martedì 5 agosto 2014

Paolo VI nel ricordo del segretario di Roncalli




(Giovanni Maria Vian) Era passato poco più di un anno dal conclave da cui il 21 giugno 1963 era uscito con il nome di Paolo VI quando Montini concluse la sua prima enciclica, programmatica del pontificato, alla quale si era messo a lavorare subito dopo l’elezione. L’intento era infatti di pubblicarla prima della riapertura del concilio, interrotto, secondo il diritto, alla morte del predecessore e che il nuovo Papa aveva deciso di riprendere, con una delle sue primissime decisioni, già il 29 settembre successivo.
Il tempo non fu sufficiente. Ma basta un rapido confronto tra il lungo discorso tenuto quel giorno da Paolo VI davanti ai padri conciliari e l’Ecclesiam suam, pubblicata quasi un anno dopo, il 10 agosto 1964, per rendersi conto che l’enciclica fu a grandi linee anticipata in quell’intervento. Il discorso disegnava con lucida energia il percorso del Vaticano II, e non a caso al testo del 29 settembre il nuovo Papa si riferì nelle prime righe del suo documento programmatico.
Oltre un gruppo di appunti preparatori, dell’enciclica si conserva (ed è stato riprodotto in facsimile nel 1998) il testo autografo, scritto per intero da Paolo VI. Sono ottanta fogli, a lungo meditati e poi stesi nei primi mesi del 1964, dopo il viaggio a sorpresa in Terra santa, realizzato per «assumere l’insegnamento dell’autenticità cristiana» e di cui nel testo ricorda «l’incontro pieno di carità e non meno di nuova speranza» con il patriarca Atenagora a Gerusalemme.
L’enciclica manifesta il pensiero del Papa e lo presenta secondo una doppia tripartizione. Nella visione montiniana la Chiesa deve infatti approfondire la coscienza di se stessa, impegnarsi nel rinnovamento, aprirsi al «dialogo». Tema di quasi metà del testo, il dialogo si estende a tre grandi cerchi concentrici attorno a sé: il primo, immenso, costituito dall’umanità in quanto tale, il secondo, vasto ma meno lontano, dai credenti non cristiani, il terzo, più vicino, dai non cattolici.
A mezzo secolo di distanza, al di là di persistenti ideologizzazioni e resistenze, sono in gran parte stemperati i contrasti sul Vaticano II. E se i dibattiti del concilio inevitabilmente hanno oscurato la meditazione appassionata di Montini, sempre più netto vi appare il suo ruolo, rispettoso ma decisivo. Di fronte alla «sbalorditiva novità del tempo moderno», scrive il Papa, «la Chiesa con candida fiducia si affaccia sulle vie della storia, e dice agli uomini: io ho ciò che voi cercate».
Leggere cinquant’anni dopo l’Ecclesiam suam e la scrittura nitida di Paolo VI fa capire che è più di un’enciclica, molto più che un documento programmatico. Lo conferma un altro appunto autografo di poco successivo: «Forse la nostra vita — vi annota il Papa — non ha altra più chiara nota che la definizione dell’amore al nostro tempo, al nostro mondo, a quante anime abbiamo potuto avvicinare e avvicineremo: ma nella lealtà e nella convinzione che Cristo è necessario e vero».
Meditazione coerente nata da un’intera vita, il testo montiniano fu concluso l’11 luglio 1964. «La data ufficiale — annotò alla fine del manoscritto Paolo VI — potrebbe essere: Dal Vaticano, 6 agosto 1964 nella festa della Trasfigurazione di Nostro Signore Gesù Cristo». Quattordici anni più tardi, nel 1978, la sera di quel giorno il Papa quietamente si spegneva, dopo essersi congedato con un cenno della mano, pregando fino all’ultimo con le parole del Pater noster.





Così noi vediamo lui.

(Loris Francesco Capovilla) Paolo VI: con il trascorrere degli anni dal suo approdo alla visione beatifica, persistono e aumentano nei vescovi, sacerdoti, laici e in una schiera cospicua di donne e uomini di buon volere, la stima, l’amore e la venerazione nei confronti di questo Papa. A me riesce spontaneo esaltarne le virtù, i meriti e i fasti dacché celebro ogni anno il dies natalis dei Papi del Novecento: Leone XIII (20 luglio), Pio X (20 agosto), Benedetto XV (22 gennaio), Pio XI (10 febbraio), Pio XII (9 ottobre), Giovanni XXIII (3 giugno), Paolo VI (6 agosto), Giovanni Paolo I (28 settembre), Giovanni Paolo II (2 aprile).
