venerdì 24 giugno 2011

La testa sul vassoio

 



Quando il testimone della verità arriva alla morte, dice a Dio: «Grazie anche per le sofferenze che mi hai dato. Grazie a te, infinito amore!». E Dio gli risponde: «Grazie a te, amico mio, per l'uso che ho potuto fare di te!» (S. Kierkegaard). Anche chi non ha molta dimestichezza col greco sa che in quella lingua il «testimone» è chiamato «martire». E se vogliamo scegliere una raffigurazione simbolica esemplare che ben s'adatta alla festa che il calendario odierno propone, potremmo evocare le parole di quel grande -testimone- che fu don Primo Mazzolari: la testa di Giovanni Battista è ancor più eloquente quando è posta sul vassoio di Salomè ed Erodiade rispetto a quando era sul collo del Precursore. La voce dei martiri non tace neanche dopo la loro morte. Noi ora, con la nota sopra desunta dal Diario del filosofo danese dell'Ottocento, Soeren Kierkegaard, facciamo un passo oltre quella fine più o meno drammatica e pensiamo all'incontro tra il martire-testimone e il suo Signore. Il primo confessa a Dio che quando si agisce per amore non pesa neppure dare la vita: «se un uomo non ha scoperto qualcosa per cui è disposto a morire, non è neppure degno di vivere», diceva un altro martire, Martin Luther King. In quei momenti oscuri vibra nella fragilità umana la grazia divina con la sua efficacia potente. Il Signore, invece, ringrazia il suo fedele perché egli è stato quasi la sua voce e la sua stessa mano visibile davanti agli uomini. Il martire offre la sua libertà e la sua stessa persona all'agire di Dio. In questo si rivela la virtù teologale della fortezza che è grazia donata e impegno personale, proprio come accade nel primo martire cristiano Stefano, «pieno di grazia e di fortezza» (Atti 6,8). Allora, come dice un suggestivo proverbio indiano, «la lama della spada che colpisce il martire profuma di balsamo».
Fonte: Avvenire, rubrica "Mattutino", autore: G. Ravasi.