lunedì 1 dicembre 2014

Dove può arrivare lo sguardo di una suora.




 I mille volti della maternità spirituale
L'Osservatore Romano - Inserto Donne, Chiesa, Mondo - dicembre 2014
(Maria Barbagallo) Noi suore ci troviamo spesso immerse nelle situazioni più drammatiche, in cui siamo chiamate a dare la vita, o quella del corpo o quella dell’anima. Non è un mestiere, una professione, è un atteggiamento mistico che rientra nel mistero di Dio, che si fa dei collaboratori e delle collaboratrici per offrire quella vita in abbondanza che lui ci vuol dare.
Fra tante esperienze, una delle più significative è la storia della piccola Maria della missione di Dubbo, in Etiopia. Sono i primissimi tempi della missione, le suore sono intente a organizzarsi, a pulire, a visitare i dintorni, ed ecco che suor Francesca vede una bimba aggirarsi da sola nei pressi della missione. La bimba è denutrita, sporca, malandata e malata. La portano all’ospedale; i medici dicono che morirà, ma le suore hanno speranza e — dopo poco tempo tra cure e amore — la bimba si riprende, guarisce. 
La chiamano Maria, si sa che è orfana, ma le suore non la possono tenere, la piccola ha bisogno di una famiglia. L’affidano a una famiglia del posto, cattolica e sostenuta dalla missione. Dopo alcune settimane la famiglia avverte le suore che la bimba è malata. Vanno a visitarla, non è grave, è solo malnutrita, mal tenuta, in condizioni igieniche terribili. La riprendono, la fanno rifiorire. È una bimba forte, cresce sana e viene affidata a un’altra famiglia. Qui cresce benino, va a scuola, diventa una bella ragazzina. Ma ecco che un giorno Maria scompare, non si sa più nulla di lei. 
Passano dieci anni. La missione è già più grande, con varie opere: c’è la scuola, l’ospedale, l’orfanotrofio, l’orto, la fattoria. Ecco che un giorno si presenta una giovane donna, mal vestita, denutrita, con una bimba in braccio altrettanto malandata. Dopo poche ore, le suore riconoscono in lei Maria. Sono sorprese, ma non fanno domande poiché le risposte erano lì, davanti a loro. Maria viene accolta amorevolmente, la sua bimba nutrita e curata insieme a lei e passano i mesi. Si trova un lavoro per Maria e sembra proprio che la donna diventerà un membro della missione. Invece, un giorno Maria scompare di nuovo abbandonando la bimba. Si cerca ancora, ma invano. La piccola cresce bene e avrà il suo futuro: sarà adottata da un’ottima famiglia italiana. 
Forse è meno conosciuta una forma di maternità spirituale che le suore esercitano nei confronti di giovani donne. Tra queste, molte si presentano alle porte del convento esprimendo il desiderio di diventare religiose. Sono donne di ogni classe sociale, di ogni livello culturale, di ogni etnia, spesso prive di una vera formazione umana e spirituale. Vengono accolte e aiutate a crescere come donne, con dignità, autonomia, cultura umana, cristiana e professionale. Donne capaci di un pensiero proprio, in grado di conoscere se stesse e di fare delle scelte libere. Su di esse si spende molto tempo, energia, fatiche e si investono molte speranze: ma di queste persone solo un esiguo gruppo arriva alla vita religiosa. Specialmente nei Paesi più poveri, quando ritornano in famiglia o nel loro ambiente sono preparate per la vita come poche altre donne. Poche persone possono avere una formazione così completa, voluta dalla Chiesa e necessaria per affrontare una vita di sacrifici come è la vita religiosa, ma che poi serve per affrontare qualunque genere di vita. 
In una nostra casa di riposo portarono un giorno un’anziana signora molto mal ridotta. Il figlio non sapeva più che fare e la portò lì, per farle finire i suoi giorni. La signora non parlava, non mangiava, stava sempre a letto. Per il nostro staff medico non era così grave da giustificare quello stato così rinunciatario. Le suore e le infermiere si dedicarono a lei: le parlavano, la facevano alzare mostrando il giardino fiorito, la lavavano e pettinavano e la vestivano bene, con le sue collane, la portavano in cappella a pregare e in giro per il giardino e infine la signora si rimise a mangiare e dopo qualche settimana camminava, appoggiandosi a un supporto, sorrideva e parlava. 
