sabato 9 agosto 2014

La Chiesa e la guerra

Donne vendute come schiaveGenocidio dei cristiani, l'ora della "guerra giusta"?
di Massimo Introvigne

Papa Francesco «rivolge il suo pressante appello alla Comunità internazionale, affinché, attivandosi per porre fine al dramma umanitario in atto, si adoperi per proteggere quanti sono interessati o minacciati dalla violenza». L'appello del Pontefice si riferisce al «Nord dell'Iraq» e non riguarda solo i cristiani, ce ne sono centomila in fuga, ma tutte le vittime della violenza. Il calvario dei cristiani della regione di Mosul è noto, e lo conoscono bene i nostri lettori. Ma alle stragi di cristiani si affiancano ora quelle dei seguaci di un'altra religione, gli Yezidi (leggi qui). La Chiesa Cattolica non apprezza particolarmente le visioni del mondo gnostiche, ma oggi è tra i pochi in Iraq a levare la sua voce contro il massacro di questa minoranza che si accompagna a quello dei cristiani. 
Ma protestare non basta. Quando il Papa invita la comunità internazionale ad «attivarsi» e «adoperarsi» per proteggere quanti sono minacciati dalla cieca violenza delle milizie fondamentaliste, solleva evidentemente il problema di un intervento armato. Gli iracheni da soli non ce la fanno. Le missioni umanitarie curano i feriti e soprattutto seppelliscono i morti, ma non impediscono nuove stragi. È giusto mandare i caccia a bombardare o le truppe a combattere contrro i terroristi dell’Isl?  I problemi politici sono evidenti: tante vicende elettorali hanno insegnato ai governanti negli Stati Uniti e all'Europa quanto sia impopolare mandare soldati a morire in terre lontane anche per le migliori ragioni umanitarie. 
Dal punto di vista morale, tuttavia, il pacifismo assoluto come maschera di inconfessati interessi elettorali non corrisponde all'insegnamento della Chiesa. Non solo i Papi si sono espressi a favore della cosiddetta «ingerenza umanitaria», ma Papa Francesco, come i suoi predecessori, ci rimanda spesso al Catechismo della Chiesa Cattolica. Al numero 2265, questo insegna che «la legittima difesa, oltre che un diritto, può essere anche un grave dovere, per chi è responsabile della vita di altri. La difesa del bene comune esige che si ponga l'ingiusto aggressore in stato di non nuocere. A questo titolo, i legittimi detentori dell'autorità hanno il diritto di usare anche le armi per respingere gli aggressori della comunità civile affidata alla loro responsabilità». Un diritto che è anche un «grave dovere», su scala nazionale come per la comunità internazionale.
San Giovanni Paolo II ha sviluppato, in occasione delle tragedie della Bosnia e della Somalia, la dottrina del «Catechismo» che impone alla comunità internazionale di non trincerarsi dietro un malinteso pacifismo per rinunciare a una «ingerenza umanitaria» obbligatoria. Il 5 dicembre 1993, parlando alla Fao Papa Wojtyla affermava che «la coscienza dell'umanità, ormai sostenuta dalle disposizioni del diritto internazionale umanitario, chiede che sia reso obbligatorio l'intervento umanitario nelle situazioni che compromettono gravemente la sopravvivenza di interi popoli e gruppi etnici». Il 30 novembre 1993, ricevendo i ministri degli Esteri della Csce, il Pontefice polacco denunciava lo «scandalo del disinteresse di fronte ad eccessi inammissibili», ribadendo il dovere di ingerenza umanitaria quando «i diritti fondamentali di un popolo sono in gioco». Nell'udienza generale del 12 febbraio 1994, san Giovanni Paolo II ribadiva lo stesso principio, invitando a «qualsiasi tipo di azione» - non «solo politica» ma «anche» militare - per «disarmare l'aggressore» quando minaccia di compiere stragi. 
L'8 agosto 1992, con la precisazione che la pubblicazione era stata esplicitamente autorizzata dal Pontefice, «L'Osservatore Romano» riportava questa dichiarazione del cardinale Segretario di Stato, Angelo Sodano: «Con il Papa abbiamo parlato delle preoccupazioni gravi per la Bosnia-Erzegovina. E abbiamo parlato un po' del diritto di ingerenza umanitaria. Direi che gli Stati europei e le Nazioni Unite hanno il dovere e il diritto di ingerenza, per disarmare uno che vuole uccidere. Questo non è favorire la guerra, ma impedire la guerra». Il giorno dopo, di fronte a polemiche di pacifisti, la Sala stampa vaticana ribadiva il pensiero del Papa, secondo cui è un «peccato di omissione» «non fare tutto il possibile - con i mezzi che le Organizzazioni Internazionali sono in grado di mettere a disposizione - per fermare l'aggressione contro popolazioni indifese», e in questi casi non intervenendo adeguatamente si diventa «complici del male».
Oggi, dopo la canonizzazione di Giovanni Paolo II, questo magistero acquista ancora maggiore autorevolezza. Dobbiamo davvero essere tutti attenti a non diventare «complici del male» per via di omissione e di inazione. Contro i carnefici, lo insegnano non solo i Pontefici ma la storia, le belle parole non bastano.

