sabato 24 agosto 2013

Papa Luciani e Papa Bergoglio



Il 26 agosto 1978 veniva eletto Papa il cardinale patriarca di Venezia. Briciole per quattro settimane

(Vicenzo Bertolone) Nelle udienze generali del mercoledì Giovanni Paolo I riprese temi di un suo libro del 1949. -- Il 26 agosto 1978, eletto in ventiquattro ore al secondo giorno di conclave, Albino Luciani, patriarca di Venezia, sceglie di chiamarsi Giovanni Paolo, accomunando nel nome Giovanni XXIII e Paolo VI. Dio lo chiamerà a sé poche settimane dopo, il 28 settembre. Dell’intenso e indimenticato settembre di Papa Luciani, vanno soprattutto ricordati i momenti bellissimi delle udienze generali del mercoledì, nelle quali sembra riprendere, in qualche modo, la sua Catechetica in briciole.
Nell’opera edita nel dicembre 1949, il giovane prete raccomandava al catechista l’entusiasmo, la convinzione, l’amore, e non soltanto la scienza e la conoscenza, ma soprattutto la capacità di essere comunicatore. Un trentennio più tardi, appena eletto Pontefice, sulla scia del suo predecessore, avrebbe voluto fare delle sue udienze — come disse il 6 settembre — «una vera catechesi adatta al mondo moderno»: quella di un Papa catechista, appunto.
Quasi trasformando quegli incontri partecipatissimi in quattro stazioni di accostamento al nucleo centrale del cristianesimo, la prima volta chiamò accanto a sé un chierichetto. Il «catechista si preoccupa non solo di fare e parlare lui, ma soprattutto di far fare agli alunni e di farli parlare», recitava infatti la sua Catechetica (4, 6). La settimana dopo, la tonalità emotiva ed esistenziale dell’atto di fede, sulla base di Trilussa, di san Paolo e di sant’Agostino, fu efficacemente da lui descritta come un «arrendersi a Dio, ma trasformando la propria vita», sapendo cioè che Dio ha «più tenerezza ancora di quella che ha una mamma verso i suoi figlioli». Il 20 settembre, mentre a Friburgo un consesso internazionale discuteva sul “futuro della speranza”, fu la volta appunto della speranza, da lui assimilata alla iucunditas di Tommaso d’Aquino e alla hilaritas di Agostino. Infine, il 27 settembre, riprendendo testualmente l’Atto di carità insegnatogli dalla mamma quando era piccolo (in veneto, un bocia), parlò dell’amore, che non solo rimane nella memoria e nella mente come un qualunque dato dell’apprendimento, ma che attrae ogni volta che ci si pensa, come un «correre con il cuore verso l’oggetto amato».
Quattro udienze generali, caratterizzate sempre da un’atmosfera di fraternità palpabile, con citazioni non soltanto dei Padri e dei teologi, ma anche di pensatori e letterati: la seconda volta fu il turno di Ozanam e Lacordaire; la terza di Saint-Beuve e dello scozzese non cattolico Andrea Carnegie; la quarta di un suo imprecisato professore di filosofia e di Jules Verne. Momenti quasi di contatto diretto con i propri confratelli nell’episcopato e con tanti laici. Un momento di famiglia, percepito come se si fosse alla presenza, nel modo più tenero, del Signore, come capita a un bambino quando sta di fronte alla mamma: «Come un bambino davanti alla mamma crede alla mamma, io credo al Signore».
Papa Luciani evocherà ancora la propria mamma terrena il 13 settembre, per illustrare il particolare rapporto di fiducia che si stabilisce con Dio, prima ancora che con le sue verità, nell’atto di fede: «Mi diceva quand’ero grandetto: da piccolo sei stato molto ammalato: ho dovuto portarti da un medico all’altro e vegliare notti intere; mi credi? Come avrei potuto dire: mamma non ti credo? Ma sì che credo, credo a quello che mi dici, ma credo specialmente a te». In un contesto quasi di famiglia che si ripeté solo quattro volte (quanti furono i mercoledì).
