mercoledì 18 dicembre 2013

Il valore della circostanza concreta



Dichiarato santo il gesuita Pietro Favre. 

Pubblichiamo un articolo uscito nel gennaio del 1965 sul numero 45 della rivista di spiritualità ignaziana «Christus» scritto dal gesuita e storico francese Michel De Certeau (Chambéry 1925 – Parigi 1986), studioso di psicanalisi e scienze sociali.
(Michel De Certeau) Nell’ottobre del 1540, Pierre Favre lascia la città di Parma: il pellegrino si rimette in cammino, stavolta inviato in Germania per i colloqui tra riformatori e cattolici. Di città in città, a Worms, a Spira, a Ratisbona (1541), poi a Magonza e a Colonia (1544), dopo una missione in Spagna, discorre a lungo con gli ambasciatori, i nobili, i teologi di ogni Paese e di ogni ordine, venuti al seguito della corte imperiale o con i loro vescovi per qualche ultimo tentativo d’intesa con i protestanti; predica, tiene conferenze e incontri nei dintorni per rispondere alle domande che si moltiplicano. Ma soprattutto riceve i figli spirituali: vescovi, professori o monache che si rivolgono in numero sempre maggiore al teologo del cuore e all’umile maestro della conversione interiore; trasmette ai gruppi che crea qua e là l’urgenza di un rinnovamento cattolico; è docile agli eventi e agli uomini per essere ovunque il servitore dello Spirito, di volta in volta delegato presso l’imperatore Carlo V dai cattolici di Cologna, richiesto dall’arcivescovo di Magonza per consultazioni, chiamato dai certosini di Colonia, sempre in cammino, sempre vigile a discernere dove il Signore «apre una porta» e dunque attento a tenere le porte aperte a tutti.
Fedele a questi imprevedibili maestri — lungo il cammino si rallegra addirittura di “servire” i desideri del suo mulo — viene pian piano rinnovato da tutto ciò che impara a conoscere. Le rovine del cattolicesimo tedesco gli si rivelano man mano che ne viene ferito, ma tutte quelle miserie sviluppano in lui una sorta di prolungamento intimo della pietà divina, «grandi rami di amore e di carità». Il dilatarsi dell’anima va di pari passo con l’attiva disponibilità dell’apostolo. Gli interlocutori, e persino quanti vengono chiamati avversari, aprono nella memoria del cuore nuovi colloqui con Dio; e nello stesso momento in cui appare all’instancabile pellegrino, la geografia di una crisi ecclesiale s’interiorizza subito in un mondo di preghiera. Divenute la sua storia spirituale, le circostanze dei suoi ministeri fanno invece nascere in lui il desiderio di altri incontri e la speranza di rispondere ad appelli ancora inascoltati. E quando queste vie si dimostrano infine impossibili, l’insuccesso raddoppia le aspirazioni di una devozione missionaria che cerca a tentoni nuove aperture: «Nostro Signore sa perché non merito di restare a lungo in un posto; perché generalmente mi si richiama nel momento in cui arriva il meglio, con la stagione riservata alla messe. Finora vedo però che tutto è stato per il meglio, di modo che a nessun prezzo vorrei non aver lasciato Roma per Parma, Parma per la Germania». (Magonza, 7 novembre 1542).
Testimoniata dall’intensa vibrazione di questi desideri e di queste amicizie, di queste speranze e di queste paure, la risonanza degli incontri crea legami sempre più intimi con la regione in cui le “miserie” sono più grandi e la generosità più rara. Ma i viaggi, gli sradicamenti e l’obbedienza stessa agli ordini rivelano anche, e sempre di più, “lo Spirito universale” che dà profondità a ogni necessità particolare e all’attenzione privilegiata che essa richiede il suo senso religioso. A proposito della Renania, Favre scriverà presto a sant’Ignazio: «le raccomando subito Colonia e tutta la Germania, Paese per il quale supplico ognuno in particolare di nutrire un vero desiderio di generare spiritualmente operai». Che ognuno preghi dunque i santi e le sante di Colonia. Ma aggiunge: «Non lo dico per distogliere qualsivoglia persona dalla fonte dove tutte le creature sono più vive che in se stesse».
