lunedì 19 novembre 2012

Robert hugh Benson: "Il Padrone del mondo"

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Durante l'Angelus di ieri il Papa ha commentato una parte del discorso di Gesù sugli ultimi tempi, in termine tecnico «escatologico»  (cfr Mc 13,24-32). Approssimandoci infatti alla fine dell'Anno Liturgico, siamo sollecitati a pensare alla seconda venuta del Figlio dell'Uomo, tecnicamente la "Parusia". Su questo tema tanto inchiostro è stato versato, molto spesso senza alcuna cognizione di causa o con intenti più o meno manifestamente commerciali (i "Testimoni di Geova"!!!); qualche volta però il genio del cristianesimo ha prodotto delle opere davvero pregevoli, addirittura profetiche. E' questo il caso di due opere famosissime, di cui propongo la (ri-)lettura in questo tempo. La prima è di Robert Hugh Benson (*) ("Il Padrone del mondo"), di cui faccio precedere una recensione che traggo da "30 Giorni" di qualche anno fa e la presentazione di Luigi Negri, Vescovo della Diocesi di San Marino-Montefeltro. Buona lettura!

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(*): Robert Hugh Benson (1871-1914), figlio di un pastore anglicano divenuto arcivescovo di Canterbury, è stato un romanziere  inglese che divenne inizialmente diacono nel clero anglicano ed attraverso una tormentata vita spirituale condotta alla ricerca della Verità, passando attraverso un ordine contemplativo della Chiesa d’Inghilterra (Comunità della Casa della Resurrezione), approdò alla Chiesa Cattolica Romana, che lo accolse e lo consacrò sacerdote nel 1904 nella basilica di San Silvestro a Roma. Furono le encicliche di Leone XIII, in particolare l’Apostolicae Curae e l’insegnamento del Beato Cardinale Newman, oltre ad altre vicende personali, come l’imbattersi sorprendentemente in una chiesetta cattolica a Luxor in Egitto, che lo fecero ulteriormente riflettere sul carattere davvero universale (e non solo nazionale) della Chiesa Cattolica.
 

[Da «30Giorni», anno VI, n. 1, gennaio 1988, pp. 66-69]