La prima volta di Giovanni Paolo — che il 13 si presenterà come «il povero Papa», al momento di parlare della fede — volle non a caso evocare una certa atmosfera di «famiglia delle famiglie» per tratteggiare la stessa Chiesa. Egli cominciò citando «cardinali e vescovi, miei fratelli nell’episcopato. Io sono soltanto il loro fratello maggiore». Ma, poi, volle dialogare direttamente sul tema della reciproca cura in famiglia e tra le generazioni, parlando a tu per tu con James, uno dei chierichetti maltesi che per un mese avevano prestato servizio in San Pietro.
Un vero stile di famiglia richiede una cura, un’attenzione reciproca, soprattutto nei momenti di bisogno, porgendo del cibo, dell’acqua, una medicina. E, tuttavia, «non basta il caldo, il cibo, c’è un cuore; bisogna pensare anche al cuore». Nella sua prima udienza generale richiamava ambiente e motivi di vita familiare: la famiglia «commuove particolarmente, perché la famiglia è una grande cosa». Ai partecipanti a un congresso sui trapianti — già allora erano molto dibattuti i temi dell’accertamento della morte encefalica per il prelievo di organi e della connessa sperimentazione su esseri umani per arrecare eventuali vantaggi ad altri malati — il Pontefice ribadì che «non si può mai trasformare l’essere umano in un oggetto di sperimentazione», soprattutto quando è più debole o ammalato, come può capitare nella stagione anziana della vita.
Otto giorni dopo, all’interno di una ripresa delle «sette lampade della santificazione» di cui aveva parlato Giovanni XXIII, Papa Luciani descrisse il dinamismo della fede come un colloquio e confronto tra il Signore e ciascuno di noi, in particolare tra Gesù e la Chiesa. In quella circostanza riprese l’antica teologia del Cristo capo e della Chiesa corpo, quella stessa che — tra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo — aveva consentito a Giacomo da Viterbo di scrivere il primo «trattato separato sulla Chiesa», ripensando cristologicamente la teoria del potere.
Poté così ripresentare la realtà ecclesiale come un «corpo familiare», in cui soprattutto si ama e non ci si tradisce, pur non omettendo la presenza dei quasi inevitabili difetti: «Se ci sono, e ci sono, dei difetti e delle mancanze, non deve mai venire meno il nostro affetto verso la Chiesa». Fu poi il turno della terza lampada, quella della speranza, introdotta dal Papa con alcuni passi della Divina commedia, dai quali si ricava quella sorta di esame di Dante sulle tre virtù teologali. La speranza viene tratteggiata con quel caratteristico metodo catechistico del botta e risposta, spesso con aneddoti di vita, elogiando la virtù della fiducia e dell’abbandono; anche nelle difficoltà e nelle cattive riuscite, infatti, la speranza resta ferma, incrollabile. Il Papa mostra molta «simpatia per la speranza», in controtendenza rispetto a una certa cultura contemporanea che aveva preso spunto dalla caratterizzazione fornita da Nietzsche sulla virtù dei deboli o dal marxismo sull’alienazione.
Nell’ultima catechesi commentò le espressioni principali dell’Atto di carità: «ti amo con tutto il cuore» fu così definita dal Papa «la bandiera del massimalismo cristiano» e il «sopra ogni cosa» venne spiegato come l’amore prevalente, anche se non esclusivo, per Dio, che non è geloso; ancora, «per amor vostro amo il prossimo mio» diede luogo a una bellissima apertura, oltre che alla giustizia, alla carità praticata, ovvero alle sette opere di misericordia corporali e sette spirituali; «perdono le offese ricevute» significa un atteggiamento che ha quasi precedenza sullo stesso culto; infine, «Signore, che io vi ami sempre più» esprime un viaggio più intenso e perfetto dello stesso progresso scientifico e tecnologico.
In questo Anno della fede, dopo l’enciclica Lumen fidei che chiude la trilogia ratzingeriana sulle virtù teologali, il confronto con le catechesi di Papa Luciani permette, come teorizzava già la sua Catechetica in briciole (cfr. 4, 20), di vedere queste virtù rese «vive e parlanti» da un Papa per il quale davvero si possono ripetere con il libro della Sapienza (4, 13) le parole consummatus in brevi explevit tempora multa.
L'Osservatore Romano,