Se Favre non prende le misure della forza del luteranesimo quando vi vede la conseguenza di una caduta morale, questo radicamento nello Spirito lo porta a discernere più serenamente la natura del problema e quella del rimedio. Per lui i riformatori indicano ai cattolici l’esigenza di una riforma interiore. I fatti richiedono una conversione: «Occorrono argomenti di opere e di sangue. Le parole non bastano più, e neppure le ragioni». Una consapevolezza più acuta della sua vocazione missionaria accompagna una comprensione religiosa della situazione. L’evento è una porta che si apre.
L’intendimento stesso degli Esercizi come rinascita e conversione nello Spirito è legata all’esperienza apostolica di una riforma. Favre lo spiega in diverse lettere indirizzate al suo “reverendo amico”, Gérard Kalckbrenner, priore della certosa di Colonia, a quel tempo a capo del rinnovamento spirituale in Renania, e anche una delle persone con cui il savoiardo stringe un’“amicizia incredibile”. E lo fa innanzitutto a proposito di quei cattolici tiepidi che, nel constatare le cadute, temono per loro stessi “lo stato” dei protestanti, senza leggere nell’evento quello che significa per tutti: «Ma nessuno discerne la miseria stessa in cui siamo da lungo tempo. Non vogliamo cadere nello stato in cui non siamo ancora, ma non siamo feriti alla vista di quella tiepidezza e di quella morte con cui abbiamo fatto alleanza. Temiamo di diventare simili a coloro per i quali non c’è più pace, né fuori né dentro; ma, nell’attesa, non ci vergogniamo di esser restati, di essere stati tollerati così a lungo in quella condizione religiosa in cui, poco prima della loro caduta, si trovavano ancora quanti sono poi caduti» (12 aprile 1543).
Poco dopo, quando Carlo V si mostra sempre più deciso a risolvere con la guerra la questione protestante e l’arcivescovo di Colonia passa dalla parte dei principi luterani, in questa città si forma un gruppo di resistenti che riunisce personalità decise a difendere e ad alimentare un rinnovamento spirituale dei cattolici. Favre scrive nuovamente a Kalckbrenner: «Come ho spesso dichiarato qui in pubblico, le due mani dei costruttori della città sono occupate a tenere la spada contro i nemici. Perché dunque, gran Dio, non conserviamo una mano per edificare? Perché dunque non facciamo niente per riformare, non dico l’insegnamento della fede e delle opere (nulla manca in tal senso), ma la vita di tutte le categorie di cristiani? Perché dunque non veniamo riportati, attraverso la dottrina antica e moderna, alla condotta che fu all’inizio quella dei primi cristiani e dei santi Padri?» (12 marzo 1546).
Favre dovrà nuovamente lasciare la Renania; ma il concilio, lui lo sa, dovrà lavorare alla riforma interiore. Lo scrive a modo suo, una settimana prima della sua morte, che lo coglie a quarant’anni, in una lettera che rivolge a padre Laynez, anch’egli designato come teologo a Trento: «Possano lo Spirito Santo e i sentimenti spirituali di tutti i santi padri che hanno partecipato ai concili in passato essere con lei e con tutti coloro che hanno qualche responsabilità in questo santo concilio di Trento. Amen». 
Dolce dolce (Marc Lindeijer)
Quando, il 1o agosto 1546, a Roma, Pietro Favre morì, aveva soltanto quarant’anni. La sua breve vita può essere riassunta in poche righe: nato a Le Villaret (Savoia) il 13 aprile 1506; dal 1525 studente a Parigi per prepararsi al sacerdozio: qui incontra Ignazio di Loyola; ordinato prete il 22 luglio 1534, è stato lui, poco dopo, a celebrare la messa in cui i primi sette fondatori della Compagnia di Gesù pronunciano i loro voti; nel 1538 essi si presentano a Papa Paolo III per ricevere l’approvazione dell’Istituto e le prime missioni; l’anno seguente cominciano per Favre sette anni di viaggi in tutta l’Europa: Italia, Germania, Svizzera, Spagna, Belgio, Portogallo, anni in cui ha instancabilmente predicato, confessato e tenuto Esercizi spirituali, ma ha anche insegnato teologia e partecipato ai colloqui che avrebbero dovuto promuovere l’unità e la riforma della Chiesa.
