martedì 19 agosto 2014

L'ultimo confine di Francesco



Nuovo tweet del Papa: "Grazie, amici coreani! Con l’aiuto di Dio, tornerò molto presto in Asia! #Philippines #SriLanka" (19 agosto 2014)

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P. Lombardi: il Papa tocca i cuori perché porta un Vangelo vivo


Il commento che segue è di padre Federico Lombardi, direttore della Sala Stampa Vaticana.
R. – Il tema della divisione fra le due parti della Corea e, più ampiamente, il tema della riconciliazione e della pace, è stato una costante di questo viaggio. Lo si è sentito molto intensamente già a partire dal primo giorno, dal discorso della presidente della Corea, del presidente dei vescovi della Corea al Papa, e poi ha accompagnato tutte le diverse dimensioni, in particolare anche questa dell’incontro con i giovani. Direi che questo fatto e la risposta data dal Papa alla giovane coreana – come anche l’omelia finale, che è stata tutta dedicata a questo tema, nella cattedrale di Seoul – ci fanno capire come l’approccio del Papa sia stato chiaramente evangelico, chiaramente cristiano, nel senso del favorire, instillare gli atteggiamenti profondi che sono la premessa della riconciliazione e della pace. Il Papa sa benissimo di non essere un politico e un’autorità con dei poteri politico-militari per realizzare la pace nel mondo, ma di essere un leader morale e religioso e quindi di agire su un piano, che però è molto più profondo e lungimirante, che poi è quello della conversione dei cuori e del dialogo fatto in profondità fra le persone nella loro completezza e, quindi, di un dialogo che suppone una conversione e un atteggiamento reciproco di ascolto. Questo, direi, che sia il messaggio che il Papa ci ha lasciato a proposito di pace e riconciliazione nella Corea. Qualcuno ne è stato forse anche un po’ deluso: avrebbe voluto dei messaggi più forti di condanna del regime della Nord Corea o delle persecuzioni che hanno subito i cristiani e le religioni nel Nord Corea, ma questo non era il compito del Papa in questo viaggio. Egli prende atto di una situazione che esiste purtroppo, ormai, da 66 anni e cerca di mettere le premesse perché questa cambi e cambi in profondità e per un tempo continuo, a partire quindi dalla riconciliazione che nasce dai cuori. Il discorso fatto dal Papa è stato fatto con consapevolezza, con grande profondità e credo che i coreani lo abbiano capito molto bene. Ho sentito tante espressioni, anche di gratitudine, per l’omelia della Messa finale.
D. – Parlando del viaggio nel suo insieme, prenderei spunto da una considerazione fatta a caldo alla Radio Vaticana dal presidente dei vescovi coreani, che ha detto: “Francesco ci ha consolati e ci ha fatto sorridere”. Potremmo dire, con una parola, che il Papa ha dato una dimostrazione di “empati”a verso il popolo coreano, nel modo in cui egli stesso ne ha parlato con i vescovi?
R. – Certamente. In quel discorso, è stato espresso molto bene l’atteggiamento che il Papa si aspetta che la Chiesa abbia per incontrare gli altri popoli, per incontrare le persone che hanno un atteggiamento diverso, una fede diversa dalla nostra e con cui però noi dobbiamo entrare in dialogo. Direi sia stato un modo diverso, specifico per l’Asia di parlare di quello stesso concetto, che egli normalmente esprime come “cultura dell’incontro”, cioè far sì che le persone possano entrare in rapporto fra loro completamente, a livello più profondo, coinvolgendo tutte se stesse, non solo a livello di parole e di ragionamenti, che sono estremamente importanti – sono anche una parte del dialogo naturalmente – ma non sono tutto e non sono neanche la base più profonda. Direi che il Papa abbia dimostrato di essere un uomo che si muove sempre per incontrare l’altro, vedendolo nella luce della fede, e nella luce della fede cristiana come immagine di Dio, come figlio di un unico Padre. E per il popolo coreano ha avuto questo stesso atteggiamento di amore profondo, che ha dimostrato anche, in modo estremamente efficace, nei confronti dei gruppi di persone sofferenti che ha incontrato. Questo ha toccato molto i coreani, che sono sensibili al contributo specifico che la Chiesa cattolica ha portato, fin dalle sue origini, di attenzione a chi è più debole, nell’ambito della società. Ecco, il Papa con i suoi gesti è riuscito a far capire che, alla luce della fede cristiana tutti, tutti i membri del popolo coreano, qualunque sia la loro situazione, il loro sentimento, sono per lui persone da abbracciare, da amare, da incontrare.
