venerdì 23 marzo 2018

Ambrogio e la morte



In una lettera del cardinale Schuster. 

Testi e traduzioni. Pubblichiamo uno stralcio della prolusione — intitolata «“Non temo di morire, perché abbiamo un Signore buono”. Variazioni in una nota espressione di Ambrogio di Milano» — al dies academicus della Classe di studi santambrosiani dell’Accademia Ambrosiana tenuta nel pomeriggio del 20 marzo scorso dal prefetto della Biblioteca apostolica vaticana. Al convegno che ha seguito la solenne inaugurazione, il 21 marzo, erano presenti anche studiosi provenienti da Russia, Repubblica Ceca e Cina, paesi nei quali è già stato avviato un progetto di traduzione delle opere del vescovo di Milano.

(Cesare Pasini) Al dire di Paolino, biografo di sant’Ambrogio, il generale Stilicone, convinto che «sull’Italia sarebbe stata incombente la rovina, una volta morto un così grande uomo» qual era il vescovo di Milano, mandò a lui, gravemente malato, una delegazione di nobili, perché lo invitasse «a chiedere al Signore di prolungargli la vita».
Ambrogio rispose: «Non ho vissuto fra di voi in modo da dovermi vergognare di vivere; né temo di morire, perché abbiamo un Signore buono».
La frase ricompare nella Vita di Agostino di Possidio, con qualche variante minore. Possidio riporta la valutazione positiva di Agostino: questi infatti ne elogiava «la precisione e l’equilibrio», invitando a «comprendere che Ambrogio aveva detto: “Non temo di morire, perché abbiamo un Signore buono”, affinché non si credesse che egli aveva premesso: “Non sono vissuto in modo da vergognarmi di vivere tra voi”, per eccessiva fiducia nella sua condotta senza macchia». Effettivamente la frase esprime bene il pensiero di Ambrogio: l’aspetto di concretezza e di impegno umano nella prima parte e, nella seconda, la gratuità preveniente e sovrabbondante del dono divino, come Agostino aveva sottolineato in particolare nella disputa antipelagiana.
Marco Navoni ha spiegato che, mutando il contesto, la narrazione subì un significativo cambiamento: nel racconto di Paolino, è Stilicone, pur barbaro, che percepisce «il rischio reale di sfaldamento culturale e politico dell’impero» e intuisce «il ruolo fondamentale di riassestamento» che poteva assumere «la religione cattolica, di cui Ambrogio in quel momento era l’esponente più prestigioso»; in quello di Possidio, invece, Stilicone scompare e la delegazione di nobili milanesi si concentra sulle esigenze della Chiesa di Milano che «sarebbe stata privata della predicazione della Parola di Dio e dell’amministrazione dei sacramenti»: preoccupazione nobile, ma scontata e un poco retorica, annota Navoni, in quanto risolvibile con la nomina di un buon successore...
La frase è ugualmente presente nella vita anonima carolingia, scritta nel IX secolo in ambito milanese, nota come Vita e meriti di Ambrogio. L’autore, riprendendo da Paolino, drammatizza l’episodio, trasformando in discorso diretto il pensiero di Stilicone, ritoccandolo e ampliandolo: la preoccupazione che sull’Italia sarebbe stata incombente la rovina, diventa: «insieme con lui perirà l’onore di tutta l’Italia» (anche perché poco prima aveva affermato che «è evidente che in lui si trova la somma di tutte le virtù»).
Inoltre la risposta di Ambrogio si arricchisce di un’aggiunta: «Perciò vi prego, fratelli, di non ostacolare il mio cammino né di sbarrare la mia vita con le vostre lacrime. Non voglio che voi ignoriate che lo stesso Signore Gesù, non molti giorni or sono, si è degnato di visitarmi e di confortarmi». Si percepisce il gusto agiografico dell’autore, che prolunga la narrazione per amplificare l’onore del santo celebrato e inserendo nel discorso pubblico di Ambrogio il racconto dell’episodio riferito da Paolino come confidato al solo Bassano di Lodi che cioè Ambrogio «aveva visto il Signore Gesù venirgli incontro e sorridergli»: dalla fine poesia di uno sguardo d’intesa — Gesù venuto a porgere un delicato sorriso al vescovo morente — a una descrizione meramente prosastica, a giustificare l’invito a non “sbarrargli” il cammino verso il cielo.
