venerdì 20 dicembre 2013

Meditazione teologica sul Natale e sul mistero del Dio "diventato carne"


L'Incarnazione di Dio e l'umanizzazione dell'uomo

di R. Cheaib


«Dio divinizza solo ciò che l’uomo ha umanizzato», così amava ripetere il grande gesuita François Varillon riecheggiando la sensibilità profetico teologica del poeta Charles Péguy. L’edificio della vita spirituale non può ergersi sulle macerie dell’umano, e l’Incarnazione di Dio è il migliore monito e memento che spinge a vivere l’umanizzazione autentica come via verso la divinizzazione.
Degli effetti infiniti dell’Incarnazione vogliamo considerare tre aspetti fondamentali: la trasformazione dell’immagine di Dio, la rivalutazione della corporeità e la comprensione della verità dell’umano.
La trasformazione dell’immagine di Dio
Varillon insegnava che l’affermazione «Dio è amore» (1Gv 4,8.16) viene compresa rettamente e nella sua profondità strabiliante quando capiamo che «Dio non è altro che amore». Il teologo soleva rivolgere ai suoi ascoltatori queste domande: Dio è onnipotente? Dio è sapiente? Dio è infinito? E la risposta dopo ogni domanda era: No, Dio è solo amore!
La suo provocazione intendeva portare le persone a riflettere sul fatto che l’onnipotenza di Dio non è l’onnipotenza di un dittatore crudele nel suo strapotere. L’onnipotenza di Dio è solo l’onnipotenza dell’amore. Così anche la sapienza di Dio non è l’acribia di un furbo, di un «genio maligno» per riecheggiare le Meditationes di Descartes. E l’infinito di Dio non è da comprendersi come uno spazio interminabile e noioso come le traversate interminabili di un deserto. La sapienza di Dio è sapienza dell’amore e l’infinito di Dio è solo l’infinito del suo amore senza limiti.
Da qui la conclusione del teologo che verrà ripresa anche da Yves-Marie Congar: «L’amore non è tanto un attributo di Dio, quanto gli attributi di Dio sono attributi dell’amore». Niente come il mistero dell’Incarnazione, della kenosi divina nella carne di Cristo, mostra quanto sono vere queste conclusioni. Dio si è fatto uomo, si è fatto vicino, si è fatto povertà per amore.
La rivalutazione della corporeità
Pare che viviamo in un’epoca che abbia finalmente riscoperto il valore del corpo. Dopo epoche di rifiuto e marginalizzazione frutto di un dualismo platonico tra anima-buona e corpo-prigione-cattivo, il corpo sembra aver riacquisito il suo legittimo posto. Ma è veramente così?
Tanti osservatori attenti non sono d’accordo. Il filosofo Xavier Lacroix, ad esempio, ci fa riflettere sulla natura del corpo che è stato recuperato e ci mostra che è un corpo irreale, a-corporale. Un chiaro esempio è il mondo pubblicitario: ci troviamo dinanzi a corpi senza età, senza peso, leggeri e leggiadri da non somigliare a niente di ciò che incontriamo negli umani e in noi stessi. Sono corpi non vissuti, vitali ma senza segni di vita e per questo senza vita.
Non ci si deve meravigliare allora per la tante malattie esplose riguardo al corpo (anoressia, depressione, insoddisfazione, ecc.). I corpo forgiati dal Photoshop non sono una valorizzazione del corpo, sono un’astrazione che non ha niente da invidiare – in negativo – al disprezzo di un Plotino che si vergognava di avere un corpo, o al Ubermensch di Nietzsche che viene ideato sullo sfondo di una delusione dall’umano.
L’incarnazione di Cristo focalizza l’attenzione sulla vera corporeità, una corporeità che cresce (Lc 2,52), che vive, che si stanca (Gv 4,6), una corporeità inserita in una storia. L’incarnazione invita a un cambio di rotta: se Dio non si è vergognato di questo corpo, allora è un bene, è una realtà positiva. Il tob (bello/buono) del Creatore in Genesi 1, riecheggia attraverso la vita della Parola. La kaloagathìa, la bella bontà della creazione ha ormai il sigillo della carne di Gesù Cristo. La dice in modo bellissimo papa Francesco nell’esortazione Evangelii Gaudium: «Confessare che il Figlio di Dio ha assunto la nostra carne umana significa che ogni persona umana è stata elevata al cuore stesso di Dio» (n. 178). In toni simili la Gaudium et Spes affermava: «Con l’Incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo a ogni uomo» (n. 22).
Il corpo viene valorizzato pienamente come luogo di culto privilegiato, dove il Padre viene adorato in Spirito e Verità. L’incarnazione manifesta la dignità della corporeità: «O non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete da Dio, e che non appartenete a voi stessi?» (1Cor 6,19). Guardando al «Verbo che si è fatto carne» (Gv 1,14) la fede ci dice: è bene essere umano, avere un corpo ed essere un corpo. È bene essere un canto di lode: «Mi hai fatto come un prodigio» (Sal 138,14).
La verità dell’umano
Il beato Giovanni Paolo II ripeteva sovente un’espressione forte della Gaudium et spes: «Chiunque segue Cristo, l'uomo perfetto, diventa anch'egli più uomo» (n. 41). È un pensiero di grande portata antropologica e teologica. Commentando questa frase, Mons. Luis Ladaria, Segretario della Congregazione per la Dottrina della Fede, sottolinea le due sfumature di «hominem perfectum»: Cristo è vero uomo (come recitiamo nel Credo) e Cristo è la perfezione dell’umano. In altre parole, chi vuole vivere in pienezza (cf. Gv 10,10) ha in Cristo il modello perfetto di umanizzazione. Il Vangelo, che è Cristo, non indica solo la via per il Cielo, ma indica e incarna la vita vera da vivere già su questa terra. E proprio indicando la via per essere «magis homo» appiana la via del Cielo.
L’umanizzazione non è il traguardo finale della parabola cristica e cristiana, ma è sicuramente un elemento costitutivo e imprescindibile. E il metro dell’umanizzazione è il Cristo stesso: vero uomo e vero Dio. Da qui si rivela la profonda ricchezza il poema di Lambert Noben «Pourquoi je suis né»:
«Sono nato nudo, dice Dio,
Affinché tu sappia spogliarti di te stesso.
Sono nato povero,
Affinché tu possa considerarmi l'unica ricchezza.
Sono nato in una stalla,
Affinché tu impari a santificare ogni ambiente.
Sono nato debole
Affinché tu non abbia mai paura di me.
Sono nato per amore,
Affinché tu non dubiti mai del mio amore.
Sono nato di notte,
Affinché tu creda che posso illuminare qualsiasi realtà.
Sono nato persona,
Affinché tu non abbia mai a vergognarti di essere te stesso.
Sono nato uomo,
Affinché tu possa essere “dio”.
Sono nato perseguitato,
Affinché tu sappia accettare le difficoltà.
Sono nato nella semplicità,
Affinché tu smetta di essere complicato.
Sono nato nella tua vita, dice Dio,
Per portare tutti alla casa del Padre».