D. – E a proposito di gesti, uno degli incontri in Corea ha visto Papa Francesco quasi muto, ma il suo atteggiamento invece ha commosso – lei lo ricordava – tutti i coreani. Parlo della sua visita al Centro di assistenza per disabili di Kottongnae. Che impressione le ha lasciato quel momento?
R. – Credo sia effettivamente una delle immagini che rimarrà più profondamente scolpita nella memoria dei coreani e di tutti coloro che hanno seguito questo viaggio. Qualcuno – non mi ricordo esattamente chi – mi ha ricordato, a questo proposito, le parole di San Francesco, che dice: il Vangelo va annunciato sempre, con tutta la nostra vita, “se necessario anche con le parole”. Ma questo suppone che, effettivamente, il Vangelo si annunci prima che con le parole, con la vita e quindi anche con gli atti concreti. E Papa Francesco raccoglie in modo eccezionalmente vivo questa raccomandazione. Ed è per questo che, giustamente, non doveva fare grandi discorsi. Se le persone cui si rivolgeva erano piccoli bambini disabili, non aveva senso fare loro grandi discorsi, anche bellissimi, perché non erano in grado di recepirli. Mentre l’abbraccio, la carezza, la manifestazione dell’amore anche fisico, diciamo pure, ma certamente concreto è qualcosa che tutti possono percepire, è un linguaggio assolutamente universale. Questo è da apprezzare e da ringraziare il Cielo: c’è, cioè, un linguaggio universale che tutti capiscono, anche se ci sono delle lingue diverse con cui a volte abbiamo difficoltà di comunicazione ed è quello dell’amore, dell’amore concreto. Tutti i Santi l’hanno capito. Ricordavamo prima Francesco, ma anche Madre Teresa: perché Madre Teresa, che poi ha lavorato in Asia, è riuscita a far passare il suo messaggio? Perché ha incarnato il messaggio dell’amore cristiano. Papa Francesco riesce a farlo – è anche un suo dono – con grande semplicità e naturalezza. Quei piccoli disabili, che poi sono persone abbandonate, che erano state abbandonate, sono quindi veramente coloro che sono stati più bisognosi di amore e che hanno potuto ritrovare una vita fisica e, a loro misura, un senso della vita, grazie all’amore, a un amore motivato cristianamente, almeno nel loro caso concreto. E questo è uno dei modi più efficaci con cui la Chiesa testimonia Gesù Cristo nella sostanza, nell’amore.
D. – I coreani, fieri di ricordare spesso che la nascita della loro Chiesa è dovuta all’impegno dei laici; la ragazza cambogiana che chiede al Papa che si possano conoscere i martiri che si sono sacrificati per il Vangelo nel suo Paese… L’impressione in Occidente, dove le Chiese asiatiche sono poco conosciute, è che siano invece molto più volitive e radicate di quello che le loro dimensioni possano suggerire. Qual è la sua opinione?
