mercoledì 11 dicembre 2013

Il proprio dell’uomo. L’umanesimo nel secolo XXI




 Perché è un bene che ci siano uomini sulla terra?

Oggi, mercoledì 11 dicembre, il filosofo francese Rémi Brague tiene a Roma, alla Libera Università Maria Santissima Assunta, la lezione «Il proprio dell’uomo. L’umanesimo nel secolo XXI». È l’incontro annuale organizzato dal Dipartimento di scienze umane in ricordo della studiosa Edda Ducci.
(Rémi Brague) La parola «umanesimo» è relativamente recente. Ma il fenomeno è dovuto passare attraverso un tempo d’incubazione abbastanza lungo per giungere a cristallizzarsi in una formula.
Nella prima tappa, l’uomo prende coscienza di sé in quanto costituisce una specie che si distingue dalle altre in modo sostanziale per alcune caratteristiche che possiede esclusivamente. I miti dei popoli «primitivi» spesso cercano di spiegare il motivo per cui l’uomo si distingue dagli animali nel fatto che ha bisogno di lavorare e che sa di dover morire. È in Grecia che furono elaborate entrambe le definizioni classiche dell’umano, evidenziando le sue due differenze specifiche capitali: una, il lògos, «l’animale razionale», l’altra, la vita di cittadino, «l’animale politico». Aristotele le ha inserite in una descrizione globale dell’uomo.
La seconda tappa aggiunge alla differenza, che non comportava ancora una valutazione esplicita, una diversità di livello a favore dell’uomo. Egli appare migliore delle altre specie viventi. Tuttavia, non si passa dal comparativo al superlativo: non è affatto considerato come il migliore degli esseri. Ed è così che Aristotele giudica in modo molto sfumato il posto dell’uomo.
In entrambe le religioni bibliche, la grandezza dell’uomo è solo relativa, e questa volta non in modo statico, ma dinamico. Questa grandezza è, infatti, il risultato di una scelta esercitata da quanto vi è in sé di più alto tra tutto ciò che esiste, vale a dire Dio. Tale scelta non dipende dai meriti dell’uomo, ma è un dono di grazia. Il cristianesimo fa poggiare la preminenza dell’uomo, non su caratteristiche della sua natura, ma sull’incarnazione del Verbo divino nell’uomo Gesù Cristo. Tali privilegi conferiscono all’uomo una dignità. L’idea è tanto greca quanto biblica; attraversa l’età patristica e medioevale prima di trovare una formulazione tematica nel XV secolo in Gianozzo Manetti, che dà inizio, nel 1453, a una tradizione di trattati sulla dignità dell’uomo.
Una terza fase inizia nei primi anni del secolo XVII. L’uomo è l’essere che deve dominare gli altri, applicare loro la propria misura, costringerli, se necessario, a piegarsi ai suoi fini. La superiorità non gli è più conferita da una istanza superiore: l’uomo realizza la sua superiorità diventando il padrone della natura. Dopo lo squillo di tromba iniziale di Bacone e Cartesio, l’idea attraversa tutta l’epoca moderna e fiorisce un’ultima volta, in grande stile, in Fichte.
La quarta tappa consiste nell’«umanesimo esclusivo». Ha inizio nel secolo XIX. Per essa, l’uomo è l’essere più alto, che non tollera alcuno al di sopra di sé. Il giovane Marx reinterpreta in questo senso il mito di Prometeo e il verso di Eschilo quando afferma: «Odio tutti gli dei». Auguste Comte, pochi anni dopo, nomina l’umanità con una formula che fino ad allora designava Dio: il «Grande Essere». Questa tappa è interessante per noi giacché è per dar nome a questa versione forte che la parola “umanesimo” fu coniata, prima in tedesco, poi in francese da Proudhon.
Oggi è con questa quarta tappa che abbiamo a che fare. Una tappa ulteriore è poco probabile perché è difficile immaginare che si possa dare all’uomo un posto ancor più elevato di quello di Dio.
Quanto alle prime tre tappe, esse sono state attaccate in ordine inverso alla loro comparsa. Ci sono le voci che chiedono un uso prudente e parsimonioso delle risorse naturali; ce ne sono poi altre, più radicali, che sostengono una decrescita rapida nell’interesse dell’umanità; e ce ne sono altre ancora che ricordano che l’uomo, anche astraendo dalla preoccupazione per la sua stessa sopravvivenza a lungo termine, deve essere il custode delle altre specie viventi. Questi argomenti scivolano facilmente verso una seconda critica secondo cui, lungi dall’essere il migliore tra gli esseri viventi, l’uomo è peggiore dei parassiti o degli animali selvatici, perché rappresenta una minaccia globale per la vita. Ai nostri giorni, l’avidità umana minaccia di cancellare nel modo più concreto ogni altra forma di vita che non sia la propria. Lungi dal distinguersi dalle altre specie per natura, per salto qualitativo, come presumeva la prima tappa, l’uomo ne differisce solo per grado. C’è chi si ingegna a dimostrare che il linguaggio o l’organizzazione sociale umani non sono essenzialmente diversi da ciò che nell’animale ne è la prefigurazione.
L’ultima tappa non è stata contraddetta, o lo è stata parzialmente. L’umanesimo esclusivo continua a escludere la figura del divino rispetto alla quale si erano definite le due fasi che l’avevano preceduta. Mi riferisco, naturalmente, al Dio della Bibbia e, prima di lui, al «divino» nello stile della filosofia greca. Dopo la distruzione dell’umanesimo, continua a non esservi nulla di più alto dell’uomo.
