mercoledì 18 novembre 2015

La verità dell’amore



A dieci anni dalla «Deus caritas est». 

(Gerhard Muller) Porta di misericordia. Anticipiamo l’intervento che, nel pomeriggio di giovedì 19, il cardinale prefetto della Congregazione per la dottrina della fede terrà sulla prospettiva e il concetto di verità durante il simposio internazionale intitolato «Deus caritas est. Porta di misericordia» organizzato a Roma — nel decimo anniversario della pubblicazione della prima enciclica di Benedetto XVI — dalla Pontificia università lateranense e dall’Istituto patristico Augustinianum.
Benedetto XVI, in tutto il suo magistero e in particolare nel discorso tenuto presso l’Università di Ratisbona, mentre affermava con chiarezza che «non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio», ha sottolineato con precisione come il dialogo fede-ragione inizialmente compiuto con l’ellenismo, sia normativo per il cristianesimo. 
La nostra prima affermazione è che l’enciclica Deus caritas est obbedisce all’intenzione profonda di questo dialogo che deve sempre guidare il cammino della Chiesa e nel quale la verità va messa in gioco. Come correttamente indicato da Papa Benedetto nel discorso di cui sopra, l’abbandono della ragione nell’anelito di verità è una dialettica di potere che lascia grande spazio all’arbitrarietà e alla violenza. Si tratta di una questione che il Pontefice volle approfondire anche nel suo discorso al Reichstag, parlando della ragione come fonte di diritto.
La grandezza celata nella prima enciclica del Papa tedesco consiste nel cogliere la grande sfida di proporre l’essenza del cristianesimo nell’amore, per scoprire in essa il posto centrale della verità proprio come luce dell’amore. È impossibile dimenticare il discorso di presentazione di questa enciclica dinanzi all’assemblea plenaria Cor Unum, che parte da una sorprendente proposta circa il valore conoscitivo dell’amore: «Luce e amore sono una sola cosa».
Analizziamo brevemente la portata di tale affermazione, così immensamente coraggiosa. La sua proposta contiene una forza epistemologica di estrema rilevanza poiché significa, nel contempo, il superamento di due proposte conoscitive insufficienti, nonché la spiegazione della fallacia della pretesa post-cristiana che include, nei suoi presupposti, un atteggiamento diverso rispetto alla verità. 
Per quanto riguarda il primo elemento, il testo pontificio prende in considerazione due deficienze epistemologiche che, in quanto tali, sono contrapposte ma che, nella loro coincidenza, rappresentano il maggior ostacolo all’evangelizzazione. La profonda intuizione del Papa consiste precisamente nel rilevare che entrambe derivano da una mancanza di conoscenza della natura conoscitiva dell’amore. Mi riferisco al razionalismo e all’emotivismo. Il primo, rifiutò l’amore come fonte di conoscenza relegandolo alla posizione di affetto soggettivo e privato. Il secondo, apparso inizialmente con il romanticismo, fece emergere l’importanza degli affetti ma da una prospettiva irrazionalista come reazione all’enorme carenza affettiva che l’Illuminismo aveva proiettato nei rapporti umani. 
Il rifiuto del razionalismo come comprensione riduttiva della ragione, con l’implicita riduzione della verità alla sola certezza è un principio attualmente assunto dalla teologia, che ha dovuto subire le limitazioni nelle quali racchiude questa prospettiva che separa radicalmente dalla contemplazione del mistero forzando il dinamismo specifico della fede. Di contro, rimane ancora da approfondire il senso dell’emotivismo in quanto assunzione irrazionale degli affetti come guida per l’esistenza. 
L’emotivizzazione della fede e della coscienza sono, al giorno d’oggi, i fenomeni più estesi che riversano sull’esperienza religiosa un vago irrazionalismo. La fragilità del soggetto emotivo, invece, lo rende molto ricettivo a qualsiasi argomento che tratti degli affetti. È proprio questo l’aspetto rilevante della nostra enciclica che è in grado di affrontarli partendo da una prospettiva nella quale la verità è presente come luce. 
In tal modo, cade l’accusa che pesava sul cristianesimo a partire da Feuerbach il quale, ponendo come essenza del cristianesimo l’amore universale, concludeva affermando che la fede era un ostacolo alla sua realizzazione e che, di conseguenza, bisognava dichiarare obsoleta la proposta cristiana.
Indubbiamente, un seppur minimo avvicinamento all’amore cristiano fa emergere i grandi limiti del filosofo tedesco circa l’amore che ha compreso soltanto come altruismo e che ignora come comunicazione nel bene partendo da una trascendenza di Dio.
Per questa ragione, l’indubbio valore metafisico che scaturisce dall’identità tra «luce e amore», radicato in una visione cosmica dell’amore non è soltanto la risposta fondamentale a questa accusa, ma è innanzitutto la proposta cristiana capace di presentare una provocazione radicale nel pensiero contemporaneo. Tutta l’enciclica ha come base fondamentale la verità dell’amore come luce. Solo se si adotta questa prospettiva si può comprendere la reale portata delle sue affermazioni. A questo ci invita la sua stessa introduzione, nella quale il Papa emerito, invece di citare Dio è amore come si usa fare riprendendo la formula che appare per la prima volta nella Scrittura, ossia il versetto 8 della Prima Lettera di San Giovanni, sceglie il versetto 16, più esteso: «Dio è amore; e chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio rimane in lui» (1 Giovanni 4, 16). L’intento di questa scelta è di stabilire la connessione con la frase giovannea completa che introduce immediatamente la fede: «Noi abbiamo conosciuto l’amore che Dio ha per noi, e vi abbiamo creduto» (1 Giovanni 4, 16). Ecco dunque due delle maggiori affermazioni del cristianesimo in cui è coinvolto l’amore: la conoscenza di Dio nel profondo e il modo amorevole di conoscenza di questo mistero da parte dell’uomo. L’interrelazione tra amore e fede è tanto grande da poter dire, riprendendo le parole di Spicq che «per San Giovanni, l’oggetto specifico della fede è la carità divina». In particolare, non possiamo esimerci dal menzionare l’inclusione del «rimanere» così tipico di San Giovanni, nella frase iniziale dell’enciclica. In fondo, con questa affermazione, il Papa sta tracciando sinteticamente la struttura duale del documento.
L'Osservatore Romano