Nell’aprile 1546 Favre parte da Madrid per il concilio di Trento, designato come perito dallo stesso Papa, ma durante il viaggio viene colpito dalla febbre terzana e, arrivato a Roma, muore.
Non è senza significato che proprio la tomba di Favre, il quale in vita aveva fatto di tutto per non farsi notare, sia andata persa quando nel 1568 si cominciò a costruire la nuova, splendente chiesa del Gesù, né che il processo di canonizzazione del “terzo compagno” sia rimasto indietro rispetto a quelli per il grande fondatore Ignazio e il grande missionario Francesco Saverio.
Ci voleva davvero un Papa venuto da lontano per strapparlo alle ombre della modestia, tanto preferite da Favre, e metterlo in piena luce elevandolo al ben meritato onore degli altari. Si sa ormai quanto questo “prete riformato” sia un modello di vita per Papa Francesco, e quanto sia stata voluta da lui, fin dall’inizio del suo pontificato, la sua canonizzazione. Nell’intervista con padre Antonio Spadaro, egli ha delineato in sette parole chiave il profilo spirituale del nuovo santo: «Il dialogo con tutti, anche i più lontani e gli avversari; la pietà semplice; una certa ingenuità, forse; la disponibilità immediata; il suo attento discernimento interiore; il fatto di essere uomo di grandi e forti decisioni e insieme capace di essere così dolce, dolce».
Che cosa aveva in mente il Papa quando, descrivendo Favre, si è fermato sulla parola “dolce”?
Forse pensava alla frase che Ignazio soleva dire di lui, lodando il suo dono di tenere gli esercizi spirituali: «Pietro fa sgorgare acqua dalla roccia». Forse pensava al suo desiderio di essere di aiuto a tutti, alla sua predilezione per i servizi umili. «Più ci si unisce a Dio — disse Favre — più abbondante è la benedizione che su tali umili lavori diffonde colui, alla cui dipendenza e secondo il quale essi sono svolti». Forse Papa Francesco guardava lo specchio delle opere di Pierre Favre, le opere di riforma interiore che fortificarono la Chiesa del suo tempo.
Così fece il priore della certosa di Colonia quando scrisse, nel 1543, che Favre, con la sua amabilità, sapeva toccare anche il cuore inaridito e infiammare di nuovo la fede quasi estinta, per mezzo delle sue parole e opere che testimoniano l’amore e la misericordia di Dio per l’uomo peccatore. Questo uomo di Dio, il priore sperò di vederlo presto, perché lo dirigesse, mediante gli esercizi, alla sua riforma interiore e all’unione con Dio. Infatti è a questo livello, in cui l’uomo impara a dialogare con Dio e sentirne il mistero. È qui che si prendono le grandi decisioni, sia per la vita personale sia per la Chiesa. 
Appunti preziosi (Anton Witwer)
Il Memoriale tenuto da Pietro Favre durante i suoi tanti viaggi, da giugno 1542 al gennaio 1546, ci dà un accesso privilegiato al suo modo di sentire e di pensare. Nello spirito degli Esercizi spirituali di sant’Ignazio vuole ricordare gli stimoli ricevuti durante la preghiera per la ripetizione: modi e intenzioni di preghiera, invocazioni di santi, propositi e così via. Anche se all’inizio si tratta ancora fortemente dell’attività umana e dell’acquisizione ascetica, il Memoriale non è un protocollo dei “successi”, ma il ricordo delle grazie e degli impulsi di Dio, cioè egli annota ciò che sente, “riceve” e “avviene”. È prima di tutto un atto di fedeltà, con cui non vuole perdere neanche le briciole che vengono dalle mani di Dio. Mantenendo presenti le singole esperienze spirituali, riconosce, considerandole a posteriori, che l’operare di Dio non è solo puntuale ma forma una linea; quanto più il diario progredisce, tanto più è d’aiuto a Favre nel riconoscere come Dio lo ha guidato. Lo sguardo retrospettivo si trasforma così in modo crescente nella fedeltà alle linee tracciate da Dio nella sua vita.