È il mio modo di professare, sull’altare della Confessione di Pietro, la mia fede con la formula suggeritami da Papa Giovanni (Il Giornale dell’anima, 1078): «Mi è esultanza del cuore rinnovare integra e fervida la mia professione di fede cattolica, apostolica e romana. Tra le varie forme e simboli con cui la fede suol esprimersi preferisco il Credo della messa sacerdotale e pontificale, dalla elevazione più vasta e canora, come in unione con la Chiesa universale di ogni rito, di ogni secolo, di ogni regione: dal Credo in unum Deum patrem omnipotentem all’Et vitam venturi saeculi». La Chiesa custodisce e adorna le tombe dei successori di Pietro; e nei tempi ritenuti più opportuni ne iscrive l’uno o l’altro nell’albo dei santi.Il servo di Dio Paolo VI ha percorso il suo iter in modo soddisfacente? Con cuore trepido e preghiera semplice lo ritengo segno emblematico della comunione tra noi e dell’accoglienza fatta agli inviati celesti, e mi appello a Giovanni Paolo II che, alla beatificazione di Giovanni XXIII, esaltò il concilio Vaticano II, «ispirazione divina», assecondata da Papa Roncalli, il quale, con esso «aprì una nuova pagina nella storia della Chiesa, e i cristiani si sentirono chiamati ad annunciare il vangelo con rinnovato coraggio».
Sì, Giovanni annunciò, preparò, indisse e avviò l’assise ecumenica, aprendo così una nuova pagina; ma a proseguire l’ardua missione e a condurla a felice esito, sostenuto da forza sovrumana di fede e di amore, è stato Paolo. Di lui ci chiedevamo: oltre che pio, saggio, prudente e geniale è stato santo? Ha egli esercitato eroicamente le virtù teologali e cardinali? La mia risposta, per quel che vale, l’ho data alla suprema autorità e non aggiungo altro. Frattanto rileggo e propongo all’attenzione dei miei fratelli e sorelle tre pensieri che sono patrimonio della nostra cultura.
Anzitutto illumina un brano del ventottenne Angelo Roncalli incastonato nel discorso commemorativo del cardinale Cesare Baronio nel terzo centenario della morte, pubblicato in seconda edizione nel 1961 (p. 34): «Che cosa è il santo? Recenti contraffazioni hanno tentato di sfigurare il concetto del santo fra di noi; l’hanno inviluppato e colorito con certe tinte vivaci, che forse in un romanzo si potranno tollerare, ma che nella vita pratica, nel mondo reale sono delle stonature. Sapersi annientare costantemente, distruggendo dentro e intorno a sé ciò in cui altri cercherebbero argomento di lode innanzi al mondo; mantener viva nel proprio petto la fiamma di un amore purissimo verso Dio, al di sopra dei languidi amori della terra; dare tutto, sacrificarsi per il bene dei propri fratelli, e nell’umiliazione, nella carità di Dio e del prossimo seguire fedelmente le vie segnate dalla Provvidenza, la quale conduce le anime elette al compimento della propria missione, ognuna di queste ha la sua, e tutta la santità sta qui».
A questo, segue uno squarcio ascetico di Antonio Rosmini, dal suo epistolario (6 settembre 1840), fatto proprio da Papa Giovanni durante il ritiro spirituale in preparazione all’ottantesimo compleanno: «Ritenete il gran pensiero che la santità consiste nel gusto di essere contraddetto ed umiliato a torto o a ragione; nel gusto di obbedire; nel gusto di aspettare con grande pace; nell’essere indifferente a tutto ciò che piace ai superiori e veramente senza volontà; nel riconoscere i benefici che si ricevono e la propria indignità; nell’avere una gratitudine grande, nel rispetto alle altrui persone e specialmente ai ministri di Dio; nella carità sincera, tranquilla, rassegnazione, dolcezza, desiderio di far bene a tutti e laboriosità».