R. – Effettivamente, noi abbiamo molto da imparare dalle Chiese dell’Asia. Credo che uno dei grandi valori di questo viaggio sia stato, a livello di Chiesa universale e quindi un po’ per tutti noi, quello di imparare a guardare e a capire questo messaggio così prezioso che ci viene dalle Chiese dell’Asia, dalla loro storia e dalla loro testimonianza di fede. I viaggi del Papa hanno anche questo grande valore per tutti i fedeli del mondo. In particolare, questa Chiesa coreana ha questi due aspetti che nei giorni passati sono stati ricordati numerosissime volte: di essere stata originata da laici del posto, quindi non da missionari stranieri, e quello di avere una grande storia di martirio. Quindi, questa fede nata così, dall’ascolto della Parola di Dio, è stata così forte da poter superare le persecuzioni più orribili, nel corso di decine e decine di anni, di più di un secolo. Questo fa una grande impressione a chi invece vive la fede magari in situazioni più facili, non così provate. Le Chiese dell’Asia, nella massima parte, a parte le Filippine, sono Chiese cattoliche di minoranza nel loro Paese. Anche la fede cristiana è in minoranza. La minoranza ha sempre questo carattere di una profondità di convinzione, di una prova della convinzione personale, che viene vagliata con più profondità, con più serietà e difficoltà che quando ci si trova portati dalla condizione di maggioranza. Ma oltre a questo aspetto della minoranza, io vorrei cogliere proprio questo aspetto invece della inculturazione, che mi sembra molto significativo ed è testimoniato dalla Chiesa coreana in modo unico, proprio perché abbiamo la ricezione del Vangelo e dei suoi valori e della sua novità e del suo parlare a ogni persona non da messaggeri che vengono dall’esterno a portarti un messaggio, che è stato originato altrove, ma che nasce dalla riflessione profonda, personale, di laici coreani che hanno scoperto, loro, per la loro passione di ricerca della verità, il valore del messaggio evangelico. Allora, questo è l’argomento a mio avviso più forte per poter dire che il linguaggio evangelico entra nei diversi popoli e nelle diverse culture come qualcosa che può parlargli dal di dentro, che non viene “appiccicato” dal di fuori, che non è superficialmente aggiunto, ma entra in una sintesi vitale con l’anima, la sensibilità e la cultura dei popoli. Ecco, questo è un aspetto importantissimo, per quanto riguarda l’evangelizzazione dell’Asia e ci dà anche dei criteri per capire, come dice il Papa, che la grande evangelizzazione che noi desideriamo per questo immenso continente, nasce da un’empatia, cioè nasce da una conoscenza del Vangelo che non è aggiunta, che non è estranea, ma che si fonde profondamente con l’anima di chi lo riceve, giungendo nel più profondo. E questo dice anche la nostra convinzione che è il Signore che lavora e che dà la grazia e che può darla nel più profondo del cuore, dove solo Lui riesce ad arrivare e dove invece le parole degli uomini non riescono a penetrare: un lavoro, quindi, di Dio, un lavoro della grazia, un lavoro nei più profondi strati dell’anima umana. Il fatto della nascita della Chiesa coreana, come essa è avvenuta, mi sembra che lo testimoni e ci dia quindi anche una guida e un orientamento su come continuare a lavorare e a pregare per l’evangelizzazione nell’Asia.
D. – Durante il viaggio in Corea potremmo dire, come testimoniano peraltro i tanti tweet, che Papa Francesco non ha mai dimenticato la tragedia che sta vivendo l’Iraq...
