martedì 17 dicembre 2013

Pietro Favre, servitore della consolazione

PIETRO FAVRE Servitore della consolazione


Ricordare le grazie di Dio. Il Memoriale di Pietro Favre

(Anton Witwer SJ) Il Memoriale tenuto da Pietro Favre durante i suoi tanti viaggi, da giugno 1542 al gennaio 1546, ci da un accesso privilegiato al suo modo di sentire e di pensare. Nello spirito degli Esercizi spirituali di Sant’Ignazio, egli vuole ricordare gli stimoli ricevuti durante la preghiera per la ripetizione: modi ed intenzioni di preghiera, invocazioni di santi, propositi e così via. Anche se all’inizio si tratta ancora fortemente dell’attività umana e dell’acquisizione ascetica, il Memoriale non è un protocollo dei “successi”, ma il ricordo delle grazie e degli impulsi di Dio, cioè egli annota ciò che “sente”, “riceve” e “avviene”.
È prima di tutto un atto di fedeltà, con cui non vuole perdere neanche le briciole che vengono dalle mani di Dio. Mantenendo presenti le singole esperienze spirituali, egli riconosce, considerandole a posteriori, che l’operare di Dio non è solo puntuale ma forma una linea; quanto più il diario progredisce, tanto più è d’aiuto a Favre nel riconoscere come Dio lo ha guidato. Lo sguardo retrospettivo si trasforma così in modo crescente nella fedeltà alle linee tracciate da Dio nella sua vita.
La natura del Memoriale e la sua valutazione interna ci fanno capire che esso sia degno di fede per quanto esso ci rivela lo santo stato d’anima del gesuita itinerante. Anche se si tratta delle annotazioni personali dello stesso Favre, si possono applicare a queste “memorie spirituali” le parole di Gesù: “Se fossi io a testimoniare di me stesso, la mia testimonianza non sarebbe vera. C’è un altro che dà testimonianza di me, e so che la testimonianza che egli dà di me è vera” (Gv 5,31-32). È Dio infatti che rende testimonianza di Pietro Favre come strumento nelle sue mani, e di come Egli guida le persone interiormente aperte verso l’unione crescente con Lui.
C’è ancora un altro motivo per attribuire un’importanza particolare alla testimonianza che il Memoriale ci da del suo autore. Sebbene non sia stato ritrovato finora l’autografo, l’ampia diffusione di questi “scritti del padre Pietro Favre” tra le prime generazioni di gesuiti significa una doppia conferma dall’esterno: al pari dell’autobiografia di Ignazio e dei racconti di altri “primi padri”, il Memoriale era considerato un documento storico-spirituale sugli inizi della Compagnia di Gesù, i quali hanno tutti la stessa caratteristica, indicata bene dalle parole del padre Geronimo Nadal nel prologo all’autobiografia di Ignazio: “domandai al Padre [Ignazio] e lo supplicai che egli ci volesse esporre come il Signore lo aveva guidato dall’inizio della sua conversione, affinché quel racconto potesse avere per noi valore di testamento e di direttiva paterna”. Dall’altra parte, proprio la diffusione di questo diario privato, manifestata dalle molte copie fatte e dalla sua versione latina, indica la grande fiducia che i primi gesuiti avevano in queste annotazioni di Favre come testimonianze autentiche del suo cammino spirituale e della continua ricerca del vivere pienamente in unione con Dio. 
Testi scelti
Con queste due piedi …
[203] Agli inizi di una vita migliore, di solito è nostra prima preoccupazione, e non abbiamo torto, di rendere noi stessi graditi a Dio preparandogli nel nostro corpo e nel nostro spirito una dimora corporea e spirituale. Ma arriva il momento (e lo Spirito Santo stesso con la sua unzione lo insegna a chiunque procede con dirittura) in cui ci è domandato di tendere non tanto ad essere amati da Dio, quanto ad amarlo. Ciò significa non essere specialmente dediti a vedere come egli sta in noi, bensì a cercare com’egli sia in se stesso e nelle altre cose, e quel che in maniera assoluta piaccia o dispiaccia a lui in codesto suo mondo. La prima attitudine sta nel tirar Dio a noi stessi, la seconda invece sta nel portar noi a Dio; con la prima cerchiamo che egli si ricordi di noi e se ne prenda tutta la cura possibile; con la seconda siamo noi a volerci ricordare di lui, e ad essere intenti a tutto quel che gli piace; con la prima ci incamminiamo al perfezionamento del timore autentico e della riverenza da figli, con la seconda siamo sulla strada del perfezionamento della carità. Il Signore dia quindi a me e a tutti di camminare con questi due piedi nel salire sulla via che porta a Dio, e cioè il vero timore e il vero amore.
Troppe preoccupazioni
