lunedì 23 dicembre 2013

Spagna, falsa retromarcia. USA indietro tutta....

Mariano Rajoy

Il 20 dicembre il Consiglio dei ministri spagnolo su proposta del ministro della Giustizia Alberto Ruiz-Gallardón ha approvato un disegno di legge che riforma l’attuale disciplina sull’aborto procurato. La legge, se approvata, prenderà il nome di “Legge organica per la protezione della vita del concepito e dei diritti della donna incinta”.
I giornali nostrani hanno titolato la notizia quasi a senso unico:“Spagna, controriforma sull’aborto” (La Repubblica); “Aborto: Spagna fa retromarcia” (Il Corriere della Sera); “Svolta sull’aborto” (La Stampa); “LaSpagna ci ripensa e sconfessa Zapatero: giro di vite sull’aborto “ (Il Giornale); “Spagna, dietrofront sull’aborto” (Il Secolo XIX). Insomma a dar retta ai giornalisti parrebbe che il governo di Mariano Rajoy abbia rivoluzionato la disciplina sull’aborto rispetto alla precedente legge di Zapatero. Le cose invece non stanno così se si va a leggere la “Relazione sul progetto di legge sulla tutela della vita del nascituro”. A fronte di lievissime modifiche più restrittive, il quadro normativo nella sua sostanza non cambia. 
Innanzitutto la legge non è stata approvata, così come invece sostiene l’Ansa: il disegno di legge dovrà passare il vaglio dal Parlamento. I numeri ci sono per far passare la legge, ma le sorprese potranno non mancare vista la pressione mediatica e sociale che ha suscitato questo Ddl.
Andiamo ora a verificare quali sono le reali modifiche del disegno di legge rispetto alla legge Zapatero del 2010. Il Ddl prevede che si possa abortire, dopo un periodo di riflessione di 7 giorni, fino alla 22° settimana per grave (qualificato poi come “importante”) pericolo per la vita o per la salute psicofisica della donna. Il futuro danno eventuale, ma non certo, dovrà essere duraturo ma non irreversibile. Va da sé che la dichiarazione di una donna la quale affermi che il bambino le procurerà un rilevante fastidio psicologico potrà benissimo configurare una grave situazione di pericolo per la sua psiche (e fintantoché il bambino vivrà il danno sarà duraturo). 
Cambia qualcosa rispetto alla normativa attuale? Quasi nulla. Infatti la legge attualmente vigente prevede all’art. 14 che fino alla 14° settimana si può abortire senza fornire alcuna motivazione. Con la nuova legge basterà certificare un “pericolo grave per la psiche della donna” e il gioco è fatto: nulla muterà. 
La legge Zapatero poi prevede all’art. 15 che si può accedere all’aborto anche fino alla 22° settimana in caso di «grave pericolo per la vita o la salute della donna» e rischio di gravi anomalie per il feto. Anche in questo caso nulla cambia: il “grave pericolo per la vita e la salute della donna” abbiamo visto che è criterio presente anche nel Ddl e in merito all’assenza in questo disegno di legge del criterio di perfettibilità fisica del feto, tale assenza è solo apparente. Infatti una donna a cui verrà comunicato che il feto potrebbe avere delle malformazioni sarà legittimata ad accedere all’aborto perché il timore di avere un figlio malformato sarà in grado di provocare uno stato d’ansia profondo e dunque ricadremmo nel caso previsto dal Ddl afferente al pericolo per la salute psichica delle donna.

C’è infatti da ricordare che vigente la prima legge sull’aborto del 1985 – legge che secondo i detrattori del presente Ddl torna ora di attualità nel suo contenuto restrittivo – il 98% degli aborti era praticato per motivi attinenti a disturbi psicologici. Tale criterio quindi, come per la legge Zapatero, sarà il portone di ingresso per qualsiasi richiesta d’aborto.
La nuova legge inoltre prevede, come la precedente, che si possa sopprimere il bambino anche nel caso di stupro: la richiesta deve essere fatta entro la 12° settimana.