Non ci stupiamo che la risposta di Ambrogio sia stata più volte utilizzata in svariati contesti. Intendo riferirmi, in particolare, alla lettera che il cardinale Ildefonso Schuster inviò al cardinale Giovanni Mercati il 15 dicembre 1946 per il suo ottantesimo compleanno. Vi troviamo scritto: «Ringraziamo Iddio, che nel giardino della Chiesa ha piantato un tale albero. I suoi frutti sono copiosi e duraturi. Molte e molte anime se ne nutrono a loro spirituale vantaggio ed a gloria del Signore. Può ripetere con Ambrogio: “Non ita vixi, ut me pudeat vixisse”». Il cardinale Schuster, notiamo, sostituisce l’infinito vivere del testo di Paolino con il passato vixisse.
Quest’ultima forma verbale per quanto ne ho potuto appurare non è presente nelle edizioni critiche recenti né nei loro apparati e neppure in edizioni diffuse come la Patrologia latina. Anzi, la lezione vivere è confermata dalla traduzione greca della Vita Ambrosii di Paolino nei due manoscritti che la tramandano, uno della Bibliotèque nationale di Parigi e l’altro un Sabaita conservato nella Biblioteca Patriarcale di Gerusalemme.
Trovo tuttavia attestato l’utilizzo di vixisse in citazioni della frase in vario modo riferite alla morte cristiana. Elenco le più antiche rinvenute: nel terzo tomo delle Conciones de tempore di Luis de Granada (1585); sul basamento del monumento eretto dal figlio a Thomas Sparke, un ecclesiastico puritano morto a Bletchley (1616); nell’ottavo tomo dei Loci theologici (1610-1622) di Johann Gerhard; fra le parole dette in morte dal gesuita François Coster (1619).
Confesso di aver rinvenuto casualmente queste citazioni girovagando fra i volumi consultabili sul web. Il girovagare mi è servito per accorgermi delle ancor più numerose volte in cui ricorrono le citazioni con vivere. Non ho saputo tuttavia individuare una linea precisa di diffusione della lezione secondaria vixisse, mentre è risultato evidente come la frase, di intenso significato spirituale e di incisiva espressività, abbia potuto diffondersi procedendo oltre le formulazioni di Paolino e di Possidio e creando una molteplicità di varianti grazie anche alla ripetizione a mente e agli adattamenti alle circostanze cui andò soggetta (per un monumento, in bocca a un religioso morente, quale citazione fra i loci teologici o come nutrimento spirituale nelle meditazioni sui novissimi).
Curiosamente, tuttavia, troviamo vixisse (e non vivere) in una fonte classica che può aver influenzato Ambrogio come in altre sue opere ed espressioni. Si tratta delle parole che Cicerone, alla fine del Cato Maior de senectute, pone sulle labbra del protagonista: «Non mi piace lamentarmi della vita (...) e non mi pento d’aver vissuto (me vixisse), poiché ho vissuto (vixi) in modo tale da non ritenermi nato invano».
Ma proprio il contesto del Cato maior fa emergere il motivo che può aver causato l’inserimento dell’infinito passato al posto di quello presente: nel testo di Cicerone, infatti, Catone guarda al passato della propria vita, per un giudizio che desidera sia positivo; invece nel testo di Ambrogio il vescovo guarda verso un futuro ritenuto possibile (e desiderabile dai suoi interlocutori), in base alla valutazione positiva del passato. In quest’ultimo caso il protagonista Ambrogio dice: «Considerando come ho vissuto, dovrei forse vergognarmi di vivere ancora?»; nel primo caso invece Catone, pensando alla sua morte prossima (e non ad altro), dice: «Considerando la mia vita passata, devo forse vergognarmi di come ho vissuto? ho forse vissuto inutilmente?». L’infinito vixisse tende a ripetere due volte lo stesso concetto («considero come ho vissuto devo forse vergognarmi di come ho vissuto?»), a differenza dell’infinito vivere, che invece induce a trarre una conseguenza dopo aver espresso una valutazione («considero la vita passata devo forse vergognarmi di vivere ancora?»).
Ma che senso ha allora vixisse nella citazione di Schuster? Se non vogliamo pensare che abbia usato questa forma senza darvi un senso particolare (o semplicemente seguendo una citazione di quel tipo o citando a memoria) possiamo ritenere che, come lo induceva il contesto dell’ottantesimo compleanno di Mercati, egli intendesse esprimere una valutazione positiva sulla sua già lunga vita, così da poter unire all’augurio anche un sincero apprezzamento al festeggiato. Esplicito o implicito che fosse questo significato, accanto all’elogio per l’impegno operoso di Mercati, non doveva comunque mancare, pur meno sottolineato, un riferimento alla gratuità del dono ricevuto, dal momento che a buon conto ‒ come scriveva all’inizio, era Dio ad aver piantato un tale albero fruttifero nel giardino della Chiesa.

L'Osservatore Romano