In questo stesso tempo … avvertii qualcosa di molto necessario per far ordine nell’intimo della propria vita, dei desideri e delle preoccupazioni e per ottenere pace, sia tra le occupazioni spirituali sia tra quelle corporali. Ciò mi avvenne riallacciandomi al detto di Gesù Cristo: «Non angustiatevi per il domani». Infatti anche nei desideri e impegni spirituali converrà il più possibile non darsi affanno per il domani. Ciascuno invece disponga delle sue ore e del tempo di ogni giorno in modo da non lasciarsi andare a divagazioni e apprensioni, gioiose o tristi, su ciò che dovrà succedere. L’anima infatti divisa da troppe e molto differenti preoccupazioni, non può comporsi bene con il presente, né dedicarsi a questo con tanta pienezza, quanto potrebbe, se non avesse lo spirito disperso. (26 giugno 1542)
Bisogno di pazienza
Dio … ritarda spesso i doni più perfetti e i frutti finali, perché nell’attesa noi impariamo ad apprezzare i doni meno alti e i mezzi che conducono al termine. Alcuni non desiderano altro che sentimenti spirituali in quanto propri delle loro anime. E li vorrebbero provare sensibilmente nel cuore, mentre essi di niente avrebbero più bisogno che di pazienza, o di una qualsiasi altra virtù, e non s’accorgono né sentono di mancarne. Ma Dio vuole che prima di tutto possediamo l’anima nostra, e d’altro lato questa non può essere posseduta se non attraverso la pazienza, secondo la parola: «È per la vostra pazienza che possiederete le vostre anime». E chi non possiede l’anima propria attraverso la pazienza, come potrebbe possedere legittimamente Dio con la consolazione sensibile? (24 giugno 1543)
Sulla strada della confidenza
Questo stesso giorno riflettevo, dopo la messa, sulle diversità di spiriti che spesso mi agitarono e mi fecero cambiare opinione a riguardo dei frutti che si possono sperare in Germania. Allora notai che non si doveva in nessuna maniera acconsentire a quello spirito che suggeriva tutto essere impossibile e metteva innanzi sempre le difficoltà. Badare piuttosto alle parole e impressioni di quello che scopre delle possibilità e suggerisce coraggio. Ma attenzione a non correre troppo a destra. Bisogna usare discrezione per sapere stare in qualche modo nel mezzo fra destra e sinistra, ed evitare così che alla buona confidenza si mescoli l’illusione alimentata dalla prosperità, e al nostro umore si aggiunga lo sconforto suggerito dalle strettezze. E se non è possibile evitare di deviare o da un lato o dall’altro, è più sicuro e meno pericoloso avviarci sulla strada della confidenza, come nel tempo di piena abbondanza, che ridurci per la via della tristezza, da cui nascono mille errori ed inganni, e proliferano poi amarezze e complicazioni. (14 febbraio 1543)
Riformare nel fervore della carità
Lo vediamo già adesso, e in avvenire lo vedremo ancora meglio, che la carità si raffredda in molti. Sono pochi coloro che lavorano gratuitamente nelle opere di misericordia spirituale, alla maniera con cui ne parla Paolo quando dice: «La carità è servizievole, la carità è paziente, ecc.». Quegli stessi che dirigono le opere caritative non sanno essere pazienti e servizievoli per davvero, né dare fiducia e sperare. Non possono sopportare alcun disturbo né soffrire con animo sereno le imperfezioni del prossimo. Di qui proviene che la soppressione di molti abusi, sia nella amministrazione della Chiesa, sia in quella dello Stato, avvenga spesso dietro la spinta di uno zelo glaciale ed amaro per la giustizia, piuttosto che nel fervore proprio della carità. Occorre allora che la carità possieda proprio le qualità enumerate da Paolo, altrimenti è destinata a raffreddarsi. (5 aprile 1545)
Soprattutto la misericordia
Un altro giorno … mentre ascoltavo la confessione generale di una persona, mi fu concessa una profonda cognizione sul valore delle nostre opere di misericordia verso i vivi e i defunti. Questo pensiero mi commosse fino alle lacrime, pur non impedendomi di continuare a confessare il mio penitente. Riandando su questa materia, capii quanto sarebbe efficace, qualora si volesse sperimentare la misericordia di Dio nei nostri riguardi, esercitare noi stessi tale misericordia: ci accorgeremmo con facilità che Dio donerebbe in modo gratuito, se da parte nostra dessimo liberamente noi stessi e le nostre cose. E se noi fossimo misericordiosi nel campo delle necessità corporali, Dio si dimostrerebbe tale con noi, non solo rispetto a queste, ma pure per tutto quanto riguarda lo spirito. (27 giugno 1543)