Papa Giovanni asseriva con candore: «Non ho mai avuto né subito tentazioni contro l’obbedienza e ringrazio il Signore che non ne abbia permesso alcuna, neppure quando mi costava assai». Imbattutosi in questo «essere contraddetto ed umiliato», e assaporatolo — si avverta che è un Papa a scrivere (Il Giornale dell’anima, 943) — annota felicemente: «Con mia edificazione queste sono le applicazioni ordinarie del mio motto caratteristico preso dal Baronio: Oboedientia et pax. O Gesù, voi restate sempre con me! Io vi ringrazio di questa dottrina che mi segue dappertutto».
Ed è ancora Roncalli che sull’ultima pagina di Note sparse 1959-1961 riscrive diligentemente e segnala il nitido criterio per giudicare con avveduta prudenza la condotta di un candidato all’aureola: «Circa l’eroicità delle virtù. Secondo la dottrina di san Tommaso è eroico perseverare sino alla morte nell’esercizio delle virtù comuni. Nella causa di beatificazione di mons. Antonio M. Giannelli vescovo di Bobbio è detto (AAS. 30. IV. 1920, pp. 170-174) che l’eroicità consiste essenzialmente nel fedele, ininterrotto, costante adempimento dei doveri e degli obblighi inerenti alla propria condizione sociale».
Nei tre sprazzi citati, che mettono in guardia da infondati entusiasmi e da rigidezze illogiche, scorgiamo la figura paterna e maestosa, soave e severa di Papa Paolo all’incontro con noi, anche lui, «le braccia spalancate in un abbraccio al mondo intero» (Giovanni Paolo II). Siamo grati ad Albino Luciani che, il 26 agosto 1978, assecondando l’ispirazione di coniugare nella sua persona i due pontificati precedenti, volle chiamarsi Giovanni Paolo, nome assunto poi dal Papa venuto da Cracovia, fatto risonare nella Chiesa per altri ventisette anni.
Angelo Giuseppe di Sotto il Monte e Giovanni Battista di Concesio, educati secondo i rigidi canoni della riforma tridentina, nutriti dalla solida pietas lombardo-veneta coltivarono stretti rapporti di collaborazione nel servizio della Santa Sede, con qualche cosa in più, come profeticamente attestò Roncalli nella lettera a Montini, indirizzatagli il giorno della sua ordinazione episcopale, il 12 dicembre 1954: «Compiremo insieme il sacramentum voluntatis Christi di san Paolo (Efesini, 1, 9-10). Esso impone l’adorazione della croce, ma ci riserba, accanto ad essa, una sorgente di ineffabili consolazioni anche per quaggiù, finché ci durerà la vita e il mandato pastorale. Cara e venerata Eccellenza, non so dire di più. Ma ciò che manca ad un più diffuso eloquio, ella me lo legga nel cuore».
L’elezione di Roncalli al papato ha avuto interpretazioni varie e attendibili, non sempre ineccepibili. Indubbiamente chi crede nell’assistenza dello Spirito Santo di nulla si meraviglia, men che meno dell’età del chiamato, e talora se ne allieta; ma persino chi oscilla, influenzato da visione riduttiva della divina realtà della Chiesa, è convinto che quell’elezione ha onorato l’uomo biblico, «semplice retto timorato di Dio e alieno dal male» (Giobbe, 1, 1), l’avvedutezza ecclesiastica e la coraggiosa apertura verso «cieli nuovi e una terra nuova nei quali soggiorni la giustizia» (1 Pietro, 3, 13).
Giovanni Battista Montini comprese tutto questo e altro ancora sin dal 28 ottobre 1958, all’annuncio dell’Habemus papam. Lo attestano i suoi ultimi scritti cardinalizi, raccolti nel prezioso volume Giovanni XXIII nella mente e nel cuore del suo successore (Milano 1964). La dedica, sulla copia a me riservata, consente di immaginare affetti profondi e auspici lietissimi: «A monsignor Loris Capovilla il suo al nostro ricordo associando di Papa Giovanni XXIII, e la benedizione nostra a quella del compianto e venerato Pontefice nel primo anniversario del pio decesso. Paulus PP VI, 3 giugno 1964».