Un aspetto apparentemente innovativo è poi il seguente: il certificato per accedere all’aborto dovrà essere redatto da due medici specialisti nella patologia/disturbo che causa il pericolo per la vita o la salute della donna, medici che non dovranno poi procurare l’aborto e che non devono nemmeno lavorare nella stessa struttura dove si farà l’intervento abortivo. Tale iter era già presente nella legge Zapatero (art. 15), sebbene limitata per gli aborti tra la 14° e 22° settimana e con l’esclusione della previsione riguardante il rapporto di lavoro tra struttura ove si praticherà l’aborto e medico che rilascia il certificato.
Poi c’è da aggiungere che questa procedura di certo non limiterà gli aborti. Infatti se un medico è abortista – fosse anche uno psicologo o un dermatologo - poco gli importerà che l’aborto sarà eseguito da un suo collega. Se sarà d’accordo sull’aborto firmerà la relazione/certificato. Naturalmente in caso di emergenza il certificato dei due medici non sarà necessario. Da qui la domanda: chi potrà mai sindacare lo stato di emergenza ravvisato dal medico che effettuerà l’aborto?
Anche per il nuovo Ddl si può abortire dopo la 22° settimana, così come prevedeva la “La legge organica sulla salute sessuale e riproduttiva e sull’interruzione volontaria della gravidanza” del marzo del 2010. Quest’ultima permetteva di accedere all’aborto dopo la 22° settimana nel caso di malformazioni del feto incompatibili con la vita del feto stesso o nel caso di infermità estremamente gravi e incurabili del nascituro (art. 15 lettera c.). Non si prevedeva che tali anomalie dovessero per forza intaccare la salute della madre per legittimare una richiesta di aborto.
Il nuovo Ddl stringe le maglie, ma solo di poco. Infatti stabilisce che oltre la 22° settimana si potrà abortire se la madre è in pericolo di vita o in presenza di anomalie del feto incompatibili con la vita del nascituro e che possono nuocere alla madre, a patto che queste anomalie non siano state scoperte da precedenti accertamenti, pur potendo essere rilevate anche in precedenza, o a patto che solo nel momento attuale tali malformazioni possano essere scoperte. Il vincolo della “salute della donna” abbiamo visto che è facilmente flessibile: qualsiasi malformazione può intaccare la serenità di una donna. Il vincolo invece dell’incompatibilità della patologia con la viabilità del feto parrebbe invece più ostico da superare.
Passiamo alle minorenni. Le ragazze minori, tra i 17 e i 18 anni, potranno sempre abortire ma, a differenza della legge Zapatero (art. 13), ora verrà ripristinato il consenso apparentemente vincolante dei genitori. A questo proposito sappiamo bene che in non pochi casi la minore arriva all’aborto non solo con il consenso dei genitori ma spinta da costoro quando la ragazza è recalcitrante. Senza poi contare che l’eventuale dissenso dei genitori vale come il due di picche a briscola chiamata: infatti è previsto che se c’è dissidio tra minore e genitori risolve il tutto il giudice minorile che valuterà non tanto il merito, cioè la richiesta di abortire della minore, ma la sua maturità (così come avviene in Italia). Le minorenni sotto i 17 anni secondo il Ddl potranno abortire ma sempre con il consenso dei genitori. Anche in questo caso se c’è disaccordo con i genitori valuterà sempre il giudice il da farsi. Però nella fattispecie specifica il magistrato dovrà verificare se la mancanza del consenso dei genitori è nel miglior interesse del bambino.
Per il medico – e non per la donna – che non rispetta i deboli vincoli di cui sopra è previsto il carcere da uno a tre anni (prima era prevista un’ammenda pecuniaria). Da qui alcune domande sulla reale efficacia di questa sanzione: chi verificherà se le condizioni previste dalla legge saranno state rispettate? Condizioni a cui, tra l’altro, abbiamo visto è facilissimo ottemperare . Inoltre, chi vorrebbe mai denunciare il medico? Gli infermieri abortisti? Non certo la donna che ha ottenuto ciò che voleva, cioè l’aborto. Un nota bene: della multa alla donna che abortisce di cui parlano  i giornali non c’è traccia nella Relazione.
Infine viene vietata ogni pubblicità pro-aborto nelle cliniche.
