tempo liberi da impegni politici e interessi temporali.
Ricevendo i membri del Secam il 26 settembre 1975, il Santo Padre ricordò il dovere del vescovo di evangelizzare. La fede è la priorità in tutto ciò che fa il vescovo. Gli attuali vescovi africani sono, in grande parte, la prima generazione di pastori a emergere dalle popolazioni dell’Africa.
I loro compiti sono di offrire alle popolazioni di Africa e Madagascar la Parola di Dio, l’insegnamento della Chiesa, le richieste della fede. Devono cercare di trovare nuove modalità, e un migliore adattamento, per integrare e perfezionare i valori culturali tradizionali delle persone, con prudenza e saggezza. Non devono avere paura.
Il fatto che la fede radicata nei rispettivi Paesi abbia in pochi decenni fatto sorgere vescovi locali, abbia nutrito molte vocazioni sacerdotali e religiose, comunità di fedeli ferventi e generosi, catechisti impegnati e perfino la testimonianza di martiri: non è tutto questo un segno di autentica cristianità?
Nella sua prima udienza generale del mercoledì, al suo ritorno in Vaticano da Kampala, il Papa, a Castel Gandolfo, il 6 agosto 1969, comunicò alla gente le sue impressioni sulla visita in Uganda e sottolineò tre punti: la Chiesa è missionaria, universale e un modello di umanità nella sua attenzione a tutta la persona umana e alla sua dignità. Per il ruolo di guida proprio di un vescovo, queste osservazioni sono preziose.
In molte occasioni, Paolo VI sottolineò ai vescovi dell’Africa l’importanza della gratitudine nei confronti dei missionari che portavano la fede ai loro popoli. I missionari vennero in Africa per «partecipare agli Africani il messaggio di pace e di redenzione affidato alla Chiesa dal suo Divino Fondatore. Per amore di Lui, essi lasciarono la patria e la famiglia e moltissimi sacrificarono la vita al bene dell’Africa” (Africae Terrarum, 24).
Il Papa incoraggiò l’unione e la comunione tra il vescovo e gli operatori apostolici nella sua diocesi, specialmente i sacerdoti, i religiosi e i capi dei fedeli laici. Parlando ai sacerdoti, ai religiosi e ai catechisti nella cattedrale di Kampala il 2 agosto 1969, esortò: «Il vescovo! Il vostro vescovo! Siategli sempre vicini, comprendete i suoi desideri e i suoi bisogni, date forma e azione alla nuova organizzazione della comunità ecclesiale, fate in modo che la sua obbedienza sia amorevole e semplice, e vedete nel vescovo il vostro pastore; anzi, vedete in lui Gesù Cristo stesso (Lumen Gentium, 21).
Il Santo Padre esortò anche alla collaborazione per la missione della Chiesa in Africa tra più diocesi più antiche in altre parti del mondo, sacerdoti fidei donum, istituti missionari e religiosi, e ausiliari laici, tutti operanti di comune accordo con il vescovo diocesano (cfr. Africae Terrarum, 26-28).
Nel suo storico discorso al Secam alla sua inaugurazione a Kampala il 31 luglio 1969, Paolo VI, nell’incoraggiare l’azione per un autentico cristianesimo africano, menzionò alcuni primi requisiti preparatori: «Occorrerà un’incubazione del “mistero” cristiano nel genio del vostro popolo, perché poi la sua voce nativa, più limpida e più franca, si innalzi armoniosa nel coro delle altre voci della Chiesa universale. Dobbiamo noi ricordarvi, a questo proposito, quanto utile sarà per la Chiesa africana avere centri di vita contemplativa e monastica, centri di studi religiosi, centri di addestramento pastorale?».
Fornì altri dettagli nel suo discorso ai rappresentanti del Secam quando li ricevette in udienza nella Città del Vaticano il 26 settembre 1975. Per progredire è necessario che la ricerca rispetti la fede autentica e tradizionale della Chiesa.