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L'introduzione del nuovo volume edito da Ancora e dedicato al gesuita proclamato santo da Francesco

ANTONIO SPADARO *ROMA
Papa Francesco ha proclamato oggi santo il gesuita francese Pierre Favre (Villaret, Alta Savoia, 1506 - Roma, 1546), un sacerdote a cui il Pontefice argentino guarda come a un vero e proprio modello. Nel pomeriggio di oggi il Papa ha ricevuto il cardinale Angelo Amato, prefetto per le Cause dei Santi, e nel corso dell'udienza, accogliendo la relazione di Amato, ha esteso alla Chiesa universale il culto liturgico in onore del beato Pierre Favre, iscrivendolo nel catalogo dei Santi.


La mia copia del diario spirituale di Pietro Favre, detto Confessioni o Memoriale, è un volume ingiallito e dalla copertina ormai logora, pubblicato nel 1980. Non ricordo esattamente da quanti anni porto con me questo libro, ma è da tanto tempo. L’ho letto nel corso degli anni di formazione come gesuita e l’ho finito di recente. Favre non è uno dei gesuiti più noti.


Tutti conoscono Francesco Saverio, il secondo compagno di Ignazio di Loyola, ma pochi conoscono Pietro, savoiardo, che invece è stato il primo. Forse per questo mi ha affascinato: il suo essere stato il primo e il suo essere rimasto nell’ombra. Senza Pietro, la Compagnia di Gesù non ci sarebbe. Ciò che mi ha attratto di più è stata la sua esperienza di amicizia profonda con Ignazio, che allora era stato definito dal teologo spagnolo rigorista Pedro Ortíz «uno stravagante spagnolo che fomentava il disordine in maniera inquietante».


Scrive Favre nel suo Memoriale : «Vivevamo sempre insieme, ripartendo la camera, la mensa, la borsa; e poi egli mi era insegnante di vita spirituale, dandomi possibilità di ascendere alla conoscenza della volontà divina e della mia propria. Così fu che divenimmo una cosa sola nei desideri, nella volontà e nel fermo proposito di scegliere la vita che ora teniamo tutti noi, i quali facciamo o faremo parte di questa Compagnia, di cui io non sono degno». Immaginavo questi due uomini: studenti all’Università di Parigi che condividevano la stanza in affitto; uno basco, uno savoiardo.

La loro profonda amicizia, nata mentre il poco più che ventenne Pietro aiutava il quasi quarantenne Ignazio a capire Aristotele e i filosofi scolastici, è il primissimo inizio di ciò che sarebbe stata la Compagnia di Gesù [...]. Favre visse il clima fluido e burrascoso della prima metà del Cinquecento parigino e per questo è portatore di una sensibilità moderna. Incarnò un’apertura mentale e spirituale nei confronti delle sfide dell’epoca, soprattutto la riforma protestante. Se alcune sue regole ecumeniche fossero state accolte e messe in pratica al suo tempo, forse la storia religiosa dell’Europa sarebbe stata diversa. Non era un sognatore, ma un mistico di profonda dolcezza.


L’esperienza più incisiva dei suoi anni di formazione fu rappresentata dall’incontro con il pensiero della tradizione renano-fiamminga, avvenuto attraverso la frequentazione della certosa di Vauvert. Ma leggendo il suo Memoriale, un diario interiore appunto, si capisce che la sua mistica ha a che fare con la vita quotidiana, si spende nei dettagli, si applica ai sentimenti che accompagnano i momenti della vita: è piena familiarità con Dio.

Favre si rivela maestro sia nell’impegno e nel coinvolgimento esteriore, sia nel «discernimento degli spiriti»: non solo come grande psicologo, ma come autentico ricercatore della volontà di Dio [...]. La vita interiore per lui è «sentire e gustare le cose interiormente», come scrive Ignazio nei suoi Esercizi spirituali. Nella sua breve vita, Pietro ha gustato l’esistenza, ha avvertito il dolce e l’amaro, ha provato «consolazione» e «desolazione», ma ha tutto vissuto con l’anima. E tutto il suo mondo era animato, vivace di «mozioni spirituali».