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35 anni fa l'elezione di Giovanni Paolo I, il Pontefice veneto che sarebbe improvvisamente scomparso dopo un mese. I tratti comuni con Francesco

ANDREA TORNIELLI

Sabato 26 agosto 1978, nel pomeriggio, dopo appena un giorno di conclave, il cardinale protodiacono Pericle Felici annunciava ai fedeli in piazza San Pietro l'elezione del patriarca di Venezia Albino Luciani, il successore di Paolo VI. Di umili origini, nato a Canale d'Agordo, in una valle delle montagne bellunesi, Luciani - che aveva scelto il nome di Giovanni Paolo in onore dei suoi due immediati predecessori - era stato vescovo di Vittorio Veneto e quindi cardinale patriarca nella diocesi della Serenissima. Il suo «regno» è durato soltanto 33 giorni: il Papa fu trovato morto nel suo letto la mattina del 29 settembre.


L'importanza del suo pontificato, ebbe a dire Giovanni Paolo II, fu «inversamente proporzionale alla sua durata». In effetti, quello che viene spesso ricordato come «il Papa del sorriso», suscitò molte speranze. La semplicità del suo approccio e del suo linguaggio, le sue parole sul peccato e la misericordia, il suo essere parroco e pastore, la sua evidente estraneità ai giochi curiali hanno lasciato un ricordo indelebile in tante persone che ancora lo venerano. Promossa da tanti fedeli e dall'intero episcopato del Brasile, la causa di beatificazione si avvicina alle battute finali ed è in fase di completamento la «Positio» con la documentazione e le testimonianze.

Anche se diversi per storia, provenienza e formazione, Papa Luciani e l'attuale vescovo di Roma Francesco hanno diversi aspetti in comune. Francesco è un religioso gesuita, Luciani un prete secolare. Ma è nota l'attrattiva che il giovane Albino avvertiva per l'ordine fondato da Sant'Ignazio, a motivo dell'influenza esercitata su di lui dal gesuita bellunese padre Felice Cappello, del quale era anche lontano parente. Lo ha testimoniato la sorella di Giovanni Paolo I, Antonia Luciani, in uno scritto pubblicato su «30 Giorni»   una decina d'anni fa.

«Mio fratello, ad un certo punto, ha avuto il desiderio di farsi gesuita. Questo lo confidò proprio a me. Erano gli anni 1934-35. Poco tempo prima che venisse ordinato sacerdote. Due suoi compagni di seminario, con i quali l’Albino era amico di vecchia data, erano entrati nella Compagnia di Gesù: padre Giuseppe Strim di Falcade e padre Roberto Busa... Mi disse: "Sai che Giuseppe Strim e Roberto Busa si sono fatti gesuiti? Anche a me piacerebbe tanto...". "E se lo vuoi" dissi "fai così anche tu". "Non posso", rispose. "Chiedi il permesso al vescovo...". E lui: "Glielo ho chiesto, ma ha risposto di no". Servivano sacerdoti in diocesi. E così a lui il vescovo non lo consentì».

Un primo tratto che accomuna i due Papi è la semplicità delle loro parole e la capacità di farsi capire anche dalle persone più umili. Luciani aveva ricevuto su questo una grande lezione dal suo parroco di Canale, che al giovane seminarista aveva raccomandato di predicare sempre tenendo presente che le sue parole dovevano essere comprese anche dalla vecchietta seduta in fondo alla chiesa che non era andata a scuola. «Catechetica in briciole» è il titolo del libro che Luciani pubblicò nel 1949, e anche da vescovo, cardinale e Papa rimase fedele a quella raccomandazione del parroco. Le poche udienze generali che ebbe modo di tenere in Vaticano durante il mese di pontificato, caratterizzate da dialoghi con le persone, senza testi scritti, sono un esempio che rimane nella memoria. Anche Francesco, come dimostrano le brevi prediche mattutine a Santa Marta, ma anche le numerose aggiunte fuori testo durante gli Angelus, le catechesi e le omelie, comunica in modo semplice e diretto.