Rammento i singoli momenti dei giorni estremi di Papa Roncalli. Il cardinale Montini, tramite l’arcivescovo Angelo Dell’Acqua, sostituto della Segreteria di Stato, si teneva informato della situazione e il Papa, saputolo, gradiva questa presenza e ricambiava con espressioni che lasciavano indovinare i giorni futuri e rammentavano il delizioso colloquio di lui, patriarca di Venezia, con Giovanni e Candida Roncalli, di Milano: «Vedete cos’è accaduto al vostro cugino: vescovo, rappresentante papale in Medio Oriente, nunzio a Parigi, patriarca dei Veneti. Adesso non gli mancherebbe che il papato, ma questo evento è irrealizzabile, perché il prossimo Papa sarà il vostro arcivescovo Montini».
All’inatteso aggravarsi del morbo che aveva assalito Giovanni XXIII, sul conchiudersi della prima sessione conciliare, il cardinale Montini, sul punto di rientrare in sede, il 5 dicembre 1962 mi scrisse: «Monsignore veneratissimo. A Milano mi chiama Sant’Ambrogio, e la presenza del Presidente della Repubblica mi obbliga a partire. Ma con quale animo ella può immaginare! Questa mattina ero in Piazza San Pietro: avrei pianto di consolazione e di speranza. Lascio anche per lei, monsignore, i miei voti più sinceri, avvalorati da fervida preghiera per quanto insieme portiamo nel cuore, il Papa, la Chiesa, il Concilio, il mondo!». Il biglietto, che commosse Giovanni XXIII, scese nel mio cuore come balsamo di consolazione e mi accompagnò nei primi cinque mesi del 1963, nel susseguirsi di giorni trepidi e penosi.
Venerdì 31 maggio, diffuso l’annuncio che il Papa aveva ottemperato esemplarmente alle prescrizioni del Coeremoniale episcoporum, ricevuto i sacramenti e congedatosi con una omelia di venti minuti, il cardinale di Milano si mise in viaggio, assieme ai Roncalli di Sotto il Monte. Lo narrò lui stesso con lettera scritta da Roma il 31 maggio 1963: «Ho fatto il viaggio aereo con i tre fratelli e con la sorella del Santo Padre, semplici e venerande persone, chiamate per dare l’estremo saluto al loro fratello Sommo Pontefice». E aggiungeva: «Si piange, si prega, si attende con immensa tensione di spirito, ma con ineffabile commozione nel cuore, quasi di bellezza e di vittoria. Quale luminoso epilogo della vita terrestre, quale presagio di quella celeste».
Nella mia memoria, scaldata dalla gratitudine, tutto si assomma nei due colloqui che ebbi con Giovanni Battista Montini la notte del 31 maggio e con Paolo VI appena eletto il pomeriggio del 21 giugno: nella stessa stanza accanto alla finestra dell’Angelus, in piedi, con lo stesso personaggio, rivestito con talare nera la prima volta, con la talare bianca poi. Non dirò se non l’essenziale, mantenendo nell’ombra il mio ruolo, pago di custodire il segreto che è dono e vocazione: «Il mio segreto è per me» (Isaia, 24, 16) soleva ripetere Papa Giovanni. Quella sera, a pochi passi dal letto del morente, il cardinale Montini mi ricordò il primo contatto epistolare con il neoeletto arcivescovo Roncalli, il 2 marzo 1925, e l’estremo colloquio privato: «Quest’uomo ha il dono di toglierti l’affanno dall’animo». Ne profittò per compiacersi con la Segreteria di Stato, la Radio Vaticana, l’Osservatore Romano per aver sollevato la cronaca dell’agonia nei cieli altissimi della fede e della speranza, da far dire a una voce anonima d’oltreoceano: «Questo Papa dopo averci insegnato il ben vivere, adesso propone l’esempio del ben morire».
Tre settimane più tardi, il pomeriggio dell’elezione, Paolo VI volle vedermi. Tengo per me alcune parole che mi riguardano – dettemi non più dall’arcivescovo di Milano, ma dal Papa — e racconto la più sublime confidenza sulla quale non pose il sigillo del riserbo: «Ho accettato l’elezione per continuare l’opera avviata da Papa Giovanni, sicuramente guidato dall’Alto». Questo era il suo animo, il suo convincimento, la sua fiducia. Nulla di meramente umano. Credeva che Dio si serve di noi per le sue opere oppure che, per citare un celebre titolo, Dio ha bisogno degli uomini.