Come abbiamo visto nella sostanza nulla è cambiato. Per quale motivo? Perché il principio ispiratore del Ddl è il medesimo sposato da Zapatero: il nascituro non è pienamente riconosciuto come soggetto di diritto. Infatti nella “Relazione sul progetto di legge sulla tutela della vita del nascituro” tanto per tranquillizzare tutti sul fatto che niente di radicalmente nuovo è stato inserito nel Ddl così si scrive: il progetto di legge “sottolinea che la protezione della vita del ‘nascituro’ non ha carattere assoluto se entra in conflitto con la vita e la dignità della donna che sono più importanti”. Tradotto: ci sono persone di serie A e persone di serie B. Più avanti poi si legge: “E’ pienamente garantita l’attenzione alla donna che vede la necessità di interrompere la gravidanza in ogni caso dato che la prestazione per l’interruzione della gravidanza nei casi depenalizzati resteranno coperti dal portafoglio comune di base dei servizi sanitari del Sistema Nazionale della Salute”. Il principio cardine rimane la sovrana autodeterminazione della donna.
Il Partito Popolare (PP) di Rajoy allora va nella stessa direzione del Partito Socialista Operaio Spagnolo (PSOE) di Zapatero ma solo più lentamente, come ha acutamente evidenziato il giornalista Carlos Esteban su La Gaceta: “Se un giorno il PSOE difenderà il cannibalismo, il PP direbbe che mangiare le braccia e le gambe di qualcuno andrebbe bene, ma non spingiamoci oltre”. Sempre Esteban poi fa un’analisi di quello che sta accadendo in Spagna, che potrebbe essere applicata anche alla nostra legge 194: quando la legge sull’aborto del 1985 fu approvata, i partiti conservatori la osteggiarono e i progressisti invece la difesero con quegli stessi argomenti che oggi i conservatori usano per difendere l’attuale Ddl che mima quella normativa del 1985 tanto combattuta da loro stessi una trentina di anni fa.


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Nozze gay
Matrimoni gay, se i giudici rieducano il popolo
di Massimo Introvigne

Una settimana dopo la storica sentenza di un tribunale federale che liberalizza la poligamia nello Stato americano dello Utah – dove i mormoni, la maggioranza della popolazione, sono stati poligami fino al 1890 e ancora oggi alcuni gruppi scismatici, condannati dalla Chiesa Mormone maggioritaria, mantengono la pratica – è arrivata il 20 dicembre 2013, sempre nello Utah, un’altra sentenza che impone agli ufficiali di stato civile di celebrare «matrimoni» omosessuali. La sentenza ha effetto immediato: sabato nelle diverse contee dello Stato persone dello stesso sesso hanno cominciato a «sposarsi». Il giorno prima, il 19 dicembre, la Corte Suprema statale del New Mexico aveva emesso un’analoga sentenza, dichiarando incostituzionale il rifiuto delle contee dello Stato di rilasciare licenze a coppie dello stesso sesso che intendono contrarre «matrimonio». E anche qui i gay hanno subito dato il via ai «matrimoni», orchestrando eventi che hanno ottenuto notevole eco sui media locali e anche in Italia su «Repubblica», che peraltro è incorsa in un curioso incidente confondendo il New Mexico, uno Stato degli Stati Uniti, con il Messico, dove il «matrimonio» omosessuale è stato peraltro introdotto nella capitale, Città del Messico, nel 2009 e nello Stato di Quintana Roo nel 2011.
Con Utah e New Mexico, diciotto dei cinquanta Stati degli Stati Uniti hanno introdotto il «matrimonio» omosessuale, insieme al Distretto di Columbia – che comprende la capitale Washington – e a otto giurisdizioni tribali che esercitano la loro autorità su riserve indiane. La sentenza della Corte Suprema di Washington del 26 giugno 2013 nel caso «United States vs Windsor» ha dichiarato incostituzionale l’interpretazione a livello federale della nozione di «matrimonio» come riferita solo a un uomo e a una donna, ma a rigore non ha obbligato i singoli Stati a introdurre il «matrimonio» omosessuale nella loro legislazione. Tuttavia lo stesso giorno la Corte Suprema nel caso parallelo «Hollingworth vs Perry» ha annullato come incostituzionale il referendum del 2008 con cui gli elettori della California avevano rifiutato il «matrimonio» omosessuale. Anche in quel caso, i «matrimoni» tra persone dello stesso sesso sono iniziati in California a poche ore dalla sentenza.