Una volta che ciò sia garantito, è necessario promuovere gli studi sulle tradizioni culturali dei vari popoli africani e le relative impalcature filosofiche, per poter discernere elementi non in contraddizione con la religione cristiana e tutto ciò che possa arricchire la riflessione teologica. La ricerca teologica deve sempre essere fatta all’interno della comunione ecclesiale.
L’11 febbraio 1976, il Santo Padre scrisse all’arcivescovo (poi cardinale) Bernard Yago, arcivescovo di Abidjan, un messaggio di buona volontà e incoraggiamento in occasione della costituzione dell’Institut de Sciences Religieuses d’Abidjan. Era l’inizio di quella che sarebbe diventata un’università.
Durante il Sinodo dei vescovi, il 28 ottobre 1977, meno di un anno prima che lasciasse questo mondo, il Papa ricevette in udienza cinque cardinali e trentaquattro vescovi, tutti membri africani del Sinodo, che vennero a ringraziarlo nel decimo anniversario del messaggio papale, Africae Terrarum.
Nel suo discorso, il Santo Padre ripercorse l’incoraggiante crescita della Chiesa in Africa e ritornò sull’importanza dell’acculturazione: «Che cosa è in gioco in questo compito immenso? Come abbiamo scritto dieci anni fa nel nostro Messaggio all’Africa: è, dunque, vostra preoccupazione rendere vivo ed efficace l’incontro tra il cristianesimo e l’antica tradizione dell’Africa. In questo modo possiamo parlare del vero radicamento della Chiesa: è una questione di fondare o di rendere più profonda una nuova civiltà, una civiltà che sia al contempo africana e cristiana.
E affermiamo qui a voi che questo programma può essere realizzato, attraverso la grazia di Dio: che il cristianesimo può e deve essere del tutto “a casa” nelle culture africane, e che l’anima africana è destinata e preparata a ricevere la salvezza di Cristo» (Insegnamenti di Paolo VI, XV, 1977, p. 977). Perché tutto questo possa funzionare bene, il Papa ha dettato quattro condizioni: la fede deve vivificare da dentro le tradizioni e la civiltà che queste tradizioni comportano; la formazione di sacerdoti e religiosi è molto importante; la fede dovrebbe trasformare le relazioni umane, comprese quelle tra razze diverse; e i fedeli laici devono partecipare attivamente alla missione della Chiesa.
Ecco un esempio di come Paolo VI diede agli africani un buon esempio di come la Chiesa condivida «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d'oggi» (Gaudium et Spes, 1). La Federazione nigeriana condusse una guerra feroce contro la sua parte orientale che si autoproclamò Repubblica del Biafra.
La guerra ha imperversato dal luglio 1967 al gennaio 1970 e ha portato alla morte di almeno un milione di persone in Biafra a causa della fame e di migliaia di persone sui fronti di guerra. Il Santo Padre fece molti appelli. La Chiesa cattolica, sotto la guida della Caritas Internationalis, organizzò un’imponente azione di sostegno. Così fecero altri cristiani. Ma ciò che merita una menzione speciale qui è l’iniziativa di Papa Paolo VI che coinvolse direttamente i vescovi di Nigeria.
Nel 1969 il Santo Padre invitò i tre arcivescovi del Paese, di Kaduna, Lagos e Onitsha, e un altro vescovo di ognuna delle loro province ecclesiastiche, a venire in Vaticano. Ciò che vi era di notevole in questo evento è che sotto la guida del Vicario di Cristo, vescovi di due fazioni in guerra si incontrarono, meditarono insieme, pregarono insieme e, senza prendere una posizione politica, fecero appello a entrambi gli schieramenti del conflitto perché deponessero le armi, si prendessero cura del popolo sofferente e si impegnassero in una riconciliazione. È stato un privilegio e una scuola di evangelizzazione per me essere stato uno di quei sei vescovi ed essere vicino al grande Pontefice che fu Papa Paolo VI.
* * *
Di seguito il testo dell'omelia del cardinale Tettamanzi nella Messa della Solennità della Trasfigurazione del Signore in San Pietro.