*

«Sia lodate Colui che manifestò la Sua umanità / Come sacramento della sua divinità folgorante // E poi apparse nel Suo creato / nell'immagine di chi mangia e beve // In modo che il Suo creato l’ha potuto vedere / come se dritto negli occhi Lo guardasse». Questi versi, belli in sé, acquisiscono una particolare importanza data l’identità di chi li ha pronunciati. Non è sant’Efrem il Siro, ma è Mansur Al-Hallaj, un mistico musulmano.
Non sono gli unici versi del mistico che fanno riferimento a Gesù come a Dio, e ci fanno pensare a quei «semina Verbi» di cui parla san Giustino. I semi del Verbo presenti in ogni cultura. È difficile cogliere il senso di questi versi enigmatici, ma non è senza fondamento affermare che la coscienza mistica di Al-Hallaj ha sicuramente intuito, nei limiti del possibile, che se Dio è amore (Hobb in arabo), Dio non può che farsi uno con l’amato (habib), con l’umanità. L’amore è una forza unitiva: non è solo un’affermazione teologico-filosofica di Dionigi pseudo-Areopagita; è una coscienza primordiale di ogni creatura che sperimenta un barlume della luce dell’Amore.
È interessante che Al-Hallaj utilizza un termine molto significativo nella fede cristiana, si tratta della parola sacramento (sirr). Semplificando, la teologia insegna che «il sacramento è quella realtà che fa ciò che dice/significa». L’umanità di Cristo è il Sacramento dei sacramenti, il Sacramento primordiale Ursakrament (E. Schillebeeckx). Gesù è «il sacramento dell’incontro con Dio», è segno, strumento, presenza reale, manifestazione, compimento e promessa del Regno di Dio. Gesù è l’autobasileia, il Regno in persona. È l’avvento e l’avvenimento dell’Eschaton. Cristo è il senso dell’uomo e il futuro dell’uomo, ma è anche la manifestazione di Dio e la sua presenza.