«Gli pareva tutto un mondo da cui Dio stesso aveva voluto ritirarsi, dopo averlo lasciato nella più completa soddisfazione di sé, privo di fede e di speranza».
Questa è la percezione che il prete Percy Franklin ha del mondo contemporaneo, mentre impiega nella riflessione sulla sua esperienza il tempo del viaggio in aereo da Londra a Roma, ove conta di persuadere il Papa ad ammodernarsi; ne esce invece con una fede ritrovata più viva e più profonda.
Dico «mondo contemporaneo»; ma la frase, così come la figura del prete, appartiene ad un romanzo fanta-politico-religioso che apparve giusto ottant’anni fa, nel 1908, Il Padrone del mondo, che oggi l’editrice Jaca Book ripresenta in una accurata traduzione.
Se non mi sbaglio un’edizione italiana era già apparsa, con scarso successo, negli anni Venti; ma in verità, nonché allora, questo libro non poteva venire realmente inteso neppure nei più recenti esempi, nel momento della grande offensiva del marxismo, e poi in quella della rivoluzione sessuale.
Dire che per i cattolici la cosa che più è da temere è «la forza immensa che sa esercitare l’umanitarismo» con la sostituzione della filantropia alla carità e della soddisfazione alla speranza, e condurre l’intero libro sul fondamento di quest’idea, appariva anche in anno prossimi una sorta di paradosso di scarso volo; umanitarismo era parola che sapeva di università popolari di tipo arcaico.
Eppure oggi che il marxismo è in un declino irreversibile, sino al punto che si rischia di essere ingiusti rispetto alla sua reale potenza filosofica, e che la rivoluzione sessuale e la combinazione marx-freudiana segnano il passo, la lotta contro il cattolicesimo avviene proprio sotto il segno dell’umanitarismo.
Che cosa si chiede ai cattolici, oggi, da qualsiasi parte, se non la riduzione del cristianesimo ad una morale, in se separata da ogni metafisica e da ogni teologia, capace nella sua autonomia e nella sua autosufficienza di raggiungere l’universalità e fondare una società giusta? Anzi questa morale sarebbe pure capace, come vien detto nel passo pubblicato nelle pagine che seguono, di «porre fine alla secolare divisione tra Occidente e Oriente», come infatti si sta tentando. Questa morale universale è tollerante: ammette che qualcuno, il cattolico appunto, possa aggiungere una speranza oltremondana, specificamente religiosa in senso trascendente; e se se ne sente vitalizzato nell’esplicare la sua azione pratica, umana, bene; essere cattolici per gli umanitari è questo.
Ma gli viene posta una condizione, quella di riconoscere che la sua fede e la sua speranza sono appunto un’«aggiunta»; etica e politica prescindono da ogni professione religiosa; l’essere consapevoli significa lavorare per l’unione degli uomini di buona volontà; la fede, insomma, rischia di dividere, mentre l’amore, associato a una scienza valida per tutti, unisce. Tale communis opinio, ricordata come tesi massonica essenziale anche in questo libro e che fu già luogo comune dei professori di filosofia morale del tardo Ottocento, ritorna oggi.
Ancora una volta viene riaffermata la celebre distinzione tra cattolici integristi e progressisti.
Già su di essa si erano fondati i cattocomunisti di dieci anni fa, per proporre una sorta di ghettizzazione degli integristi sotto forma di «esclusione dal secolo», con la giustificazione ipocrita che «si sono autoesclusi rifiutando il dialogo»; oggi, attitudine identica è proposta dagli assertori del dialogo «ecumenico» cattolico-massonico.
C’è una morale unitaria, suscettibile di venir declinata in linguaggi diversi; anche in quello cattolico, e la formulazione cattolica è ammessa purché… Le condizioni sono già state dette: e permane in una delle parti dialoganti la persuasione che i primi anni del terzo millennio debbano vedere la fine del cattolicesimo nella forma di eutanasia. O meglio: il cattolicesimo dovrebbe essere ricompreso nell’ecumenismo massonico, e in questo senso la massoneria può presentarsi oggi, e lo fa, come il più moderato dei laicismi; il cattolicesimo non è perseguitato ma, appunto, ricompreso; a certe condizioni; nell’ecumenismo umanitario può ben sussistere la sezione di rito cattolico.
La lettura di questo libro mi ha riportato in mente un saggio che ha esercitato su di me una suggestione decisiva negli anni giovanili, e che mai ho dimenticato, Il risentimento nella genesi delle morali di Max Scheler pubblicato nel 1912 e ampliato e rimaneggiato nel 1919. Scheler vi definisce con tale precisione che non c’è più nulla da aggiungere, la radicale eterogeneità di natura tra l’amor cristiano e l’umanitarismo. L’amor cristiano è fondato sull’idea di Dio, non soltanto creatore, ma creatore per amore; di qui l’armonia cristiana dei tre amori, di Dio, di sé e del prossimo, in quanto le realtà mondane stesse sono espressioni dell’amore di Dio; l’amore cristiano, insomma, è concentrato sul «divino» nell’uomo. Il fatto che la morale che ne consegue sia indissolubilmente legata alla visione religiosa del mondo e di Dio spiega come siano falliti tutti gli sforzi per darle un senso laico, distinto nel senso religioso, per trovarci i fondamenti di una morale «umana» universale o di una morale «senza presupposti religiosi».