Carissimi, in questa santa liturgia il Signore ci raggiunge ancora una volta con il dono della sua parola: una parola che penetra nel cuore ed è destinata a rinnovare la nostra vita nella logica e nel dinamismo della fede. Ci è dato così,nell’ascolto della parola di Dio,di fare nostra – in un certo senso - la visione del profeta Daniele (7, 9-10.13-14).
Con i suoi occhi contempliamo la figura del Vegliardo, cioè dell’Eterno, di Dio che è tutto candore e fuoco, servito e assistito da migliaia e miriadi di persone. E un’altra visioneancora ci è offerta: “Ecco venire con le nubi del cielo uno simile a un figlio d’uomo”, al quale vengono dati “potere, gloria e regno”; un potere eterno e universale, un regno che non sarà mai distrutto. È il Messia, il Figlio prediletto di Dio, il capo e salvatore della nuova umanità.
La parola di Dio ci regala oggi anche la testimonianza vissuta dall’apostolo Pietro (2 Pt1,16-19): l’aver ascoltato una voce straordinaria che, come vertice, porta a compimento tutte le voci dei profeti: “Questi è il Figlio mio, l’amato, nel quale ho posto il mio compiacimento”. L’apostolo poi ci invita alla grande attesa: “finchè non spunti il giorno e non sorga nei nostri cuori la stella del mattino”. È l’attesa tipica della speranza cristiana, ossia l’incontro personale definitivo con Cristo, il Figlio amato, nella visione del suo splendidissimovolto in un oceano di gioia per sempre.
Infine il racconto dell’evangelista Marco (9,2-10) ci immerge e ci invita a prendere parte all’esperienza spirituale vissuta dai tre apostoli scelti da Gesù: Pietro, Giacomo e Giovanni. Siamo così portati – insieme con loro – “su un alto monte”, quasi un nuovo Sinai; qui vediamo Gesù trasfigurato con le sue vesti “splendenti, bianchissime”, in colloquio familiare con Elia e Mosè: uno spettacolo che ci incanta, come avviene per Pietro che esclama: “Maestro, è bello per noi stare qui”.
Ed ora eccoci di fronte al segno della presenza viva di Dio stesso: “Si formò una nube che li avvolse nell’ombra e uscì una voce dalla nube: ‘Questi è il Figlio mio prediletto: ascoltatelo!’”. Infine, la sorpresa di trovare “Gesù solo” e di ricevere da lui, scendendo dal monte, l’ordine perentorio di “non raccontare a nessuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risuscitato dai morti”.
Ma perché? Lo stesso evangelista ci offre un interessante spunto di risposta quando scrive degli apostoli che obbediscono sì al comando di Cristo, ma tenendosi aperta nel cuore una domanda: “domandandosi però che cosa volesse dire risuscitare dai morti”.
Emerge così il senso profondo che Gesù da al suo trasfigurarsi davanti agli apostoli e in loro a tutti noi: è profezia di quella gloria che il Padre gli riserveràfacendolo risorgere da morte come frutto dell’amore e del dono totale di sè vissuto nelle tenebre delle sofferenze incontrate nella passione e sulla croce per la salvezza dell’umanità: di tutti e di ciascuno.
Riflettendo ora, nell’ascolto della Parola di Dio e nella preghiera, su questo senso della Trasfigurazione di Gesù possiamo coglierne i frutti di grazia e le esigenze morali per la nostra vita cristiana.
In questo ci è di aiuto l’esperienza spirituale e la parola di Papa Paolo VI, della cui piissima morte facciamo amorosa e commossa memoria in questa celebrazione eucaristica.
Si sa che Papa Montini amava molto la solennità liturgica della Trasfigurazione del Signore: la sentiva come momento di grande e profonda spiritualità.
È significativo, ad esempio, che la sua prima enciclica, Ecclesiam suam, sia stata pubblicata con la data del 6 agosto 1964. Un altro piccolissimo ma degno particolare è questo: per l’abside della rinnovata cappella del Seminario Lombardo dei Santi Ambrogio e Carlo in Roma, richiesto di un parere da parte del Rettore, Paolo VI suggeriva immediatamente la raffigurazione mosaicale del mistero della Trasfigurazione.