A metà del Novecento, a esplicitare le intuizioni dei Papi predecessori, in particolare di Benedetto XV e a dilatarle, Iddio trasse dai solchi della campagna bergamasca e cinque anni dopo dall’humus fecondo di Brescia i due operatori del «nuovo balzo innanzi», finalizzato a «riprendere da capo, con interesse nuovo, con animo sereno e pacato, tutta la dottrina cristiana, nella sua interezza, con quella limpida precisione di concetti e di vocabolario, di cui gli Atti del Tridentino e del Vaticano I l’hanno rivestita, per farla meglio conoscere e informarne gli animi», come disse l’11 ottobre 1962 il Pontefice nel discorso di apertura del Vaticano II.
Ci accade sovente di condividere il lamento dei navigatori in mare tempestoso, inquieti e spauriti. Papa Giovanni, edotto dalla voce profetica «Chi crede non si turberà» (Isaia, 28, 16), nel corso della lunga esistenza, nonostante contrarietà di uomini e di elementi, rivelò il 17 marzo 1963 che la sua fiducia era alimentata da saldissima fede: «La serenità del mio animo di umile servo del Signore trae di qui continua ispirazione; non ha origine dalla non conoscenza degli uomini e dalla storia e non chiude gli occhi davanti alla realtà. È serenità che viene da Dio ordinatore sapientissimo delle umane vicissitudini».
Questo comprese Montini, sua prima creatura cardinalizia, sino a declamarlo, come lui solo sapeva fare, con uno squarcio oratorio da antologia, nel presentare al Papa quattromila ambrosiani pellegrini ad Petri cathedram: «In un mondo che sembra a non altro aspirare, quale a somma conquista degli sforzi e dei progressi della sua civiltà, se non a sentirsi unito nell’organizzazione dei suoi modernissimi servizi, nello sviluppo della sua cultura scientifica, nella sicurezza della sua pacifica convivenza, e trema invece, e proprio in questi giorni, fino a provarne spavento, per i crescenti pericoli, da lui stesso creati e scatenati, alla sua civile compagine, alla sua incolumità ed alla sua pace, raccogliere in quest’ora fortunata le loro persone ed i loro pensieri intorno a voi, o Vicario di Cristo, o Padre d’una universale fratellanza, Maestro di una verità che non falla e non vacilla, Pastore intento a rendere buoni ed amici gli uomini, è per questi Pellegrini sommo conforto, è somma speranza; così che per le diocesi lombarde, per tutte le persone e le opere a noi care, ora attendiamo la vostra parola e la vostra benedizione» (4 novembre 1961).
Paolo VI così vedeva Giovanni XXIII. Ora così noi vediamo lui: padre, maestro, pastore. E siamo grati a Montini di averci illustrato il 28 giugno 1967 il monumento al suo predecessore concepito da Emilio Greco, dedicato alla memoria e all’amore di un Papa che ebbe la singolare prerogativa, in grado non comune, di farsi amare: «Ritornano spontanee al nostro spirito le parole che ci salirono dal cuore, quando nel Duomo di Milano, nella festa di Pentecoste 1963, mentre l’agonia di Giovanni XXIII teneva in ansia ed in preghiera la Chiesa intera ed il mondo: “Benedetto questo Papa che ci ha fatto godere un’ora di paternità e di familiarità spirituale, e che ha insegnato a noi e al mondo che l’umanità di nessuna altra cosa ha maggior bisogno, quanto di amore”. Amò e fu amato; e questo monumento come raffigura Papa Giovanni nell’atteggiamento del suo multiforme apostolico amore, così vuol essere il segno che tale amore è stato compreso e a tale paterno amore il nostro filiale risponde».
Qui la mia penna si arresta, nell’attesa della iscrizione di Paolo VI nell’albo dei beati il prossimo 19 ottobre. Frattanto il cuore accelera i battiti, e io provo incoercibile impulso a ripetere per Paolo VI il singolare elogio da lui stilato per Giovanni, debitore a entrambi di essere stato spronato a custodire gelosamente il tesoro della fede, a trascorrere i giorni nella comunione dei santi, confidando anzitutto nell’intercessione nella Madre di Gesù; incoraggiato a operare indefesso per la liberazione e la salvezza di ogni singola creatura umana, a tendere alla novità armoniosamente coniugata con la tradizione, come sprona e incoraggia il nostro Santo Padre Francesco. Ho scritto poveramente e ardentemente. Conchiudo a mani giunte. Due nomi, due destini, due immolazioni, un solo amore, Cristo con la sua Chiesa e l’umanità.
L'Osservatore Romano