Le due sentenze del New Mexico e dello Utah sono diverse. Nel New Mexico la tecnica usata dagli attivisti favorevoli al «matrimonio» gay è stata quella di trovare ufficiali di stato civile disposti a disubbidire alla legge in vigore e celebrare «matrimoni» fra persone dello stesso sesso. Quando i loro superiori hanno cercato di punirli, hanno fatto loro causa e sollevato la questione della costituzionalità (statale) della legge del New Mexico che considerava matrimonio solo quello fra un uomo e una donna, determinando la decisione della Corte Suprema dello Stato che l’ha dichiarata incostituzionale.

Si tratta di una strategia che gli attivisti LGBT hanno tentato di usare anche in altri Paesi, e che l’episodio del New Mexico potrebbe rilanciare. Nel 2010 a Torino l’allora sindaco Sergio Chiamparino (PD) «sposò» due lesbiche – sostenendo poi che si trattava di un gesto puramente «simbolico» – e le organizzazioni LGBT diedero il via alla campagna «Mille Chiamparino», incitando i sindaci a violare la legge e a «sposare» coppie dello stesso sesso, per poi farsi incriminare e sperare in un intervento dei giudici che avrebbe introdotto anche in Italia il «matrimonio» omosessuale per via giudiziaria. Ma nessun giudice perseguì Chiamparino, né si trovarono altri sindaci avventurosi, e la campagna morì lì. I giudici del New Mexico rischiano ora d’indurre qualcuno a riprenderla.
Lo Utah è uno degli Stati americani dove si sono celebrati referendum sulla questione del «matrimonio» omosessuale. Nel 2004 una solida maggioranza del 65,8% votò per affermare che il matrimonio è solo fra un uomo e una donna. In trenta Stati dei cinquanta che compongono gli Stati Uniti gli elettori si sono espressi nello stesso senso – compresa la California, dov’è nato il movimento LGBT – mentre solo nel Maryland e nel Maine nel 2012, sulla scia della vittoriosa campagna elettorale di Obama e con referendum celebrati lo stesso giorno delle elezioni presidenziali, gli elettori hanno votato per l’introduzione del «matrimonio» omosessuale. Nonostante questi «gol della bandiera» realizzati a fine partita, i sostenitori dei «matrimoni» omosessuali negli Stati Uniti hanno perso i referendum con un risultato per loro imbarazzante: trenta a due.
La sentenza dello Utah è figlia di quella della Corte Suprema federale sulla California. Infatti – a differenza della decisione del New Mexico, uno Stato dove non erano stati celebrati referendum – nello Utah il giudice federale se l’è presa direttamente con il referendum del 2004, annullandone nove anni dopo i risultati. La sentenza è particolarmente interessante e inquietante perché ribadisce il diritto – che secondo la decisione è anche un dovere – dei giudici di «rieducare» gli elettori quando sbagliano, non tenendo alcun conto della volontà popolare e imponendo loro tesi «politicamente corrette» anche quando la maggioranza le rifiuta. Non si tratta più di giustizia, ma – per usare un’espressione di Benedetto XVI – di tecnocrazia. L’elettore vota bene? Il giudice lo premia. L’elettore sbaglia? Niente paura, il giudice illuminista – espressione di un’élite tecnocratica, che ne sa di più del popolo ignorante – lo corregge, lo bastona e fa anche pagare allo Stato – cioè ai contribuenti, dunque agli stessi elettori – le ingenti spese della pluriennale causa.
A prima vista le due sentenze che in una settimana hanno cambiato la storia dello Utah – una legalizzando la poligamia e la seconda introducendo il «matrimonio» gay – vanno nello stesso senso. Entrambe negano che l’unione che lo Stato considera lecita e produttiva di effetti giuridici sia solo quello fra un uomo e una donna. C’è però una differenza fondamentale. La sentenza sulla poligamia sostiene che il costume è cambiato e che ormai la maggioranza dei cittadini non è più scandalizzata dalla poligamia. La sentenza sugli omosessuali afferma precisamente il contrario. I giudici sanno perfettamente che non solo nel 2004, quando fu celebrato il referendum, ma anche oggi, nel 2013, la grande maggioranza dei cittadini dello Utah è contraria al «matrimonio» omosessuale. Il tribunale conosceva i sondaggi, unanimi, e conosceva anche l’opinione della Chiesa Mormone, di cui si dichiara parte – stando all’ultimo censimento, del 2010 – il 62% della popolazione dello Utah, che è risolutamente contraria al «matrimonio» omosessuale e ora ha energicamente protestato contro la sentenza. Per inciso, la Chiesa Mormone è contraria anche alla sentenza sulla poligamia, perché considera coloro che la praticano «eretici» ancora renitenti, dopo decenni, ad accettare la riforma del 1890 con cui la stessa Chiesa ha cessato la pratica dei matrimoni poligami.