Soprattutto ci è dato, come singolare regalo,il testo del Discorso preparato per l’Angelus del 6 agosto 1978,che il Ponteficeperò non potè pronunciare a Castel Gandolfo perché malato. Come si sa, la sera di quello stesso giorno veniva lui stesso “trasfigurato” dalla morte.
Le parole di questo Discorso sono diventate realtà: dicono ormai, ne siamo certi, la condizione definitiva della vita beata di Paolo VI, accesa per sempre nel cuore stesso di Dio. E confido qui il mio ardente desiderio – e sono sicuro che è condiviso da tanti (tutti) – che presto la Chiesa possa venerare Paolo VI come beato: un desiderio che mi si riaccende ogniqualvolta leggo i suoi scritti e penso al suo servizio d’amore alla Chiesa e all’umanità.
Ecco le sue parole: “La Trasfigurazione del Signore… getta una luce abbagliante sulla nostra vita quotidiana e ci fa rivolgere la mente al destino immortale che quel fatto in sé adombra.
Sulla cima del Tabor, Cristo disvela per qualche istante lo splendore della sua divinità, e si manifesta ai testimoni prescelti quale realmente egli è, il Figlio di Dio, «l'irradiazione della gloria del Padre e l'impronta della sua sostanza» (Cfr. Hebr. 1, 3); ma fa vedere anche il trascendente destino della nostra natura umana, ch'egli ha assunto per salvarci, destinata anch'essa, perché redenta dal suo sacrificio d'amore irrevocabile, a partecipare alla pienezza della vita, alla «sorte dei santi nella luce» (Col. 1, 12).
Quel corpo, che si trasfigura davanti agli occhi attoniti degli apostoli, è il corpo di Cristo nostro fratello, ma è anche il nostro corpo chiamato alla gloria; quella luce che lo inonda è e sarà anche la nostra parte di eredità e di splendore. Siamo chiamati a condividere tanta gloria, perché siamo «partecipi della natura divina» (2 Petr. 1, 4).
Una sorte incomparabile ci attende, se avremo fatto onore alla nostra vocazione cristiana: se saremo vissuti nella logica consequenzialità di parole e di comportamento, che gli impegni del nostro battesimo ci impongono”.
Carissimi, nei riguardi della Trasfigurazione del Signore - come in rapporto a tutti gli altri “misteri” riguardanti la persona, la vita e la missione di Cristo – siamoinvitati al “sì” gioioso e impegnativo della fede.Possiamo fare della nostra fede un canto servendoci del Prefazio ambrosiano: “Cristo rivelò la sua gloria davanti a testimoni da lui prescelti e nella povertà della nostra comune natura fece risplendere una luce incomparabile. Preparò così i suoi discepoli a sostenere lo scandalo della croce, anticipando nella trasfigurazione il destino mirabile di tutta la Chiesa, sua sposa e suo corpo, chiamata a condividere la sorte del suo Capo e Signore”.
Il “sì” della nostra fede in questo mistero significa, in concreto, impegno diconoscenza, di contemplazione e preghiera, di vita coerente, testimonianza e slancio missionario e grande letizia spirituale. A sollecitarci in questo è l’imminente Anno della Fede, indetto da Benedetto XVI nel cinquantesimo anniversario del Concilio Vaticano II. Esso ci ricorda l’analogo Anno della Fede voluto da Paolo VI nel 1967.
Ed è a lui che in tema di fede desideriamo lasciare l’ultima parola, riprendendola da una sua udienza del mercoledì: “E cantando ora il Credo sul sepolcro dell’Apostolo, che ha avuto da Cristo la missione di confermare nella fede i fratelli, meglio comprenderemo il valore della fede nella vita cristiana: non più peso essa ci sembrerà, ma energia e gaudio; non più temeremo di immergerci nella vita profana del mondo, dove non saremo sperduti e naufraghi, ma testimoni sereni e forti d’una luce vigiliare e notturna, la fede nel tempo presente, foriera della luce piena del giorno eterno” (Udienza del mercoledì, 20 aprile 1966).
Così sia.