R. – Certamente. E questo l’ha testimoniato in particolare con un gesto molto semplice, ma assolutamente suo e spontaneo, cioè quando ha aggiunto, al termine della preghiera dei fedeli, durante la Messa conclusiva, una preghiera per la missione del cardinale Filoni in Iraq, per la situazione in Iraq. Ho saputo che quando i nostri colleghi della Radio l’hanno detto al cardinale Filoni in un’intervista, lui non lo sapeva ancora e ne è stato molto felicemente colpito. Questo dice la sintonia profondissima con cui il Papa si muove con tutte le dimensioni della Chiesa, in particolare con quelle della sofferenza e delle difficoltà. Del resto, appunto in Corea la presenza del tema “persecuzione”, “sofferenza”, “difficoltà della Chiesa”, sia nella storia sia oggi, è stato estremamente presente. E l’Iraq è un luogo dove lo si vive oggi in modo drammatico, anche se non è l’unico. Certamente è però un luogo su cui la nostra attenzione è concentrata e quindi il Papa certamente non l’ha mai dimenticato e l’ha tenuto sempre presente: si è informato giorno per giorno sulla missione del cardinale Filoni e continua a cercare le vie. Nella conversazione finale in aereo, ha addirittura detto di avere preso in considerazione la possibilità di un passaggio, suo, personale, nel Kurdistan, che poi non si è finora verificato ma comunque dice di un atteggiamento di presenza, non solo teorica, non solo lontana con il pensiero, ma veramente con tutto il suo cuore.
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(Enzo Bianchi)  Volendo riassumere con un’immagine il viaggio di papa Francesco in Corea, il pensiero va a un cuore pulsante che irrora di energie vitali il corpo fino alle sue estremità. Abbiamo avuto ancora una volta una chiara testimonianza. La testimonianza di come il Papa quando parla di “periferie” non usi una semplice metafora che tanti suoi pseudo-imitatori ora applicano a qualsiasi circostanza, ma riaffermi un aspetto centrale del suo ministero pastorale e delle modalità con cui intende esercitarlo. Innanzitutto il riproporre a distanza di molti anni la scelta dell’estremo oriente come meta di un viaggio pastorale del vescovo di Roma lo ha condotto in prossimità di due “confini” apparentemente invalicabili, almeno nell’immediato: la Corea del Nord e la Cina. A questi due paesi così diversi per dimensioni, per storia anche recente, per posizione occupata nel consesso delle nazioni, il Papa venuto «quasi dalla fine del mondo» si è rivolto in modo indiretto ma pregnante, da un lato ricordando l’unità della famiglia coreana e invocando riconciliazione e perdono, d’altro canto mettendo in bocca all’interlocutore le frasi che il suo atteggiamento vorrebbe suscitare: «questi cristiani non vengono come conquistatori, non vengono a toglierci la nostra identità: ci portano la loro, ma vogliono camminare con noi». Ma l’aspetto centrale del viaggio e dei numerosi discorsi pronunciati è una catechesi alla chiesa nel suo insieme: non solo alla chiesa coreana o ai vescovi asiatici, ma all’intero corpo ecclesiale, locale e universale, composto di laici e pastori, di giovani e di religiosi e religiose, una chiesa fondata e formata anche dai martiri di ogni stagione che hanno saputo e sanno donare la loro vita perché il seme del Vangelo germinasse nella compagnia degli uomini e delle donne del loro tempo. Anche per questo — e non per una brama di rincorrere l’attualità — non sono mancati i costanti riferimenti e le preghiere per la situazione dei cristiani in Iraq, in Siria e in Medioriente; per questo la canonizzazione dei martiri coreani ha proposto al culto e alla venerazione di tutta la chiesa — questo significa la proclamazione di un santo — dei testimoni di una vita evangelica radicalmente vissuta. Così sbaglieremmo a pensare come rivolti alla sola chiesa di Corea gli appelli di papa Francesco per la povertà da vivere come stile del cristiano nel mondo, l’invito a replicare nella semplicità della vita e delle opere la semplicità fondante il cristianesimo: la parola di Cristo resa accessibile ai