mercoledì 3 aprile 2013

Papa Francesco: a che serve lamentarsi?




L’episodio dei discepoli di Emmaus, che propone la liturgia del Mercoledì nell’Ottava di Pasqua, è stato al centro della breve omelia pronunciata stamani da Papa Francesco durante la Messa presieduta nella Casa Santa Marta. Erano presenti i dipendenti della Domus Romana Sacerdotalis. Ce ne parla Sergio Centofanti:

Il Vangelo di questo mercoledì mostra i due discepoli di Emmaus lasciare Gerusalemme dopo la morte del Maestro. “Avevano paura” – osserva il Papa – tutti i discepoli avevano paura. Ma lungo la strada parlavano sempre delle vicende appena vissute “e si lamentavano”. Anzi, non cessavano di lamentarsi – ha affermato il Papa – “e più si lamentavano, più erano chiusi in se stessi: non avevano orizzonte, solo un muro davanti”. Dopo tanta speranza, provavano il fallimento di tutto ciò in cui avevano creduto: “E cucinavano – per così dire – cucinavano la loro vita nel succo delle loro lamentele, e andavano avanti così, avanti, avanti, avanti con le lamentele. Io penso tante volte che noi – ha aggiunto il Papa - quando succedono cose difficili, anche quando ci visita la Croce, corriamo questo pericolo di chiuderci nelle lamentele. E il Signore anche in questo momento è vicino a noi, ma non lo riconosciamo. E cammina con noi. Ma non lo riconosciamo”. E anche se Gesù ci parla – ha proseguito - e noi sentiamo cose belle, dentro di noi, in fondo continuiamo ad avere paura: sembra “più sicuro il lamento! E’ come una sicurezza: questa è la mia verità, il fallimento. Non c’è più speranza”.

E’ bello – ha sottolineato il Papa – vedere la pazienza di Gesù con i due discepoli di Emmaus: “Prima li ascolta, poi spiega loro lentamente, lentamente … E poi, alla fine, si fa vedere. Come ha fatto con la Maddalena, al Sepolcro”. “Gesù fa così con noi. Anche nei momenti più oscuri: Lui sempre è con noi, cammina con noi. E alla fine ci fa vedere la sua presenza”.

Papa Francesco sottolinea un elemento: “Le lamentele sono cattive”: non soltanto quelle contro gli altri, ma anche quello contro noi stessi, quando tutto ci appare amaro. “Sono cattive – afferma - perché ci tolgono la speranza. Non entriamo in questo gioco di vivere dei lamenti” – esorta il Papa – ma se qualcosa non va rifugiamoci nel Signore, confidiamoci con Lui: “non mangiamo lamentele, perché queste tolgono la speranza, tolgono l’orizzonte e ci chiudono come con un muro. E da lì non si può uscire. Ma il Signore ha pazienza – ha aggiunto il Papa - e sa come farci uscire da questa situazione”. Come è successo ai discepoli di Emmaus che l’hanno riconosciuto quando ha spezzato il pane. “Abbiamo fiducia nel Signore – è l’invito del Papa - Lui sempre ci accompagna nel nostro cammino, anche nelle ore più oscure”: “siamo sicuri che il Signore mai ci abbandona: sempre è con noi, anche nel momento difficile. E non cerchiamo rifugio nelle lamentele: ci fanno male. Ci fanno male al cuore”.

Fonte: Radio Vaticana

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 Riporto da "Il Foglio" di oggi, 3 aprile.
L’idillio tra i grandi media e Papa Francesco continua. Piacciono le sue omelie brevi, sorprende il suo fermare la jeep che lo porta tra i fedeli che gremiscono piazza San Pietro, commuovono i suoi abbracci ai malati e i baci ai bambini. Si sprecano i paragoni: c’è chi vede in lui un nuovo Albino Luciani e c’è chi nota una somiglianza nello stile con Giovanni XXIII. Roncalli, però, la mozzetta la portava. Non solo, ma fu proprio il successore di Pio XII a riportare in auge il camauro nella versione invernale. E’ uno degli episodi cui si appigliano i tradizionalisti che avanzano sul Web le prime critiche a Francesco. Sul Corriere della Sera di ieri, Luigi Accattoli ricordava come le critiche riguardino le vesti, la liturgia, l’uso delle lingue e la preferenza per il titolo di “vescovo di Roma” anziché di “Papa”. Il sito messainlatino.it, poche ore dopo l’elezione di Bergoglio, ricordava come il nuovo Pontefice si fosse “distinto per un’applicazione tiepida, per usare un eufemismo, del Summorum pontificum (il motu proprio di Papa Ratzinger che consente la celebrazione della messa tridentina, ndr)”. Seguiva una laica preghiera per il maestro delle cerimonie liturgiche: “Povero Guido Marini, chissà quanto poco durerà ancora. Manco la mozzetta è riuscito a mettergli addosso”.
Più articolate le critiche alla scelta di celebrare la messa in Coena Domini nel penitenziario di Casal del Marmo. Sul sito cattoliciromani.com si è discusso sulla stola indossata dal Papa: diaconale e non episcopale, trasversale e non dritta: “Un abuso”, secondo qualche liturgista. A creare più preoccupazione è stata però la scelta di lavare i piedi anche a due donne per di più non cattoliche. Il blog rorate-caeli.blogspot.com ha avvertito che “solo uomini scelti” possono partecipare a quel rito. Altre critiche sono state sollevate per la semplificazione dell’apparato simbolico che accompagna le celebrazioni liturgiche: casule semplici, niente troni, omelie dall’ambone, durata ridotta delle messe – scelta che il vaticanista Sandro Magister, sul suo sito, ha definito “non sempre comprensibile”, come nel caso della veglia pasquale, quando sono state “ridotte all’osso le letture bibliche e si è letteralmente mutilata la prima”. Osservazioni anche sul fatto che Papa Francesco non canta né usa il recto tono per la benedizione Urbi et Orbi. “Il gesuita nec rubricat nec cantat”, non canta né si occupa delle rubriche liturgiche, ha detto con una battuta padre Lombardi (gesuita pure lui) rispondendo a chi mostrava perplessità per l’innovazione introdotta dal Papa argentino, dimenticando quella “certa afonia” di cui la Sala stampa aveva già parlato ricordando i problemi di salute del Pontefice.