Guardiamo ora questo «più alto» che l’umanesimo esclusivo nega. Questa istanza poteva essere o Dio o la Natura. Riconoscerla rendeva possibile una legittimazione dell’umano. Ma implicava anche una sua limitazione.
Per il paganesimo, prendiamo Aristotele. Egli rammenta, come un fatto evidente, che la politica non fabbrica l’uomo, l’uomo è il prodotto della natura, quindi ha un’origine extra-umana. Certo, Aristotele ripete una ventina di volte che «l’uomo genera l’uomo», ma sarebbe impossibile senza il concorso del sole: «l’uomo genera l’uomo con l’aiuto del sole». Il sole designa qui, per metonimia, l’insieme dell’universo fisico.
Nell’altra fonte della nostra cultura, la Bibbia, l’uomo appare come creatura di un Dio che ha questa volta dei tratti personali. In essa il dominio della natura non è un progetto, ma un compito (Genesi 1, 28) Nella misura in cui è proposto agli esseri umani, esso lo mantiene all’interno dello statuto di creatura.
Ho detto che l’umanesimo esclusivo negava qualsiasi tipo di divino, e, a maggior ragione, di dèi. Stavo andando troppo in fretta. Di fatto, il divino al modo greco è stato privato della sua plausibilità dalla scienza moderna. In compenso, una volta saltato il catenaccio delle religioni bibliche, altre figure del divino scaturiscono come a piacere. Nietzsche salutava tale possibilità col nome di Dioniso. Già prima di lui, e più che mai dopo, abbiamo visto sorgere divinità ancora più inquietanti, che non si presentano necessariamente come tali e sono molto diverse tra di loro. Comte diede alla terra, alla fine della sua vita il nome di «grande feticcio», per il quale reclamava una «giusta adorazione». Il termine è rivelatore, per gli echi espliciti che contiene della religiosità più primitiva. Da allora, altre divinità sono riemerse sotto il nome di nazione, progresso, storia, classe o razza.
In conclusione, tutto questo ci invita a gettare uno sguardo sulle decisioni filosofiche che hanno portato a tale situazione. Esse sono a fondamento della filosofia pratica moderna, da Hobbes in poi.
Questa filosofia è inesauribile quando deve decretare le regole di convivenza degli uomini. Ed è anche efficacissima, nei suoi più diversi stili. Riesce a spiegare in modo molto plausibile che è nell’interesse degli uomini che formano la società politica, addirittura il genere umano nel suo insieme, rinunciare alla violenza in favore della pace e della giustizia reciproca.
Tuttavia, il pensiero moderno è a corto di argomenti per giustificare l’esistenza stessa degli uomini. Questo pensiero ha cercato di costruire sul proprio terreno, escludendo tutto ciò che trascende l’umano, natura o Dio. Così facendo, esso si priva di qualsiasi punto d’Archimede, divenendo pertanto incapace di esprimere un giudizio sul valore stesso dell’umano.
Bisogna dunque prendere atto di un fatto nuovo. Cerchiamo di nascondercelo con mille sotterfugi. Mi sembra più opportuno gridarlo sui tetti. Non certo come un grido di trionfo, ma come l’espressione di una preoccupazione profonda: il progetto ateo dei tempi moderni è fallito. L’ateismo è incapace di rispondere alla questione della legittimità dell’uomo.
Henri de Lubac ha parlato di un «dramma dell’umanismo ateo», in un libro così intitolato, pubblicato verso la fine della seconda guerra mondiale. Egli sostiene che l’umanismo ateo potrebbe benissimo fondare una civiltà, ma sarebbe una civiltà disumana. In altre parole, l’uomo potrebbe sopravvivere, ma a costo di un abbassamento del suo livello di umanità. In tal modo, l’umanesimo ateo peccherebbe contro l’aggettivo e non contro il sostantivo: contro l’umano, ma non contro l’uomo.
Qui mi chiedo se Lubac non sia, nonostante tutto, troppo ottimista. Dobbiamo arrischiare un ulteriore passo avanti: l’umanesimo esclusivo è semplicemente impossibile. Non perché renderebbe l’uomo inumano, ma perché distruggerebbe l’uomo, nel senso più banale del termine. Quando lo si abbandona alla sua logica interna, egli finisce, prima o poi, per distruggere se stesso. È incapace di fornire una risposta a una questione fondamentale, quella del punto su cui far leva.
Prendere se stessi in mano era il sogno dell’umanesimo, sogno in sé del tutto lodevole. Diventa sempre più una realtà. L’uomo dispone oggi dei mezzi per determinare il suo destino. Ecco perché diviene urgente sapere se la decisione di libertà che occorre per questo sarà presa a favore della continuazione dell’avventura umana o della sua interruzione.
Di cosa abbiamo bisogno per far pendere la bilancia verso la risposta positiva? I tempi moderni sono in grado di produrre molti beni. E non solo nell’ambito dei beni materiali. Dobbiamo a essi molti beni di carattere culturale, come lo stato di diritto, i musei aperti a tutti, la musica su cd a basso costo. Vi è una cosa tuttavia che i tempi moderni sono incapaci di dire: perché è un bene che ci siano degli uomini sulla terra. Abbiamo beni in quantità. Che sia bene che tali beni abbiano un beneficiario, questo non lo possiamo dimostrare.
O forse, sì, noi lo possiamo. Ma per farlo, bisogna credere a Colui che disse, nel sesto giorno della creazione, che il creato, nella sua totalità, è «molto buono».
L'Osservatore Romano