Ci sono poi sintonie che riguardano il messaggio. Papa Francesco, fin dall'inizio del suo pontificato, ha sottolineato l'importanza della misericordia, da lui presentata come il messaggio più importante di Gesù. Misericordia e perdono: «Dio mai si stanca di perdonare, siamo noi che ci stanchiamo di chiedergli perdono». Anche Luciani insisteva su questo tema: «Nessun peccato è troppo grande: una miseria finita, per quanto enorme, potrà sempre essere coperta da una misericordia infinita». Da Papa, lui che aveva voluto la parola «humilitas» nel suo stemma episcopale, ricordava: «Io rischio di dire uno sproposito, ma lo dico: il Signore tanto ama l’umiltà che, a volte, permette dei peccati gravi. Perché? Perché quelli che li hanno commessi, questi peccati, dopo pentiti, restino umili...». Entrambi hanno sempre sottolineato l'importanza della grazia, dell'iniziativa di un Dio che ci «primerea», ci precede. Entrambi hanno cercato - come del resto ha fatto anche Benedetto XVI - di ridurre il protagonismo del Papa.

Sia Luciani che Bergoglio, anche dopo l'ordinazione episcopale, hanno continuato a trascorrere del tempo in confessionale, a contatto con le persone e i loro problemi. Francesco fin dai primi giorni di pontificato ha raccontato episodi riferiti alla sua esperienza di confessore e ai dialoghi avuti con i penitenti. Luciani aveva maturato una posizione possibilista - prima della pubblicazione dell'«Humanae vitae» di Paolo VI - sulla contraccezione, proprio a motivo del suo stare in confessionale.

Un altro punto in comune è rappresentato dall'allergia verso i preti maneggioni che usano a sproposito il denaro. Papa Francesco ha già messo mano allo Ior, finito sotto accusa per la sua gestione non sempre trasparente. Nel dialogo con il rabbino Abraham Skorka pubblicato nel libro «Il cielo e la terra», l'allora cardinale Bergoglio riferiva un episodio accaduto poco dopo la sua nomina a vescovo ausiliare, agli inizi degli anni Novanta, quando due funzionari ufficiali cercarono di coinvolgerlo in transazioni finanziarie poco pulite con la scusa delle offerte per i poveri: «Per certe cose io sono un grande ingenuo, ma per altre mi si attiva "l'allertometro". E quella volta funzionò». Luciani si è dovuto confrontare con un problemi simili a Vittorio Veneto, e non è un mistero che, da patriarca di Venezia, non avesse digerito la spregiudicatezza di certe operazioni della «banca vaticana».

Anche il tema della «Chiesa povera e per i poveri» accomuna le due figure. Entrambi dimessi e poco legati agli orpelli del «vescovo príncipe», hanno più volte parlato di questo tema. Rimasero famose e fecero scalpore le parole pronunciate da Giovanni Paolo I durante un'udienza, quando disse che la proprietà privata «non costituisce per alcuno un diritto incondizionato e assoluto» ricordando che «i popoli della fame interpellano oggi in maniera drammatica i popoli dell’opulenza». Erano parole di Paolo VI.

Infine non va dimenticata la sottolineatura che Francesco, fin dal suo primo saluto ai fedeli la sera del 13 marzo scorso, ha proposto sul suo essere innanzitutto «vescovo di Roma». In un colloquio con il Segretario di Stato Jean Villot, Giovanni Paolo I disse: «Dico a lei con il cuore in mano che prima di tutto io sono un prete, adesso sono anche Papa, ma io voglio essere un pastore, non un funzionario d’ufficio... Io sono prima il vescovo di Roma e poi il Papa. So che sono due cose in una, ma io non voglio fare la figura della comparsa davanti ai miei parroci e alla mia gente».

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Avvenire
Canale d’Agordo, dove Albino Luciani nacque e fu battezzato, dopo il centenario della nascita (17 ottobre 1912) si prepara ora al 35° anniversario dell’elezione a Pontefice con la presentazione della prima biografia in inglese del «Papa del sorriso», firmata da Paul (...)