“Troppi precetti fanno male alla chiesa”
Ma Francesco, e ancor prima Jorge Mario Bergoglio, è sempre stato così. E’ un gesuita, e la sua insofferenza per i cerimoniali e i rituali l’aveva già espressa più volte. L’ultima qualche mese fa, nell’omelia a chiusura dell’incontro della Pastorale urbana a Buenos Aires: “Gesù mangiava con i peccatori e a chi si scandalizzava diceva che i pubblicani e le prostitute li avrebbero preceduti nel Regno dei cieli. Sono quelli che hanno clericalizzato la chiesa del Signore, che la riempiono di precetti. Questi sono gli ipocriti di oggi”. L’allora arcivescovo della capitale argentina aggiungeva che “clericalizzare la chiesa è un’ipocrisia farisaica”.
E ancora, nella predica della messa crismale, il Papa ricordava che “la liturgia non è semplice ornamento e gusto per i drappi, bensì presenza della gloria del nostro Dio che risplende nel suo popolo vivo e confortato”. I discorsi di Francesco sono diretti, chiari, brevi, ma mai banali. Nelle messe mattutine a Santa Marta il Papa invita a riflettere sul perdono, la pazienza, la gioia oscura del pettegolezzo. Dietro il parlare facile di Bergoglio che segue la grande concettualizzazione di Joseph Ratzinger, dietro il “buon pranzo” con cui saluta i fedeli che gremiscono piazza San Pietro per l’Angelus o il Regina Coeli, c’è un fondo teologico. I gesuiti sono sempre stati grandi teologi, e lo stesso Bergoglio, qualche decennio fa, stava preparando una tesi di dottorato in Teologia su Romano Guardini. Fino a oggi ha preferito citare le massime della nonna o di qualche anziana signora confessata vent’anni fa in cattedrale. Intanto, però, come riportato ieri dalla Stampa, si confronta per la stesura delle omelie con Luis Francisco Ladaria Ferrer, arcivescovo spagnolo, gesuita che Benedetto XVI nominò segretario della congregazione per la dottrina della fede.
Francesco appartiene a un ordine particolare, quello che per volontà di Ignazio di Loyola non contempla i quattro aspetti caratterizzanti l’organizzazione monastica: le decisioni prese a maggioranza dai membri della stessa comunità riuniti nel capitolo, l’elezione del superiore da parte delle comunità, la stabilitas loci (abitare fino alla morte nella stesso luogo) e, soprattutto, la recita corale dell’ufficio divino. I gesuiti sono solitari, pregano da soli nelle loro stanze, danno forma a una spiritualità radicata negli Esercizi. Da sempre favorevoli alla pratica della confessione generale come sintesi di un percorso di introspezione e scoperta di sé, non è un caso che tra le prime omelie di Francesco abbia trovato uno spazio di rilievo il tema della confessione – che per un gesuita deve essere frequente, in modo da ricavare consolazione e forza interiore. I gesuiti sono autonomi, e Bergoglio rispecchia in pieno le caratteristiche del chierico ignaziano: parla con tutti, prende nota e poi decide senza chiedere pareri a nessuno, dicono con qualche apprensione in Vaticano. E lo fa nella sua suite, la numero 201 del residence di Santa Marta. Il suo stile è austero, in sintonia con la vocazione “militare” dell’ordine. Uno stile che già nel XVI secolo lasciò perplesso più di un porporato: “Ma che religiosi siete se non avete neppure il canto e la preghiera corale?”, sbottò il cardinale Gian Pietro Carafa, fondatore dei chierici teatini. (M. Matzuzzi)

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