Ma l’opinione della maggioranza – che ha spinto lo Stato dello Utah a fare appello, e numerosi ufficiali di stato civile a rifiutarsi di applicare la sentenza, rischiando però il carcere – secondo i giudici è irrilevante. Quella che conta è l’opinione «giusta», non l’opinione maggioritaria. La tecnocrazia dei giudici si sostituisce alla democrazia: o, se si preferisce, quando si tratta di «diritti» degli omosessuali la democrazia è sospesa. È una deriva totalitaria, che purtroppo non è all’opera solo nello Utah.

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Con il "metodo Barilla" si tacitano i cattolici irlandesi
di Massimo Introvigne


In Irlanda nel 2015 si terrà il referendum per introdurre il «matrimonio» omosessuale, e il governo è già sceso in campo per invitare gli irlandesi a votare a favore, per sentirsi – così recita la propaganda – «più europei». Oltre alla carota un po’ andata a male dell’Europa, si comincia a usare però anche il bastone. L’incredibile episodio che è andato in scena questo mese all’Università Nazionale dell’Irlanda, a Galway, mostra esattamente come funziona la macchina brutale dell’intimidazione.
Courage International è un’organizzazione cattolica riconosciuta sia a livello internazionale sia da diverse Conferenze Episcopali, che promuove un apostolato per le persone omosessuali cui propone di vivere in castità richiamandosi esplicitamente al n. 2359 del «Catechismo della Chiesa Cattolica»: «Le persone omosessuali sono chiamate alla castità. Attraverso le virtù della padronanza di sé, educatrici della libertà interiore, mediante il sostegno, talvolta, di un'amicizia disinteressata, con la preghiera e la grazia sacramentale, possono e devono, gradatamente e risolutamente, avvicinarsi alla perfezione cristiana». L’organizzazione propone un itinerario verso la castità attraverso l’amicizia e la preghiera. Dichiaratamente, non s’interessa invece alle cosiddette «terapie riparative» né ai problemi relativi alla natura e alla genesi dell’omosessualità.
La Legione di Maria è un movimento cattolico fondato negli anni 1920 in Irlanda, che ha oltre due milioni di membri in Irlanda ed è da decenni una componente di fondamentale importanza del cattolicesimo irlandese.
All’Università Nazionale dell’Irlanda nello scorso mese di novembre è stata lanciata una campagna. «Purity matters», «La purezza è importante», patrocinata insieme dal gruppo universitario della Legione di Maria e da Courage International, dove si proponeva alle persone omosessuali l’itinerario di preghiera e amicizia di Courage verso «una vita di castità», con lo slogan «Sono un figlio di Dio: non chiamatemi gay». I poster spiegavano il significato dello slogan: «andare al di là dei confini dell’etichetta omosessuale verso una più completa identità in Cristo».
Subito si è scatenato un putiferio, che ha coinvolto la stampa nazionale irlandese ed esponenti del governo, fino a quando l’Università Nazionale non solo ha vietato il manifesto e ha fatto rimuovere quelli esposti nelle sue sedi, ma ha sospeso ogni attività della Legione di Maria nel campus «con effetto immediato». Il comunicato menziona anche non meglio precisate «leggi europee», che impedirebbero campagne di questo genere in quanto omofobe.
