giovedì 1 marzo 2018

Civitas confusionis.



La partecipazione dei fedeli alle discussioni dottrinali nel cristianesimo della tarda antichità

(Giovanni Cerro) Uomini nati ieri e il giorno innanzi, persone dedite a vili attività, teologi improvvisati che dogmatizzano, forse schiavi che hanno conosciuto la frusta e che sono fuggiti dal lavoro servile, tutti loro si vantano di filosofare su cose incomprensibili. Voi certo non ignorate di chi parlo. Dappertutto, la città brulica di gente di tal fatta: ne sono piene le strade, le piazze, i viali, i quartieri, le botteghe dei sarti, dei cambiamonete e dei venditori di spezie. Provate a farvi cambiare del denaro e vi intratterranno sul generato e sull’ingenerato. Chiedete il prezzo del pane e vi risponderanno che il Padre è il più grande e che il Figlio è inferiore. Informatevi se il bagno è pronto e vi mostreranno che il Figlio è stato creato dal nulla».
Queste parole, tratte da un’omelia pronunciata nel 383 a Costantinopoli da Gregorio di Nissa, hanno posto fin dai tempi di Edward Gibbon e della sua Storia e decadenza dell’impero romano un problema storiografico di vasta portata: le dispute teologiche interne al cristianesimo tardoantico furono soltanto una discussione tra dotti o invece ebbero un riflesso nella vita quotidiana delle comunità? È a questa domanda che cerca di rispondere Michel-Yves Perrin, directeur d’études all’École Pratique des Hautes Études di Parigi e specialista di storia cristiana antica, nel suo bel libro Civitas confusionis. De la participation des fidèles aux controverses doctrinales dans l’Antiquité tardive (Paris, Nuvis, 2017, pagine 405, euro 27). L’analisi si concentra sul periodo che va dall’inizio del terzo secolo al primo trentennio del quinto, attraverso la lettura approfondita di un numero davvero imponente di documenti e il richiamo costante, dal punto di vista metodologico, alla tradizione storiografica italiana (Cantimori, Mazzarino e Simonetti) e francese (Febvre, Le Roy Ladurie e Veyne).
Uno dei presupposti dell’indagine di Perrin è che le controversie dottrinali non possono essere comprese fino in fondo se si prescinde dalla dimensione eminentemente orale che esse ebbero. Dimensione la cui entità talvolta sfugge anche agli stessi studiosi, i quali prestano scarsa attenzione all’esame di alcune fonti, considerate marginali, o sottovalutano gli stretti rapporti esistenti nel mondo tardoantico tra oralità e scrittura. Ecco perciò che l’interesse dell’autore si concentra soprattutto sulle differenti strategie discorsive (le «arti della persuasione» come le definisce), a partire dalla produzione omiletica, di cui una parte significativa era dedicata alle questioni dottrinali. Dal punto di vista meramente quantitativo, si può calcolare che ciò valga per almeno un quarto dei sermoni di Agostino giunti fino a noi, che non presentano argomentazioni differenti da quelle utilizzate nella trattatistica contro donatisti e pelagiani. 
È curioso inoltre notare che Pelagio sia nominato esplicitamente per la prima volta proprio nel corso di una predica tenuta a Ippona tra la fine di maggio e l’inizio di giugno del 416. Fino ad allora, negli scritti De peccatorum meritis et remissione e nel De natura et gratia, Agostino aveva soltanto evocato le dottrine del suo avversario senza mai citarlo. Il contesto in cui i sermoni, non solo quelli agostiniani, erano pronunciati ci è oggi pressoché sconosciuto, ma le indicazioni presenti nei testi o nei titoli permettono comunque allo storico di ipotizzare che molti di essi fossero associati a celebrazioni in onore di santi e martiri (durante le quali venivano anche letti testi agiografici, che non di rado facevano riferimento a polemiche teologiche) o cerimonie funebri. Si trattava di riunioni che avvenivano in chiese o spazi sacri di varia natura e a cui potevano prendere parte fasce della popolazione tradizionalmente escluse dall’accesso alla cultura. 
Accanto alla predicazione, devono poi essere considerate le dispute pubbliche, che si svolgevano in concomitanza di assemblee e sinodi. Nel III secolo le fonti parlano di fedeli che assistono alle deliberazioni conciliari e che possono così ricoprire il ruolo di testimoni nella disapprovazione espressa verso posizioni giudicate eterodosse. Un documento prezioso in tal senso è rappresentato dal resoconto tachigrafico di una disputa che ebbe luogo tra il 244 e il 249 e che vide opposti Origene e il vescovo Eraclide a proposito della relazione tra il Padre e il Figlio: nel papiro su cui è tramandato il testo, scoperto nel 1941 a Tura in Egitto, si ricorda che il dibattito avvenne alla presenza non solo dei vescovi, ma di «tutta la Chiesa che ascolta». L’espressione fa pensare quindi a un coinvolgimento largo dei fedeli. 
Non bisogna dimenticare che i numerosi testi redatti nel periodo preso in esame da Perrin erano spesso oggetto di letture private, a cui potevano assistere servitori e schiavi. Non si tratta di una mera supposizione se anche Agostino in una delle sue celebri epistole si premura di mettere in guardia la nobildonna Giuliana, vedova di un senatore, affinché il trattato pelagiano rivolto alla figlia Demetriade non insinui sentimenti «pericolosi» non solo nell’animo loro, ma anche in quello dei loro domestici e delle loro domestiche. Alla lettura pubblica o comunque a una circolazione più ampia erano destinate le lettere episcopali, secondo un’usanza già attestata negli scritti paolini. In una lettera indirizzata al tribuno e notaio Marcellino, Agostino si raccomanda che gli atti della conferenza di Cartagine del 411, durante la quale furono confutate le tesi donatiste, siano affissi nella locale chiesa di Theoprepia o in un luogo più frequentato della città così che tutti ne vengano a conoscenza. Allo stesso modo, in una lettera festale del 338 il vescovo di Alessandria Atanasio fa riferimento alla crisi ariana e alle difficoltà che ne derivano. Comunicazioni di questo tipo, il cui scopo principale era annunciare la data stabilita di anno in anno per la Pasqua, erano rivolte a tutte chiese d’Egitto. La loro diffusione era perciò piuttosto capillare.
Probabilmente non sapremo mai se le parole di Gregorio di Nissa citate all’inizio rispondessero a un modello retorico o descrivessero in modo puntuale la realtà contemporanea, ma le fonti di cui disponiamo lasciano pensare che tra III secolo le controversie dottrinali non fossero una prerogativa esclusiva del clero. Vi parteciparono anche quelli che oggi chiameremmo con un termine improprio i “laici”, a cui talvolta era riconosciuta una competenza equivalente o addirittura superiore rispetto ai religiosi. Dalla lettura del libro di Perrin — che meriterebbe di essere al più presto tradotto in italiano — emerge come sia molto complesso affermare quali strati sociali fossero realmente coinvolti nelle dispute. Altrettanto problematico è stabilire i meccanismi e le forme in cui si espresse tale partecipazione. 
Quel che è certo è che il confronto tra opinioni diverse e la capacità di gestire il dissenso è un dato strutturale del mondo cristiano della tarda antichità e uno degli elementi che contribuirono a definirne l’identità nel corso del tempo.

L'Osservatore Romano