Pure storicamente l’equivoco è stato molto diffuso; la polemica di Nietzsche contro il cristianesimo suppone che esso sia anzitutto una morale, sostenuta dall’esterno da una giustificazione religiosa, e non anzitutto una religione; confonde cristianesimo con umanitarismo, forma di pensiero contro cui invece la sua polemica è valida.
L’umanitarismo invece, proprio perché prescinde dal «divino» nell’uomo deve dirigersi non più sulla personalità dell’uomo nella sua singolarità, ma sulla umanità come collettività e sui tratti generici che la definiscono; quando parla dell’amore, lo riduce a un fattore che contribuisce all’aumento del benessere sensibile.
Partendo da questa netta distinzione Scheler giungeva ad osservazioni pertinentissime che si attagliano perfettamente alla società presente; così quella secondo cui il destino dell’umanitarismo sarebbe di fissarsi sugli aspetti più bassi e più animali della natura umana, cioè appunto, anziché sulla persona, sui caratteri che tutti gli uomini hanno in comune; di mascherare sotto le apparenze di «comprensione» e di «umanità» un vero e proprio odio per tutti quei valori che oltrepassino la sfera del vitale e siano perciò relativi.
È quel che è confermato oggi dal diffuso scherno che viene usato contro gli aggettivi «assoluto» ed «esterno» quando vengono riferiti ai valori e che ha le sue ragioni ultime, nascoste, proprio nella sostituzione della morale «umanitaria» alla religione.
O si pensi a questa sua stupenda osservazione: «…i santi della storia che, nella concezione cristiana, rendono sensibile il Regno di Dio stesso, non sono più ormai quei grandi «esemplari», che permettono all’«umanità» di orientarsi, e che facendo parte del «genere» umano servono ad elevarlo; non sono più che dei servitori del maggior godimento sensibile delle masse».
Quel che interessa in questo passo è indubbiamente il duplice diversissimo senso che assume la parole "servizio" nelle due concezioni, massimamente nobile nella prima, affatto plebeo nella seconda: in quel che oggi è il senso politicamente prevalente, il servizio viene riferito a quel che la massa (o, eufemisticamente, la gente) chiede, e che non fa certo parte dell’elevazione; e quali siano gli idoli e i miti che hanno sostituito i santi lo sappiamo. I «servizi» non vengono certo ordinati a quel che nell’uomo c’è di «divino», e in questa breve frase si può riassumere la crisi presente nella democrazia.
Dire che l’organo dell’umanitarismo sia la massoneria non è esprimere un giudizio di valore negativo, ma pronunziare una constatazione di fatto; e neppure si vuol negare che nella massoneria originaria si pensasse al rispetto di una legge morale unica; resta che oggi, di fatto, l’idea di questa unica legge morale è venuta meno e le si è sostituita una pluralità irriducibile di criteri pratici o di tipi di realizzazione; e che gli stessi «valori comuni», come il «non uccidere» o il «non rubare» sono intesi, nell’assenza del riferimento religioso, non come imperativi morali, ma come condizioni necessarie della funzionalità sociale.
L’umanitarismo è ricomparso in termini di pacifismo (altra cosa della volontà morale di pace) al momento del venir meno degli ideali, quale si è verificato negli ultimi decenni; dell’ideale della rivoluzione comunista per un verso, della crisi della coscienza religiosa per l’altro.
All’idea di rivoluzione mondiale, o all’opposto, di un risveglio religioso di cui certamente rimane tuttora la speranza, si è sostituita l’accettazione della diarchia delle superpotenze, e all’idea della morale quella delle tecniche della razionalità sociale.
Poiché l’umanitarismo, quali che fossero le sue intenzioni iniziali, deve concludere in una tecnica del benessere largodiffuso, non ci si deve meravigliare se oggi la massoneria si ripresenti come custode del presente stato di fatto; uno stato di fatto che, forse, nelle condizioni morali presenti rappresenti una, seppur augurabilmente temporanea, necessità; ma a cui i cristiani non possono consentire.
Il romanzo del Benson mostra una capacità di previsione che rasenta la profezia; se ho voluto unire in commento di esso, e particolarmente delle sue pagine qui riportate, a quelle di uno scritto dello Scheler nel suo periodo migliore, è perché mi è parso che, non diretto nel momento in cui fu redatto a previsioni, ne confermi filosoficamente il senso; illustri il processo necessario per cui l’umanitarismo sia diventato oggi il più pericoloso avversario del cristianesimo, e perché la rivolta anticristiana del nostro secolo trovi in esso il suo sbocco.

