martedì 27 ottobre 2015

Comunione e Liberazione: da dove viene


Dal quotidiano La Croce riprendiamo la recensione – probabilmente la più ampia uscita fino ad oggi – di Emiliano Fumaneri (nella foto) all’ultimo volume di Massimo Borghesi su don Luigi Giussani. Condividendo pienamente quanto la testata scrive nell’occhiello: «Al lento ma reale dischiudersi di un dibattito franco nel mondo cattolico contribuiscono anche le opere di storici e intellettuali che, a vario titolo, ripercorrono questo o quel tratto di corrente ecclesiale. Presentiamo qui un’opera di Massimo Borghesi, che legge Cl alla luce di Giussani e viceversa». Un dialogo necessario, favorito anche da letture puntuali come quella di Fumaneri, che ringraziamo anche per avere incluso il link della nostra associazione nel blog “Ritorno al reale”.

La Croce Quotidiano, giovedì 24 settembre, Comunione e Liberazione: da dove viene (E. Fumaneri)

Sono trascorsi ormai dieci anni dalla morte di Luigi Giussani (1922-2005), sacerdote, teologo e fondatore del movimento di Comunione e Liberazione. In occasione del decennale della scomparsa del sacerdote brianzolo è da poco apparso un libro sul suo pensiero: “Luigi Giussani. Conoscenza amorosa ed esperienza del vero. Un itinerario moderno”. Autore è il filosofo Massimo Borghesi, ordinario di filosofia morale a Perugia. Ottimo conoscitore di Guardini, Del Noce e della filosofia tedesca, Borghesi è anche autore di pregevoli studi nel campo della gnosi, della secolarizzazione post-cristiana e della teologia politica.
Lo studio di Borghesi si affianca idealmente alla poderosa biografia di Alberto Savorana (“Vita di don Giussani”), alla storia di Cielle scritta in tre volumi da Massimo Camisasca e all’ormai datata ricognizione sociologica di Salvatore Abbruzzese (“Comunione e Liberazione. Identità religiosa e disincanto laico”, del 1991). Il libro del filosofo perugino integra la biografia analizzando con sistematicità il pensiero di don Giussani, avendo cura di non svincolarlo dalla storia e dalla concreta esperienza del sacerdote lombardo.
Lo studio ripercorre l’itinerario intellettuale di Giussani, a cominciare dalla prima formazione teologica presso il Seminario di Venegono. Il tomismo di Venegono non è l’unica fonte del suo pensiero teologico e filosofico. Altrettanto fondamentale, dice Borghesi, è l’esperienza educativa maturata a contatto col movimento giovanile da lui fondato, Gioventù Studentesca (GS), che fornirà l’ossatura della futura esperienza di Comunione e Liberazione (CL). Un percorso per certi versi analogo a quello di un altro grande educatore del secolo passato: il sacerdote italo-germanico Romano Guardini, il cui pensiero si sviluppa in ampia misura a seguito delle sollecitazioni teorico-pratiche di un movimento giovanile come il Quickborn cristiano degli anni ’20.
Dai suoi insegnanti del seminario Luigi Giussani assimila un tomismo “aperto”, fortemente caratterizzato in chiave cristocentrica. Si nutre poi di letture destinate a influenzarlo profondamente. Tra tutte primeggia l’opera di John Henry Newman, che lo orienta in direzione di una teologia “dinamica” nel senso migliore del termine, per la quale cioè la dottrina cristiana non è uno statico monolite ma è capace di svilupparsi in organica armonia con la tradizione. Trovano spazio nel suo percorso anche una serie di letture sulla figura di Cristo, come le meditazioni di Romano Guardini e Karl Adam sulla figura del Signore. A queste si aggiungono testi di ecclesiologia come “La simbolica” di Johann Adam Möhler, “Ortodossia” di Gilbert Keith Chesterton e altri testi del duo tedesco Adam-Guardini.
Allo studio della teologia si accompagnano gli studi letterari, coltivati fin dai tempi del liceo, in particolare la lettura di Giacomo Leopardi, che contribuiscono a dare ulteriore spessore a una personalità vivace e sensibile. Le domande di Leopardi diventano quelle del giovane seminarista, tanto che costituiranno il nucleo di ciò che successivamente definirà “senso religioso”
Si plasma così una personalità dal forte timbro “esistenziale”, una eccezione significativa – e scomoda – all’interno del milieu cattolico degli anni ’40-’50, teso ad accentuare piuttosto il momento “oggettivo” quasi fino a dissolvere la dimensione personale. Per Giussani, viceversa, “la” Verità deve diventare anche la “mia” verità.