Non basta. Siccome il «metodo Barilla», ormai applicato in tutta Europa, prevede non solo che il reprobo sia punito ma che «si converta» e chieda scusa, la (disciolta) branca studentesca della Legione di Maria dell’Università Nazionale ha dovuto pubblicare un comunicato di scuse. La Legione di Maria nazionale ha emesso a sua volta un comunicato dove afferma semplicemente di «non sapere nulla» della vicenda e «di non essere stata contattata» dalla branca universitaria a proposito della campagna. Il portavoce del vescovo di Galway, dove si trova l’università, ha dichiarato che si tratta di questioni che riguardano la Legione di Maria e non la diocesi, che «l’appello a vivere una vita casta è parte dell’insegnamento cristiano» ma che lo slogan «Sono un figlio di Dio, non chiamatemi gay» è offensivo e non andava usato.
Paradossalmente, non sostenuta dal clero e neppure dai suoi stessi dirigenti, la Legione di Maria dell’Università Nazionale è stata difesa dall’influente organizzazione laica britannica per la libertà di espressione Index of Free Speech, il cui dirigente Padraig Reidy scrivendo sul Telegraph ha protestato perché «un messaggio non violento e non intimidatorio che espone la posizione cattolica ortodossa è stato bandito da un campus universitario», violando «il principio fondamentale della libertà di parola».
È sempre sconsigliabile fare i martiri con il sangue degli altri e, come la nostra testata ha a suo tempo documentato, il clero e il mondo cattolico irlandese vivono una condizione molto difficile a causa delle colpe di alcuni sacerdoti, responsabili di alcuni fra i più gravi casi di pedofilia che si siano verificati su scala internazionale, e delle improprie generalizzazioni della stampa e del governo, che – profittando dello scandalo, purtroppo reale, dei preti pedofili – cercano di regolare antichi conti con una Chiesa che appare spesso stordita dai tanti colpi ricevuti e incapace di difendersi.
Occorre però che tutti difendano – «leggi europee» o no – il diritto dei cattolici a diffondere la loro dottrina in tema di omosessualità, che è quella contenuta nel «Catechismo della Chiesa Cattolica», che Papa Francesco ci assicura essere «lo strumento fondamentale per quell’atto unitario con cui la Chiesa comunica il contenuto intero della fede, “tutto ciò che essa è, tutto ciò che essa crede”» (enc. «Lumen fidei», n. 46). In Italia la campagna dell’Arcigay sull’omofobia «Spegniamo l’odio», finanziata con fondi del Consiglio d’Europa, presenta uno spot con frasi «omofobe» che la legge in discussione in Senato dovrebbe trasformare in reati penali, tra cui una dell’avvocato Giancarlo Cerrelli, vice-presidente dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani, secondo cui «l’omosessualità in realtà è un disagio». Si tratta, ancora una volta, di una parafrasi del «Catechismo» che al n. 2358 afferma che «questa inclinazione, oggettivamente disordinata, costituisce per la maggior parte di loro [omosessuali] una prova». Una «prova» è certamente un disagio. E le persone omosessuali, per superare il disagio, dallo stesso «Catechismo» sono «chiamate alla castità».
Coloro che, in Irlanda come in Italia, vogliono «spegnere» le voci che ripetono il «Catechismo» violano gravemente la libertà religiosa. Se un clero intimidito dai bastoni del «metodo Barilla» non se la sente di protestare, anzi chiede scusa, noi laici rifiutiamo di farci imbavagliare. Non chiediamo scusa a nessuno, e ripetiamo con il «Catechismo» (n. 2357) che «gli atti di omosessualità sono intrinsecamente disordinati. Sono contrari alla legge naturale. Precludono all'atto sessuale il dono della vita. Non sono il frutto di una vera complementarità affettiva e sessuale. In nessun caso possono essere approvati».
Il documento preparatorio per il Sinodo sulla Famiglia del 2014 – proprio quello del fin troppo famoso «questionario» –, fatto inviare da Papa Francesco a tutti i vescovi del mondo, afferma a proposito degli articoli del «Catechismo» che abbiamo appena citato che «l’attenta lettura di queste parti del “Catechismo” procura una comprensione aggiornata della dottrina della fede a sostegno dell’azione della Chiesa davanti alle sfide odierne. La sua pastorale trova ispirazione nella verità del matrimonio visto nel disegno di Dio che ha creato maschio e femmina». Chi diffonde questa «comprensione aggiornata della dottrina della fede […] davanti alle sfide odierne» oggi però in Europa rischia di andare in prigione. E magari di farsi dire da qualche prete che faceva meglio a stare zitto.