Augusto Del Noce


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PREFAZIONE DI S.E. MONS. LUIGI NEGRI
Carissimi amici, sono lieto
di accompagnare con poche parole la riedizione de Il padrone del mondo, uno dei libri che ha inciso più profondamente nella mia personalità.
Peraltro, confidenzialmente, posso dirvi che parlando con il Santo Padre ho avuto la confidenza che anche per Lui, la lettura de Il padrone del mondo, nella prima edizione tedesca, fu un fatto di grande importanza.
Questo libro, scritto nel 1907 da un grande cristiano, è una profezia terribile per la concretezza e per la specificità del mondo in cui viviamo e del cammino che ha portato a questo mondo. Da un lato questo enorme apparato che omologa le persone, i gruppi sociali, le nazioni, i popoli, che li omologa sulla base di un umanismo sostanzialmente ateo, che ha dei riferimenti a valori comuni che sono valori cristiani profondamente laicizzati e secolarizzati.
Quindi una società dove non esistono più differenze, qualsiasi tipo di differenza: quella religiosa, quella sociale, quella culturale viene sentita come negativa e il tentativo che è quello di operare una unificazione o, come si potrebbe dire una omologazione dell’intero pianeta differenze che incombono minacciosamente come tutto L’EST, tutto l'oriente, ma al di là dello specificarsi delle cose l'intuizione di Benson e che si sarebbe andati verso una negazione di Dio attraverso la costruzione di una società obiettivamente senza Dio. Ora, per costruirsi questa società, anche questa è un'intuizione formidabile, occorre divinizzare il tentativo che si sta facendo, come ai tempi della costruzione della torre di Babele; si deve assolutizzare il progetto e si devono divinizzare coloro che realizzano questo progetto e siccome la logica dell'unità è una logica ferreamente umana, si deve assolutizzare colui che di fatto sta guidando questa grande operazione. Ecco l'immagine di Giuliano che è sostanzialmente l'anticristo, l'anticristo soft, ma l'anticristo di una società che vuole fare a meno di Dio e quindi vuole fare a meno di Cristo. Ma l'intuizione formidabile, vorrei dire non soltanto sul piano della disamina di carattere culturale e sociale, ma dal punto di vista ecclesiale è che Benson indica che la strada che la Chiesa non può non percorrere, anche nelle situazioni terribili in cui vive, è la strada della presenza, essere cristiani presenti come ha ricordato il Santo Padre Benedetto XVI alla mia Diocesi, qualche giorno fa.
Di fronte a questa presenza che si riduce progressivamente, numericamente in modo spaventoso ma che non finisce, nonostante i tentativi contro questa differenza, servono tutti i mezzi, ma soprattutto viene riabilitata la violenza, una violenza cinica perché una volta che si sia tolta la peste del cristianesimo la società potrà veleggiare verso il futuro senza più remore o condizionamenti. Quindi, si persegue e si realizza la distruzione totale di Roma e qualsiasi emergenza della grande tradizione cattolica.
Umanesimo ateistico e violenza verso il cristianesimo, ma la Chiesa resiste, si riduce progressivamente, ma tenta di arrivare a distruggere il rifugio dell'ultimo papa e mantiene forte il senso dell’ unità attorno a Pietro e al suo successore. E comunque, per quanto gravissimamente condizionata, non muore e anche con proporzioni numericamente ridotte è ancora una realtà che esiste, coagulata attorno a quella grande idea di un unico ordine religioso del crocifisso, che è stata la grande intuizione del protagonista del romanzo che poi finirà per essere il Papa estremo. Ecco, io credo che la Chiesa di oggi debba imparare, non tanto dalla disamina di carattere socio-culturale ma da questo vigoroso richiamo alla verità della comunione ecclesiale, alla forza della testimonianza, alla necessità di andare in missione confrontandosi con tutti i tentativi di violenza, anche quella che scoppia all'interno del Sacro Collegio, ridotto a poche unità e che riproduce, in maniera drammatica il tradimento di Giuda.
Alla fine è il grande problema lasciato aperto, mentre si dei pochi Cardinali che si sono radunati con lui, quando la vittoria sembra già a portata di mano e anzi è quasi realizzata, scoppia qualche cosa di assolutamente escatologico, come una lotta escatologica fra il Cristo e l’Anticristo. Uomini di fede come ame amano pensare che alla fine di questa lotta escatologica in spe contra spem apparirà il Signore glorioso e trionfante.
Ma il cammino che ci è stato fatto percorrere da questo libro è comunque un cammino di sanità culturale, intellettuale e morale e per i cristiani può essere un aiuto a dell'esperienza della fede e della responsabilità alla missione.

+ Luigi Negri
Vescovo di San Marino­Montefeltro