Giussani elabora perciò una antropologia religiosa attenta al momento soggettivo, che ripensa gli interrogativi di Leopardi alla luce di una dialettica dello spirito simile a quella messa a punto da Maurice Blondel ne “L’Action”, opportunamente depurata dagli eccessi volontaristici e dal monismo teologico tra naturale e soprannaturale.
Nel 1957, ispirato dalla lettera pastorale “Sul senso religioso” del cardinale Giovanni Battista Montini, allora arcivescovo di Milano, pubblica la prima e più breve versione de “Il senso religioso”. L’uomo, afferma Giussani, è naturalmente orientato dalla ragione e dal cuore ad abbracciare il senso ultimo dell’esistenza, quell’Essere divino dal quale scaturiscono tutte le cose, e che è l’anima della sua intelligenza e della sua affezione. Nell’affermare che l’uomo è strutturalmente aperto al Mistero, Giussani si discosta però da certo intellettualismo teologico in voga. Per lui si diviene cristiani in forza di un incontro e non primariamente al termine di una speculazione.
Senso religioso, incontro e esperienza: sono le tre categorie fondamentali del pensiero giussaniano. Come per Guardini, la realtà è conosciuta all’interno di una tensione tra poli opposti. Il «senso religioso» corrisponde alla domanda religiosa scritta nel cuore umano, l’«incontro» con Cristo è concepito come «Fatto» o «Avvenimento». Il punto di sintesi tra la domanda religiosa e la risposta che si traduce nell’incontro sta nel concetto di «esperienza». Non ogni esperienza è “vera” esperienza. Il solo sperimentare, il voler provare per provare non porta che a incubare scetticismo.
L’esperienza autentica si dà solo come verifica della corrispondenza tra i criteri del cuore (dati da un plesso di esigenze che costituisce la natura più vera e profonda dell’io umano: verità, felicità, giustizia, amore) e il reale incontrato. Questa concezione non ha nulla a che vedere con l’esperienza come “Erlebnis” tipica dello storicismo tedesco, cioè un’esperienza soggettiva, psicologistica, emotiva e irrazionale.
Una realtà, scrive Giussani, «diventa esperienza quando il provare è nel contempo giudicato dai criteri del cuore: se è veramente vero, se è veramente bello, se è veramente buono, se è veramente felice. In base a queste domande ultime del cuore, a questi criteri ultimi del cuore, l’uomo governa la sua vita».
Si tratta di una sintesi tra modernità e tradizione che riconosce al soggetto e alla libertà il loro giusto valore e tiene assieme l’essere e l’avvenimento, l’esperienziale e l’ontologico. Se, come dice il sacerdote brianzolo, «ii cammino al vero è un’esperienza», allora la verità mi si può manifestare come tale solo se in qualche modo mi corrisponde, solo se trova una corrispondenza con le esigenze più intime e profonde della natura umana.
Il teologo di Venegono tiene assieme il momento soggettivo e quello oggettivo collegandoli però come fa Guardini in una tensione “polare”. Così facendo non abbandona il concetto di esperienza – coma accade a certo tradizionalismo sclerotizzato – ma ne “allarga” i confini. «Una reale esperienza – commenta Borghesi – implica che laratio e l’affectus non siano disgiunti, che non siano contrapposti come accade nel razionalismo o nell’irrazionalismo romantico».
Il libro del filosofo perugino rende giustizia alla fecondità del pensiero di Giussani, a cominciare dalla sua originale rilettura esistenziale del tomismo, sfrondandolo dalle accuse provenienti dallo schieramento “tradizionalista”, che a torto vede nel sacerdote di Desio la riproposizione della vecchia eresia modernista. La sintesi giussaniana, a dispetto dei suoi critici superficiali, si inserisce invece nel cuore stesso del pensiero contemporaneo. E l’originalità – che attesta il genio religioso di don Giussani – sta nel fatto che non si tratta di un teologo o di un filosofo di professione, ma di un educatore che si confronta criticamente con un’esperienza viva e in atto, portata avanti allo scopo di introdurre il “Fatto cristiano” nell’orizzonte proprio del mondo contemporaneo.
Di grande interesse è il capitolo, il quarto, che Borghesi dedica alla vexata quaestiodell’«integrismo» di Cielle (imputazione speculare e contraria a quella di modernismo). In più di una occasione Giussani respinge questa accusa. Nessuno pretende, dice, di derivare in maniera quasi deduttiva dal Vangelo formule e progetti per la società, la cultura e la politica. Né vanno considerate superflue le cosiddette «mediazioni».
Ma Giussani non è un leader politico, è prima di tutto un educatore. E anche il movimento che ha fondato non può identificarsi come una forza politica, e non invece per quella che è la sua natura: «una esperienza ecclesiale, un luogo di educazione e di pratica della fede». CL perciò, nella visione di Giussani, deve sforzarsi di distinguere tra il movimento e la responsabilità personale dei ciellini che si impegnano in politica senza però coinvolgere direttamente CL (e la Chiesa) in quanto tale. Allo stesso modo un conto è il movimento, un altro le opere nate da persone del movimento.