Altro motivo di fascino: il suo essere pellegrino instancabile, camminatore nato. Approfittava dei lunghi viaggi, di solito fatti a piedi, per disseminarli di preghiera e di attività sacerdotali, mostrando così, anche a noi oggi, come si può congiungere una vita attiva straordinaria con una profonda unione con Dio. Questo Favre dolce mistico pellegrino, instancabile camminatore dalla grande familiarità con Dio, peculiare coincidentia oppositorum, mi colpiva perché non riuscivo ad afferrarlo del tutto. E non riesco a farlo tuttora.

Quando dunque, durante la mia intervista di fine agosto 2013, chiesi a papa Francesco quale fosse il suo gesuita preferito, ho avuto un sobbalzo quando ho sentito il nome di Pietro Favre. Ho scoperto così che l’allora padre Jorge Mario Bergoglio, provinciale dei gesuiti dell’Argentina, aveva persino commissionato un’edizione del Memoriale a due gesuiti specialisti, Miguel A. Fiorito e Jaime H. Amadeo. Ho saputo che la sua edizione preferita è quella a cura di Michel de Certeau. Tra l’altro il Papa cita un pensiero di Favre nella sua prima esortazione apostolica: «Il tempo è il messaggero di Dio» (Evangelii gaudium 171).

Perché al Papa piace particolarmente il primo compagno di Ignazio? Lui mi ha risposto sostanzialmente facendo una lista di ragioni: «Il dialogo con tutti, anche i più lontani e gli avversari; la pietà semplice, una certa ingenuità forse, la disponibilità immediata, il suo attento discernimento interiore, il fatto di essere uomo di grandi e forti decisioni e insieme capace di essere così dolce, dolce…». Nelle sue parole rileggevo la mia esperienza del Favre, rimasta allora sostanzialmente incompleta, interrotta anche nella lettura del suo diario. E nello stesso tempo capivo quanto Favre sia stato e sia tuttora davvero per lui un modello di vita.

Il 14 giugno 2013, nel suo discorso alla redazione de “La Civiltà Cattolica”, papa Francesco aveva dato ai redattori come consegna tre parole chiave: dialogo, discernimento, frontiera. Sono le parole chiave della vita di Pietro Favre, unite a una infinita dolcezza di tratto che ha convertito molti, più di tante parole. Michel de Certeau definisce Favre semplicemente il «prete riformato», per il quale l’esperienza interiore, l’espressione dogmatica e la riforma strutturale sono intimamente indissociabili. Mi sembra di capire, dunque, che papa Francesco si ispiri proprio a questo genere di riforma. Favre è convinto che è al livello della complessità dei sentimenti e degli affetti spirituali – in cui l’uomo impara a dialogare con Dio e a sentirne il mistero – che si prendono le grandi decisioni, anche quelle «strutturali ».

Per Favre Dio agisce e opera nel cuore dell’uomo trasformandolo. La fiducia nell’azione di Dio nel fondo dell’essere dell’uomo lo distingue da Lutero, troppo attento al suo stato di peccatore per credere a questa trasformazione interiore. Favre vede sbocciare la presenza di Dio dovunque; Lutero sempre attende la sua venuta, che unica può salvare dalla dannazione. Ma trasformazione interiore non significa spiritualismo. Lungi da Favre, come da Bergoglio, quella che il Papa stesso ha definito «la costante tentazione delle tendenze pseudomistiche dell’esistenza cristiana». Lungi da entrambi «quella sorta di cristianesimo spirituale che stava perdendo il contatto con la quotidianità e la vita concreta».


Per Favre come per Bergoglio vale ciò che ha scritto Ignazio di Loyola: Dio si comunica a ognuno di noi con «mozioni» interiori, «muove e attira la volontà». Questo spazio di incontro e di attrazione, ricco di affetti, non si contrappone affatto alla ragione né alla gestione della vita e ai suoi progetti pratici, ma al contrario li anima: «Il cuore coniuga l’idea con la realtà», ha scritto tempo fa l’allora cardinal Bergoglio. L’esperienza di Favre va dunque meglio compresa e studiata per capire lo stile e il modo del governo di papa Francesco.


* Direttore de «La Civiltà Cattolica», curatore del volume «Pietro Favre. Servitore della consolazione» (Ancora, pp. 144, € 17) in libreria dalla prossima settimana. L'introduzione di padre Spadaro, che riproduciamo con il consenso dell'editore, è stata anticipata dal quotidiano «Avvenire».