Il figlio quando la rivide restò fortemente sorpreso e se ne uscì con una infelice frase, che speriamo la madre non abbia sentito: «Ma allora, disse, non conviene proprio averla portata qui da voi!». Non so cosa gli abbia risposto la suora, ma questa esperienza è molto frequente nelle case di riposo per anziani. Le signore che noi ospitiamo soffrono una terribile solitudine, sperimentano l’emarginazione dalla propria famiglia che le sente come un peso. 
Se le anziane sono suore sembra che ormai non ci sia più bisogno di direzione spirituale, né i buoni sacerdoti avvertono il bisogno di “perdere tempo” con loro. In una nostra casa di suore anziane, una di esse, alla domanda: «Come va?», mi rispose: «Grazie, adesso va meglio da quando c’è madre Camilla. Lei ci visita tutte le settimane e ci fa una buona direzione spirituale. Creda, adesso va meglio, io lo desideravo tanto». Questa madre Camilla era stata un’ottima missionaria, anche lei inviata alla casa di riposo, che aveva trovato un nuovo ruolo, o meglio il ruolo che sempre aveva svolto nella vita, un ruolo di “madre” che aiuta a crescere nella fede e nella speranza.
Ricordo suor Leocadia. Era assistente delle bambine orfane nella stessa casa dove ero io. Le bimbe spesso avevano parenti vicini o lontani che il sabato andavano a trovarle. Una di queste bambine, Cesarina, veniva dalla Calabria: il papà vedovo, dopo un’alluvione, era rimasto senza casa con altri figli più grandi e Cesarina fu mandata nel nord, da noi, insieme ad altre. Questa bambina non aveva nessuno che andasse il sabato a trovarla, anche se qualche buona signora a volte le portava qualche regalino. Ma non era suo papà. Il sabato sera le bambine mostravano quello che avevano ricevuto. Suor Leocadia si inventò un rimedio: ogni sabato preparava un bel pacchetto, con vestitini, biancheria, dolci… come se fosse arrivato con la posta e lo dava alla bimba. «Ecco — le diceva — è arrivato qualcosa per te». 
Quello che spesso mi ha sorpreso nella vita missionaria è vedere come le suore proteggono i bambini. Durante la guerra sino-giapponese, a Kashing, dove si trovava la nostra missione, nel 1937 ci fu una grande distruzione. L’orfanotrofio venne bombardato e la suora che si trovava nel sotterraneo con i bambini più piccoli li raccolse tutti attorno a sé, li fece distendere per terra e lei si mise di sopra a loro e li coprì con il suo corpo e i suoi abiti nella speranza di salvarli. La trovarono così, distesa a terra con le braccia aperte, morta insieme ai bambini, quando riuscirono a togliere le macerie. Quella suora è morta veramente da “madre”. 
Ma dove il senso materno di protezione si esercita in modo straordinario è nel rapporto con gli emigranti, persone che vivono “sospese”, sempre in attesa di qualcuno o di qualche cosa. 
A Chicago migliaia di emigranti non potevano accedere all’ospedale, perché era rischioso per chi non aveva la documentazione in regola. Le suore inventarono allora un sistema di ambulatori rionali, che chiamavano out station. Erano piccoli centri di assistenza nelle zone degli immigrati, gestiti da medici e infermiere possibilmente dello stesso gruppo etnico. Erano luoghi molto ben tenuti, ma esternamente sembravano piccole abitazioni, semi-clandestine. Ci voleva coraggio per fare queste cose. Fu l’unico modo per salvare la vita a centinaia di persone in attesa di un permesso di soggiorno. 