*
La Chiesa e la guerra
di F. Agnoli

guerra
La Chiesa e la guerra. E’ un tema interessante, ed anche difficile. Fin dalle origini. Nei primi secoli, infatti, i cristiani si trovarono spesso a professare il Dio dell’amore e a dover fare i conti con la realtà della guerra. Abbiamo così cristiani che obiettano, come il centurione Marcello: “Sono soldato di Cristo. D’ora in poi non servirò più i vostri imperatori, perché non voglio più adorare i vostri dei di legno e di pietra, idoli sordi e muti”. I vescovi Martino e Vittore, in Gallia, sono ex militari che gettano la spada per consacrarsi al sacerdozio. Il servizio militare viene spesso criticato. Da alcuni in toto, dai più per le modalità. Nell’impero infatti, spesso i militari sono anche polizia, spie, carcerieri, vessatori, e molti di loro hanno ruoli nell’uccisione di svariati cristiani o nelle soperchierie ai danni dei contadini.
Ma vi sono anche soldati che vengono venerati come santi, e soldati cui sant’Agostino in persona dice: “Non devi credere che uno non possa piacere a Dio nell’esercito: David era un soldato”. Agostino è tra quelli che dimostrano la legittimità e la bontà del soldato, quando egli difende con onore e coraggio la patria aggredita, i villaggi, le case, i suoi cari… Non quando attacca e devasta: incontro ad Attila, per fermarlo, in Francia, si muovono la santa vergine Genevieve e san Lupo vescovo di Troyes; a Roma è il papa Leone I a farsi incontro al devastatore, per fermarlo (qualcosa di analogo succederà ai tempi della II guerra mondiale, con vescovi  come Santin e Siri, in Italia, chiamati a fare da mediatori e ad impedire carneficine e vendette).  
Di qui la storia di un lavoro continuo sull’idea della vita militare, che attraversa l’epoca della barbarie e arriva alla cavalleria. Siamo in epoca medievale e la Chiesa trasforma l’avventuriero, che approfitta della sua spada e del suo cavallo, in “cavaliere”: scomunicando chi compie violenze gratuite; spingendo il soldato a divenire il protettore degli orfani e delle vedove e a costruire la sua personalità spirituale, prima della forza fisica; proponendo un codice di onore e di comportamento  che avrà i suoi seguaci, se è vero come è vero che “cavaliere” diventa sinonimo di uomo forte, generoso, di buone maniere. Bisognerebbe rileggersi le promesse dei cavalieri intorno all’anno Mille, per comprendere quanto sia stato fatto in questa direzione da tanti vescovi e sacerdoti. Siamo negli anni in cui, dopo la caduta di Roma, dopo le invasioni barbariche, si arriva ad un po’ di pace. Quella pace che permetterà la cosiddetta Rinascita dell’anno Mille. 
Per designare l’operato pacificatore si parla di “pace di Dio” e di “tregua di Dio”. La prima sottrae alcune persone e alcuni luoghi alla violenza guerresca; la seconda proibisce di combattere in determinati periodi (secondo il Concilio di Arles, 1037-1041, la proibizione di combattere va dalla sera del mercoledì alla mattina del lunedì). Il movimento della pace di Dio ha inizio nel 987 su iniziativa del vescovo di Le Puy, che raduna i suoi cavalieri e impone loro un giuramento di pace. Due anni dopo, nel 989, esso è già notevolmente cresciuto: in occasione del Concilio di Chartroux non un vescovo isolato, ma tutti i vescovi della provincia ecclesiastica di Bordeaux e il vescovo di Limoges pronunciano l’anatema contro chiunque abbia rubato i beni a un contadino o usato violenza a un religioso disarmato.