semplici e agli umili, ai poveri, in spirito e in beni materiali. Quale cristiano, specie nei nostri paesi dell’occidente industrializzato, non si sente chiamato in causa da un richiamo come quello indirizzato ai religiosi e alle religiose della Corea? «L’ipocrisia di quanti professano il voto di povertà e tuttavia vivono da ricchi, ferisce le anime dei fedeli e danneggia la chiesa. Pensate anche a quanto è pericolosa la tentazione di adottare una mentalità puramente funzionale e mondana, che induce a riporre la nostra speranza soltanto nei mezzi umani, distrugge la testimonianza della povertà che il Signore Gesù Cristo ha vissuto e ci ha insegnato». Sono forse esenti la nostra stessa chiesa italiana o le chiese europee dal vigilare contro il pericolo «che la comunità cristiana diventi una società, cioè perda la sua dimensione spirituale, che perda la capacità di celebrare il mistero e si trasformi in un’organizzazione spirituale, cristiana culturalmente, con valori cristiani, ma senza il lievito profetico»? E quale vescovo o quale chiesa locale può sottrarsi al pressante invito al dialogo rivolto ai vescovi dell’Asia? Un’esortazione che radica il dialogo nella custodia della propria identità di cristiani, un’identità che non è data da culture o tradizioni proprie di un luogo o di un tempo bensì dalla “fede viva in Cristo”; un’identità che non si smarrisce ma, al contrario diviene “feconda” nel confronto con l’altro, nel dialogo condotto con “empatia”, con il desiderio di “camminare insieme”, perché “questo è il nocciolo del dialogo”. Ritorna e si dilata quell’invito scandito con forza dalla loggia di San Pietro la sera dell’elezione di papa Francesco: «Camminiamo insieme, vescovo e popolo, vescovo e popolo! ». Dalla Corea anche “l’altro” viene associato al cammino comune del vescovo di Roma e del popolo cristiano di cui è pastore: nei percorsi di umanizzazione la lunga e sovente contraddetta strada verso la pace e la giustizia va compiuta insieme, convertendosi da un passato di guerra e di divisione, chiedendo perdono, ricercando solidarietà, ravvivando la memoria del passato per ricominciare in una dimensione rinnovata. E il passato doloroso lo si riscatta non rimuovendolo, ma rivisitandolo nella richiesta di perdono e nella compassione. Così, se a Caserta papa Francesco aveva chiesto perdono ai pentecostali italiani per il silenzio della chiesa di fronte alle inique disposizioni discriminatorie dello stato fascista — vicenda che molti avrebbero considerato marginale, trascurabile — a Seoul il Papa ha voluto abbracciare e mostrare tutta la sua solidarietà verso uno sparuto gruppo di donne novantenni, doppiamente vittime della guerra, violentate nei loro affetti dagli ordigni di morte e nel loro corpo dai militari dell’esercito nemico. Nessun essere umano è “effetto collaterale” di sciagure più grandi: ciascuno ha un valore inestimabile non solo agli occhi di Dio, ma anche per il cuore misericordioso di ogni discepolo di Cristo. Sì, papa Francesco ha mostrato di essere al cuore della chiesa non tanto perché è a capo del centro nevralgico e di potere del mondo cattolico, ma perché il suo cuore di uomo, di cristiano e di vescovo pulsa per diffondere la vita ricca di senso e di speranza che sgorga dal Vangelo di Gesù Cristo.
Repubblica

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Il Papa: «Se necessario sono pronto ad andare in Iraq» 
“Corriere della Sera”
(Gian Guido Vecchi) «Qualcuno mi ha detto: padre, siamo nella Terza guerra mondiale, ma fatta a pezzi, a capitoli». Il volo B777 è decollato a Seul da una mezz’ora e sta per sorvolare la Cina — «Se ci andrei? Ma sicuro, domani!» — quando Francesco raggiunge i settanta giornalisti che lo seguono da tutto il mondo. Si mostra sorridente e in forma, a dispetto dei cinque giorni di viaggio in Corea del Sud, sulla veste il fiocco giallo che ricorda il naufragio del traghetto Sewol, simbolo dei genitori che chiedono giustizia per i ragazzi morti: «Mi suggerivano: meglio toglierlo, ma con il dolore umano non si può essere neutrali».