La natura del Memoriale e la sua valutazione interna ci fanno capire che esso è degno di fede per quanto esso ci rivela della santità del gesuita itinerante. Anche se si tratta delle annotazioni personali dello stesso Favre, si possono applicare a queste memorie spirituali le parole di Gesù: «Se fossi io a testimoniare di me stesso, la mia testimonianza non sarebbe vera. C’è un altro che dà testimonianza di me, e so che la testimonianza che egli dà di me è vera» (Giovanni, 5, 31-32). È Dio infatti che rende testimonianza di Pietro Favre come strumento nelle sue mani, e di come Egli guida le persone interiormente aperte verso l’unione crescente con Lui.
C’è ancora un altro motivo per attribuire un’importanza particolare alla testimonianza che il Memoriale ci dà del suo autore.
Sebbene non sia stato ritrovato finora l’autografo, l’ampia diffusione di questi “scritti del padre Pietro Favre” tra le prime generazioni di gesuiti significa una doppia conferma dall’esterno: al pari dell’autobiografia di Ignazio e dei racconti di altri “primi padri”, il Memoriale era considerato un documento storico-spirituale sugli inizi della Compagnia di Gesù, i quali hanno tutti la stessa caratteristica, indicata bene dalle parole del padre Geronimo Nadal nel prologo all’autobiografia di Ignazio: «domandai al Padre [Ignazio] e lo supplicai che ci volesse esporre come il Signore lo aveva guidato dall’inizio della sua conversione, affinché quel racconto potesse avere per noi valore di testamento e di direttiva paterna». D’altra parte, proprio la diffusione di questo diario privato, testimoniata dalle molte copie fatte e dalla sua versione latina, indica la grande fiducia che i primi gesuiti avevano in queste annotazioni di Favre come testimonianze autentiche del suo cammino spirituale e della continua ricerca del vivere pienamente in unione con Dio. 
Qui di seguito riportiamo alcuni brani tratti dal Memoriale.
Agli inizi di una vita migliore, di solito è nostra prima preoccupazione, e non abbiamo torto, di rendere noi stessi graditi a Dio preparandogli nel nostro corpo e nel nostro spirito una dimora corporea e spirituale. Ma arriva il momento (e lo Spirito Santo stesso con la sua unzione lo insegna a chiunque procede con dirittura) in cui ci è domandato di tendere non tanto ad essere amati da Dio, quanto ad amarlo. Ciò significa non essere specialmente dediti a vedere come egli sta in noi, bensì a cercare com’egli sia in se stesso e nelle altre cose, e quel che in maniera assoluta piaccia o dispiaccia a lui in codesto suo mondo.
La prima attitudine sta nel tirar Dio a noi stessi, la seconda invece sta nel portar noi a Dio; con la prima cerchiamo che egli si ricordi di noi e se ne prenda tutta la cura possibile; con la seconda siamo noi a volerci ricordare di lui, e ad essere intenti a tutto quel che gli piace; con la prima ci incamminiamo al perfezionamento del timore autentico e della riverenza da figli, con la seconda siamo sulla strada del perfezionamento della carità. Il Signore dia quindi a me e a tutti di camminare con questi due piedi nel salire sulla via che porta a Dio, e cioè il vero timore e il vero amore.
Troppe preoccupazioni
In questo stesso tempo avvertii qualcosa di molto necessario per far ordine nell’intimo della propria vita, dei desideri e delle preoccupazioni e per ottenere pace, sia tra le occupazioni spirituali sia tra quelle corporali. Ciò mi avvenne riallacciandomi al detto di Gesù Cristo: «Non angustiatevi per il domani». Infatti anche nei desideri e impegni spirituali converrà il più possibile non darsi affanno per il domani. Ciascuno invece disponga delle sue ore e del tempo di ogni giorno in modo da non lasciarsi andare a divagazioni e apprensioni, gioiose o tristi, su ciò che dovrà succedere.