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Canonizzazione Favre. P. Spadaro: la sua apertura mentale e spirituale è la stessa di Bergoglio 

Dialogo, discernimento, frontiera. Le tre parole chiave di San Pietro Favre richiamano immediatamente l’azione pastorale di Papa Francesco. Una sintonia che viene sottolineata dal direttore di Civiltà Cattolicapadre Antonio Spadaro, che proprio in occasione della canonizzazione ha pubblicato, per i tipi della casa editrice “Ancora”, il volume “Pietro Favre. Servitore della consolazione”.Padre Spadaro dice quanto sia importante per i gesuiti la canonizzazione del primo compagno di Ignazio di Loyola:
R. – Ha un significato molto forte, perché tutti conoscono San Francesco Saverio, il secondo compagno di Sant’Ignazio di Loyola; ma Pietro Favre fu il primo, il primo compagno che condivise con Sant’Ignazio la stanza in cui studiava all’Università di Parigi; è stato il primo ad accostarsi a lui, il primo a fare gli Esercizi spirituali … Direi che senza Pietro Favre la Compagnia di Gesù non esisterebbe. Quindi, è un momento molto particolare e veramente importante per noi. 

D. – Pietro Favre, appunto, è il primo compagno di Ignazio di Loyola eppure – è un fatto, questo – è rimasto nell’ombra per tanto tempo. Quali sono i motivi?

R. – Forse nel tempo, specialmente durante la seconda metà del XVI secolo, la sua fama è rimasta un po’ vittima di una sorta di diffidenza verso la dimensione mistica che persino nella Compagnia di Gesù si è fatta strada a favore di un atteggiamento più ascetico che mistico. Invece, Pietro Favre è una figura mistica, se vogliamo anche difficile da comprendere bene: è un po’ complessa. Tuttavia, la devozione non si è mai persa nel corso del tempo. Lo stesso Sant’Ignazio, in realtà, più che celebrare suffragi per lui, fece celebrare Messe di gioia, di trionfo e addirittura San Francesco Saverio, appena Pietro Favre morì, aggiunse il suo nome alle Litanie dei Santi …

D. – A canonizzare il primo compagno di Sant’Ignazio è il primo Papa gesuita: perché la figura di Favre è così amata da Jorge Mario Bergoglio?

R. – Perché al Papa piace Favre? Lui mi ha risposto sostanzialmente con una lista di ragioni: il dialogo con tutti, anche i più lontani, gli avversari; la sua pietà semplice, direi popolare; una certa ingenuità – il Papa stesso si è definito un po’ ingenuo, un po’ furbo -; la sua disponibilità immediata, ma poi due cose che ritengo veramente fondamentali: il suo atteggiamento di discernimento interiore e il fatto di essere un uomo di grandi e forti decisioni, pur essendo una persona molto, molto dolce.

D. – Cosa ritroviamo di Favre, invece, proprio nell’azione pastorale di Papa Francesco?

R. – Troviamo tanto: nel tratto umano, nella spiritualità … Favre era un uomo molto aperto all’esperienza e alla vita; soprattutto, era un uomo privo di barriere mentali, di preclusioni. Amante della riforma della Chiesa, sapeva che c’era bisogno di tanto tempo e fondava il suo desiderio di riforma nell’amicizia. Un giorno, per esempio, ha sentito interiormente di dover pregare insieme per il Papa, per Lutero, per Enrico VIII e per Solimano II. Favre, del resto, ha vissuto in un clima fluido e burrascoso nella prima metà del Cinquecento parigino, ed è portatore di una sensibilità moderna che oggi vibra in consonanza con la nostra. Quindi incarnò un’apertura mentale e spirituale nei confronti delle sfide della sua epoca, che ci ricorda molto lo slancio missionario di Papa Francesco.

D. – Il titolo del suo libro su Favre è “Servitore della Consolazione”. In qualche modo, si potrebbe anche accostare questa definizione proprio a Papa Francesco: servitore della consolazione, della misericordia …

R. – Penso di sì. In fondo, Papa Francesco ama Favre anche proprio per la sua capacità di discernimento, cioè la sua capacità di comprendere la vita spirituale e di capire come Dio agisce dentro di noi. La consolazione è la percezione sensibile interiore dell’unione con Dio. La mistica di Pietro Favre ha a che fare con la vita di tutti i giorni, con la vita quotidiana: Favre ha sempre vissuto una familiarità con Dio immediata, diretta e per Favre, come per Papa Francesco, vale ciò che ha scritto Sant’Ignazio, cioè che Dio si comunica a ognuno di noi con mozioni interiori: cioè, muove e attira la volontà. Quindi direi che l’esperienza di Favre va meglio compresa e studiata anche per capire lo stile e il modo di governo di Papa Francesco.
 Radio Vaticana