*

Sopra abbiamo parlato dell’Incarnazione di Dio e dell’umanizzazione dell’uomo. In questa parte facciamo un salto e un progresso necessario: l’Incarnazione è in vista della divinizzazione. In che senso? Nel senso che la fede cristiana non termina nell’essere bravi uomini e donne. Sarebbe troppo poco. Essere bravi mortali non basta al cuore dell’uomo. L’uomo aspira all’infinito di Dio. San Basilio utilizza parole forti per esprimere questa idea: «L’uomo è un animale che ha ricevuto la chiamata ad essere Dio». Siamo stati creati per essere resi «partecipi della natura divina».
La creazione per le nozze
Forse si può chiarire facilmente quanto enunciato con un monito che madre Teresa soleva dire alle Missionarie della Carità: «Non siamo assistenti sociali, siamo spose di Cristo». L’opera d’amore gratuito fatto dalle sorelle è qualificata da un distintivo ben preciso: l’amore per/di Cristo. La puntualizzazione di madre Teresa entra in una lettura nuziale dell’economia della salvezza di cui sant’Efrem è stato un grande maestro.
Per Efrem, Dio crea per unirsi all’umanità. Dio non avrebbe dato l’esistenza se non fosse stato capace di donare se stesso. In questo senso l’Incarnazione è il presupposto della creazione. Dio crea l’umanità per sposarla. L’Arpa dello Spirito Santo la mette così: «Nel giardino era pronta / una bella stanza nuziale». Il dilemma del rifiuto causato dal serpente, non fa desistere lo Sposo celeste, e il santo diacono di Nisibi rilegge tutta la storia della salvezza in chiave nuziale. Il desiderio di tutta l’umanità è in verità desiderio dell’Unigenito di Dio. Così, ad esempio, Tamar non attende da Giuda un figlio qualsiasi, ma il Cristo nascosto in lui:«Poiché il Re era celato in Giuda / Lo rubò Tamar dai suoi fianchi ».
Come la creazione, così anche l’alleanza del Sinai è un patto nuziale, una casta festa di nozze: «Una casta festa di nozze ha avuto luogo nel deserto, / con la camera nuziale posta sul monte Sinai. / Il Signore è disceso e ha preso in fidanzamento / La figlia di Abramo, suo amato amico».
L’incarnazione di Gesù è l’espressione profonda dell’amore folle di Dio che per amore si unisce all’umanità: «Il primo-nato [Ihidoyo] si avvolse in un corpo / Come un velo per nascondere la sua gloria. / Lo Sposo immortale brilla nella sua veste». Efrem intuisce già ciò che sarà detto nel Concilio Vaticano II: «Con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo a ogni uomo» (GS 22). Quest’unione sarà l’inizio delle nozze che si compiranno sulla croce. Ma perché Dio si è fatto uomo? Esploriamo nel secondo punto la risposta dei Padri.
Ammirevole scambio
«Dio si è fatto uomo affinché l’uomo diventasse Dio». È la convinzione di tanti Padri, come sant’Ireneo, sant’Atanasio, solo per fare qualche nome. I Padri orientali considerano la necessità dell’incarnazione non sotto il registro della necessità, ma nell’ottica della natura dell’agire di Dio. Dio non salva delegando (sia anche a una sua opera), ma assumendo. Da qui la lapidaria espressione di san Gregorio di Nazianzo: «Ciò che non è stato assunto, non è stato salvato». Detto in termini affermativi: Dio salva solo ciò che assume. Proprio come un fuoco che trasforma le realtà toccandole, compenetrandole, così la salvezza – che non è altro che vivere della vita stessa del Dio-Trino-Amore – si raggiunge e si vive non come un’impresa umana, ma come accoglienza dell’invasione dell’Amore folle di Dio, che in Cristo ci ha amati e ha consegnato se stesso per noi e a noi. Nell’incarnazione abbiamo anche la piena partecipazione alla divinità. Dato che l’uomo non poteva unirsi a Dio salendo verso Dio, Dio discese verso l’uomo, discese nell’uomo, Dio divenne uomo. Scrive san Tommaso d’Aquino: «Quanto alla piena partecipazione alla divinità che è la vera beatitudine dell’uomo e il fine della sua vita, tale partecipazione ci viene conferita per l’umanità di Cristo».
La via della divinizzazione
Ma come avviene concretamente la divinizzazione dell’uomo? Entrare nella gloria del Cristo incarnato, essere divinizzati avviene tramite la dimora in Dio e per questa vi è un’unica via: quella dell’osservare e del vivere il nuovo comandamento che perfeziona l’antico. Qual è l’antico comandamento che riassume tutta la legge? Mi piace dirlo partendo da un simpatico ma edificante racconto ebraico:
«Una volta un pagano andò da Shammai e gli disse: “Mi converto all’ebraismo a condi-zione che tu mi insegni tutta la Torah mentre io sto su un piede solo”. Con un bastone in mano Shammai lo scacciò subito. Il pagano andò da Hillel e di nuovo espresse il suo desiderio: “Mi converto all’ebraismo a condizione che tu mi insegni tutta la Torah mentre sto su un piede solo”. Hillel lo accolse nell’ebraismo e lo istruì in questo modo: “Quello che non vuoi sia fatto a te, non farlo agli altri. Questa è la Torah, il resto è commento. Va’ e studia!”».
Questo stesso comando è riassunto in modo affermativo da Gesù: «Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi fatelo a loro: questa infatti è la Legge e i Profeti» (Mt 7,12; cf. Lc 6,31). Ma Gesù darà una misura ancora più eccedente di questo comando. Non più il naturale amore proprio, ma il soprannaturale amore suo: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri» (Gv 13,34).
Vivere la realtà del Natale è cogliere, accogliere e vivere secondo l’immagine del Verbo incarnato: l’immagine dell’«amore folle» (Eros manikon) eloquentemente espresso nella carne di Cristo. Solo così possiamo avere una vera intelligenza dell’autodonazione di Dio perché solo «chi vive nell’amore vive in Dio e Dio vive in lui».