Non bisogna dimenticare la genesi di GS. Negli anni ’50 don Giussani si è trovato di fronte a una situazione in cui «la fede si difende con l’organizzazione». Questa frase di Massimo Camisasca illumina appieno la società di quel tempo, un mondo in cui solo all’apparenza la Chiesa costituiva una presenza forte e radicata. La realtà effettiva era un’altra: le fasce più adulte della popolazione erano sì mobilitate nelle grandi manifestazioni di massa, ma senza un coinvolgimento personale e profondo. Anche l’associazionismo cattolico si limitava a coltivare la presenza visibile nell’organismo ecclesiale senza curarsi a sufficienza della presenza invisibile di Cristo, in interiore homine.
La vita di fede si riduceva a una precettistica che insisteva su due comandamenti (il sesto e il nono) e poco più. Nelle scuole e nelle università mancava una presenza culturale viva e significativa (che è ben diversa da una presenza “numerica”). Di conseguenza i cuori e le menti della gioventù erano in balia di una intellighenzja anticattolica. Giussani avvertì con chiarezza profetica che tra questa gioventù si annidavano coloro che avrebbero portato avanti le istanze distruttive del ‘68. La sua intuizione fu questa: la risposta stava solo in un’esperienza profonda della presenza viva del Signore, capace di incarnare questo incontro nell’esistenza. Alla fede nell’organizzazione Giussani voleva sostituire la responsabilità della persona.
Ogni organizzazione, pure necessaria, deve essere funzionale alla possibilità di questo incontro-avvenimento. Il sacerdote nell’intervista con Robi Ronza su “Il movimento di Comunione e Liberazione” afferma con chiarezza che CL è solo accidentalmente un movimento con una sua struttura organizzativa. Comunione e Liberazione è prima di tutto uno stile di presenza cristiana, un tentativo di richiamare all’essenziale, di tornare all’Origine, a Cristo, alla Fonte da cui tutto trae linfa. Giussani è un riformatore. E sa chi vuole rinnovare le Chiesa deve prima di tutto cominciare da se stesso. «Non è CL che ci sta a cuore, ma la Chiesa». Il senso di CL è quello di chi «vorrebbe offrire alla Chiesa un’esperienza di ricupero e di sviluppo della fede nei suoi aspetti elementari ed essenziali». In questa prospettiva di rinnovamento Giussani si spinge a dire «che il nostro ideale sarebbe quello di scomparire come nome e come organizzazione, purché realmente tutta la chiarezza e la vivacità di certi richiami che noi sentiamo, di certe evidenze che noi abbiamo, di certo metodo applicativo fossero divenuti ovvi nella condizione della vita ecclesiastica».
All’integralismo, che appiattisce l’esperienza cristiana riducendola a militanza socio-politica, Giussani oppone la categoria della «presenza», cioè la testimonianza personale, che non va però intesa nel senso di disimpegno o di fuga saeculi. Testimonianza e impegno non sono in competizione. È quanto hanno insegnato i papi moderni, almeno da Pio XII in poi: i due piani d’azione, naturale e soprannaturale, non sono separati. Il primo è piuttosto la preparazione del secondo. E il cristiano non deve isolarsi in una “cittadella cattolica” omogenea, ma accettare di cooperare con i non-cattolici per il bene comune della società, perfino senza avere lo scopo diretto di convertire.
Il cristiano è uno in tutto ciò che fa. Non si tratta dunque di propugnare un dualismo tra l’azione terrena e l’azione soprannaturale, ma di distinguere gli ambiti, lo spirituale e il temporale, all’interno dell’unità della fede. Distinguere non indica separazione o opposizione, ma la consapevolezza chiara di ciò che appartiene a Cesare e di ciò che è proprio di Dio. È sbagliato tanto uno spiritualismo che, limitandosi a godere in privato delle proprie delizie interiori, lasci andare alla deriva la città terrena, quanto l’integralismo che risolve l’esperienza cristiana nella lotta politica.
Occorre tuttavia impegnarsi per valori giusti senza operare una selezione, come capita ad alcuni settori del cristianesimo che si scoprono conservatori sul piano della famiglia e della vita e liberal su quello sociale ed economico. E viceversa, come quei cristiani che si curano solo delle tematiche socio-economiche trascurando la difesa della famiglia e della vita.
In che misura l’attuale organizzazione di CL saprà essere all’altezza del carisma e dell’ispirazione originali del suo fondatore sono l’interrogativo e la sfida, affascinanti e impegnativi, dell’oggi. E ben vengano allora sollecitazioni profonde e ragionate come quelle di Massimo Borghesi.
Emiliano Fumaneri