Anche la teologia si muove: la guerra, per essere “giusta”, lecita, deve avere una iusta causa, un iustus modus (proporzionalità), recta intentio…. L’uomo è segnato dal peccato originale, non è possibile cancellare il male e il conflitto dalla terra, ma bisogna rendere tutto, anche lo scontro inevitabile (ad esempio in una guerra di difesa), il più giusto possibile. Sono idee presenti ancora oggi (la “legittima difesa” altro non è che una guerra di difesa, con iusta causa, in cui si chiede di non rispondere con il mitra a chi ci minaccia con una matita).
In quest’ottica la Chiesa appoggia anche la I Crociata, vista appunto come guerra di difesa e di liberazione: i crociati infatti partono, la prima volta, dopo che l’Islam ha attaccato la Cristianità, e non viceversa, per ben 4 secoli; dopo che i musulmani hanno preso Gerusalemme, città cristiana ed ebraica e mentre stanno attaccando ancora una volta l’impero cristiano di Bisanzio, per abbatterlo. Ciò non toglie che la guerra, anche legittima, sia la guerra e che le crudeltà inutili, l’odio, ne facciano, purtroppo, parte.…
Se arriviamo al Novecento, il secolo più violento della storia, la posizione della Chiesa è piuttosto univoca. E’ risaputa l’ostilità della Chiesa alla I guerra mondiale, e il tentativo di tenere fuori almeno l’Italia; Benedetto XV, il 1 agosto 1917 parla di “inutile strage”; Pio XII (radiomessaggio 24 agosto 1939) è assai chiaro: “Nulla è perduto con la pace. Tutto può esserlo con la guerra”. Impotente di fronte al grande scontro scatenato dall’alleanza tra il materialismo comunista e quello nazista (patto Von Ribbentrop-Molotov, 1939), Pio XII si adopererà in ogni modo per aiutare le popolazioni colpite dal conflitto portando il Vaticano quasi alla bancarotta.
All’epoca della I guerra del Golfo Giovanni Paolo II si schiera in maniera risoluta e quantomai decisa contro l’intervento armato. Anche riguardo alla possibile guerra in Siria di questi tempi (la seconda del premio Nobel per la pace Obama, dopo la perniciosa guerra libica?), mentre i governi occidentali sembrano spesso giocare alla guerra per distrarre dai problemi interni, la posizione della stragrande parte parte delle autorità ecclesiastiche, anche locali, è di contrarietà: sia perché ormai la questione delle armi chimiche sembra sempre più spesso una scusa, un casus belli cercato ad arte, sia perché gli interventi “umanitari” degli ultimi decenni si sono rivelati ben poco umanitari: poco studiati, poco preparati, condotti senza una finalità di aiuto precisa e chiara. Si dichiara guerra (dopo aver presentato il nemico di turno come un nuovo Hitler), si bombarda un po’ a casaccio, (vedi i droni) e poi si lascia il paese al suo destino. Non manca solo, a giudizio della Chiesa, la iusta causa, ma difettano anche iustus modus e recta intentio.
L’ordine, 8 settembre 2013