Il dramma si ripete oggi in Messico, alla frontiera con gli Stati Uniti. Lì le suore devono accogliere persone distrutte dal viaggio, medicare le piaghe dei loro piedi, nasconderli e informarli perché spesso non sanno che il deserto è disseminato di croci. 
Suor Xo ha da poco compiuto trent’anni. È piccolina di statura. È lì per un’esperienza che fa parte della sua formazione prima di emettere gli ultimi voti. Dopo una buona colazione, il bagno, il riposo, c’è un momento di incontro personale per raccogliere dati. Si trova così di fronte a un uomo un po’ robusto, alto, ancora molto sporco, con il volto triste. L’uomo non ha voglia di parlare. Non si fida, tutte le volte che lo ha fatto è stato ingannato. Ma poi si fida della giovane suora e comincia a parlare: ha perduto tutto quello che aveva recuperato con la vendita della sua casa, delle sue cose, del suo piccolo pezzo di terra. Ha dovuto lasciare la famiglia, poi è caduto nella solita rete dei trafficanti che gli promettono il passaggio verso gli Stati Uniti se però porta alcuni zaini pieni di droga per loro. Non vuole accettare ma è costretto. Quando vede che le sue speranze sono continuamente frustrate, si rifiuta di continuare e lo mandano via in malo modo con minacce. 
A un tratto del suo racconto l’uomo scoppia in un pianto disperato. Così conclude suor Xo: «La domanda che ho sentito dentro di me come persona consacrata è stata: “Che posso fare?”. Che potevo fare ascoltando quell’uomo che, distrutto dalla sua disavventura, mi raccontava il suo dolore, la sua angustia, la sua disperazione e i suoi dubbi su quello che avrebbe potuto fare di fronte a quella situazione? È difficile dare risposte a chi ha perduto tutto. Cosa si può fare in un luogo dove non si sa a chi ricorrere e non si ha assolutamente niente per poter andare avanti, solo l’offerta di un vile zaino di droga per avere una debole probabilità di passare la frontiera? A volte resta solo l’Amore. In quel momento sono stata spinta da un forte impulso, gli sono andata vicino e l’ho abbracciato, lui ha appoggiato il suo capo sulla mia spalla singhiozzando forte e abbracciandomi.. lasciava cadere su di me grosse lacrime… sentivo il suo cuore battere e non era possibile nessuna parola. Ma solo ho sentito un sussurro: “Lui è qui”. Poi un sorriso, un addio, e il mio flebile: “Prego per lei”».
Non si può spiegare dove può arrivare una donna che sa vedere la sofferenza degli altri. Nell’Hospice di New York, ricordo l’esperienza di suor Loretta. Molti ospiti di quel centro erano giovani ammalati di Aids. Questi giovani, in gran parte, attraversavano il buio della loro malattia terminale da soli e morivano da soli. Suor Loretta parlava con loro, cercava di ricongiungerli ai familiari, abbandonati da anni, li ascoltava. Anch’essi avevano molte cose nel cuore da capire, molte ferite da guarire. L’incontro con Dio non era facile, ma quando arrivava il momento quasi finale, suor Loretta faceva capire che Dio li aspettava per abbracciarli e introdurli in una vita diversa: la vera vita. Questo non lo diceva a parole ma, avvertendo la solitudine dell’ammalato, lo abbracciava forte e con amore, sussurrandogli parole di affetto e di speranza, di perdono e di riconciliazione e, spesso, sentiva che il giovane rimaneva sereno e partiva sereno.
Suor Loretta — che ha scritto un libro su queste esperienze — è stata invitata da un’università a New York per parlare del suo libro. Alla fine della presentazione, in un silenzio impressionante dell’aula magna gremita da centinaia di studenti, il moderatore chiese se qualcuno voleva fare una domanda. Il silenzio era totale. A un tratto un giovane studente si alzò e disse: «Non ho domande da fare, ma vorrei dire una cosa: se a me capitasse di morire per qualsiasi ragione, vorrei davvero che qualcuno come suor Loretta, mi abbracciasse forte come fa lei con i suoi ragazzi».
Credo che la maternità spirituale non si possa davvero descrivere, ma solo sperimentare.