L’anima infatti divisa da troppe e molto differenti preoccupazioni, non può comporsi bene con il presente, né dedicarsi a questo con tanta pienezza, quanto potrebbe, se non avesse lo spirito disperso.
(26 giugno 1542)
Bisogno di pazienza
Dio (...) ritarda spesso i doni più perfetti e i frutti finali, perché nell’attesa noi impariamo ad apprezzare i doni meno alti e i mezzi che conducono al termine. Alcuni non desiderano altro che sentimenti spirituali in quanto propri delle loro anime. E li vorrebbero provare sensibilmente nel cuore, mentre essi di niente avrebbero più bisogno che di pazienza, o di una qualsiasi altra virtù, e non s’accorgono né sentono di mancarne.
Ma Dio vuole che prima di tutto possediamo l’anima nostra, e d’altro lato questa non può essere posseduta se non attraverso la pazienza, secondo la parola: «È per la vostra pazienza che possederete le vostre anime». E chi non possiede l’anima propria attraverso la pazienza come potrebbe possedere legittimamente Dio con la consolazione sensibile?
(24 giugno 1543)
Sulla strada della confidenza
Questo stesso giorno riflettevo, dopo la messa, sulle diversità di spiriti che spesso mi agitarono e mi fecero cambiare opinione a riguardo dei frutti che si possono sperare in Germania. Allora notai che non si doveva in nessuna maniera acconsentire a quello spirito che suggeriva tutto essere impossibile e metteva innanzi sempre le difficoltà. Badare piuttosto alle parole e impressioni di quello che scopre delle possibilità e suggerisce coraggio. Ma attenzione a non correre troppo a destra. Bisogna usare discrezione per sapere stare in qualche modo nel mezzo fra destra e sinistra, ed evitare così che alla buona confidenza si mescoli l’illusione alimentata dalla prosperità, e al nostro umore si aggiunga lo sconforto suggerito dalle strettezze. E se non è possibile evitare di deviare o da un lato o dall’altro, è più sicuro e meno pericoloso avviarci sulla strada della confidenza, come nel tempo di piena abbondanza, che ridurci per la via della tristezza, da cui nascono mille errori ed inganni, e proliferano poi amarezze e complicazioni.
(14 febbraio 1543)
Riformare nel fervore della carità
Lo vediamo già adesso, e in avvenire lo vedremo ancora meglio, che la carità si raffredda in molti. Sono pochi coloro che lavorano gratuitamente nelle opere di misericordia spirituale, alla maniera con cui ne parla Paolo quando dice: «La carità è servizievole, la carità è paziente». Quegli stessi che dirigono le opere caritative non sanno essere pazienti e servizievoli per davvero, né dare fiducia e sperare. Non possono sopportare alcun disturbo né soffrire con animo sereno le imperfezioni del prossimo. Di qui proviene che la soppressione di molti abusi, sia nella amministrazione della Chiesa, sia in quella dello Stato, avvenga spesso dietro la spinta di uno zelo glaciale ed amaro per la giustizia, piuttosto che nel fervore proprio della carità. Occorre allora che la carità possieda proprio le qualità enumerate da Paolo, altrimenti è destinata a raffreddarsi.
(5 aprile 1545)
Soprattutto la misericordia
Un altro giorno (...) mentre ascoltavo la confessione generale di una persona, mi fu concessa una profonda cognizione sul valore delle nostre opere di misericordia verso i vivi e i defunti. Questo pensiero mi commosse fino alle lacrime, pur non impedendomi di continuare a confessare il mio penitente. Riandando su questa materia, capii quanto sarebbe efficace, qualora si volesse sperimentare la misericordia di Dio nei nostri riguardi, esercitare noi stessi tale misericordia: ci accorgeremmo con facilità che Dio donerebbe in modo gratuito, se da parte nostra dessimo liberamente noi stessi e le nostre cose. E se noi fossimo misericordiosi nel campo delle necessità corporali, Dio si dimostrerebbe tale con noi, non solo rispetto a queste, ma pure per tutto quanto riguarda lo spirito.
(27 giugno 1543)
L'Osservatore Romano