giovedì 8 gennaio 2015

Neanche il diavolo...


Se il bicchiere è pieno

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di Costanza Miriano
Ieri mattina con mio marito abbiamo incontrato un santo. Si chiama Padre Aldo Trento e un sacco di gente lo conosce molto meglio di me, e da tempo, quindi forse non riuscirò ad aggiungere niente di nuovo, ma comunque non posso proprio tenermi tutto per me, per noi, il regalo che abbiamo ricevuto.
Padre Aldo Trento, come dice la mia amica Elisabetta, è un contenitore trasparente di misericordia. Trabocca misericordia ricevuta e la regala con ogni parola e ogni sguardo, pur non essendo affatto sdolcinato (ma anzi piuttosto incline al turpiloquio in caso di necessità).
Questa del contenitore trasparente è esattamente la stessa immagine che è venuta in mente anche a me mentre lo ascoltavo parlare, raccontare la sua vita in Paraguay e la storia che lo ha portato fin lì, ed è curioso che quando lo ho accompagnato alla stazione (sul mio cassonetto coi tergicristalli travestito da macchina) quella è stata proprio l’immagine con cui mi ha lasciata: “se il bicchiere non è tutto, completamente pieno di acqua, se c’è anche un minuscolo spazio vuoto, ci possono entrare altre cose, magari un moscerino,ma qualcosa entra. Se invece noi siamo tutti, completamente ricolmi di Cristo, allora niente può entrare. E per far questo occorre preghiera, e una fedeltà all’eucaristia e una frequenza massima del sacramento della confessione, che è l’unico che possiamo prendere anche cinquantamila volte nella nostra vita”.
“Io da quando la mamma mi ha fatto fare la prima confessione – ha raccontato Padre Aldo – non ho mai tralasciato di confessarmi almeno una volta alla settimana, a volte anche di più. Mai, mai tralasciato una settimana. E poi, l’altra cosa che mi ha difeso è stata l’obbedienza a qualcuno: io mi sono sempre fidato di Don Giussani, che ti guardava dentro, e aveva per ognuno una pedagogia particolare, individuale”.giussani_ppiano1R400
Padre Aldo, lo ha già raccontato lui più volte, si era innamorato, ricambiato, di una donna, una vedova mamma di tre figli, ma essendo già sacerdote aveva consegnato il suo cuore a Dio attraverso l’obbedienza a Don Giussani, rimettendo a lui la decisione, consegnandogli con uno sforzo immane la sua libertà. Don Giussani non lo sgridò, non gli fece la predica per gli sbagli commessi, ma anzi gli disse di accogliere la realtà che bussava, di non buttare niente di quello che provava, rimanendo nell’obbedienza. “Parti per il Paraguay” – fu però la sua risposta, che serviva a mettere una distanza tra lui e quella donna, per non perderla con il suo desiderio di possesso, che è poi il contrario del vero amore. Per quindici anni il Padre non ha dormito, e ha combattuto tutta una vita con la depressione. Ma di questo amore si è nutrita la sua opera laggiù, un’opera di una bellezza – dicono – impressionate (ospedali e chiesa e casa di accoglienza). Questo dolore, questa ferita, è stata la domanda che lo ha costretto a chiedersi “di chi sono io? A chi appartengo? A chi voglio piacere? Perché stare qui in questa fatica?”
La domanda che mi è venuta, perché io in fondo sono una borghesuccia che vuol fare la brava bambina, che ha paura di perdere la faccia, la reputazione, la stima della gente, è stata: “ma non ti sei mai rammaricato per avere fatto certi errori, per essere passato da questo dolore, non sarebbe stato meglio essere preservati?” No, perché dove c’è il peccato c’è la misericordia, altrimenti  rimani con una fede borghese, dove ti sistemi, vai avanti per abitudine, alla fine tutto ti va benino, ti sistemi nella tua vita, e Gesù Cristo diventa irrilevante (la ciliegina sulla torta, dice padre Emidio). Così invece nell’abisso del dolore Padre Aldo si è dovuto chiedere ragione della fatica, ha dovuto gridare a Gesù, lasciarsi riempire da lui, davvero, perché era una questione di vita o di morte. Perché fino a che non è così noi non ci convertiamo davvero a Cristo, non riconosciamo che lui è la nostra vita, ed è la nostra verità, non nel senso che è un dispensatore di norme morali vere ma esterne a noi. Cristo è la nostra verità perché noi senza di lui non siamo.aldo-trento_0-jpeg-crop_display
Ci vorrebbe uno scrittore per rendere la misericordia, la tenerezza con cui Padre Aldo parla dei suoi malati, di quelli che accompagna a morire, dei bambini violentati che accoglie, dei trans e degli omosessuali malati di Aids che credono di essere stati castigati, per i quali lui perde la vita a cercare di farsi Cristo a loro, quel Cristo che non giudica nessun peccatore ma perdona e ama e basta.
A un certo punto mentre descrivevo le polemiche intorno al Sinodo e le fazioni e guardavo la faccia stralunata con cui padre Aldo mi ascoltava, mi sono sentita così ridicola, così buffa… Lo so sono questioni importantissime, ma in lui c’è solo – il bicchiere è pieno – l’urgenza di amare, abbracciare, ascoltare, mettersi al fianco di chi sta male per dirgli: sto male anche io. Non ho soluzioni però posso stare male vicino a te, ti abbraccio e mi faccio veramente vicino vicino a te. E posso dirti da chi devi farti riempire il bicchiere, perché il nostro desiderio di amore alla fine è desiderio di infinito.

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Neanche il diavolo...

Come da tradizione, anche nel 2014 l’ultimo numero del settimanale Tempi è interamente dedicato ai “Te Deum”, i ringraziamenti per l’anno appena trascorso firmati da diverse personalità del panorama sociale, culturale e civile italiano e non solo. Nella rivista che resterà in edicola per due settimane a partire dal 31 dicembre, troverete, tra gli altri, i contributi di Angelo Scola, Asia Bibi, Louis Raphaël I Sako, Fausto Bertinotti, Luigi Amicone, Renato Farina, Mattia Feltri, Fred Perri, Pippo Corigliano, Annalisa Teggi, Alessandra Kustermann, Mario Tuti.
Pubblichiamo qui il “Te Deum” di padre Aldo Trento, missionario in Paraguay

Con il cuore traboccante di pace alla fine di quest’anno sento mie le parole del Te Deum. Un anno, il 2014, carico di avvenimenti che mi hanno fatto gioire e soffrire. Gioire perché ho visto tanti piccoli alberi fiorire. Più di 200 persone accompagnate a morire. Ultimamente quasi ogni giorno due persone lasciavano questo mondo per entrare in quello che san Pietro ci diceva nelle letture: cieli nuovi e terre nuove. Nel dolore di vedere le lunghe agonie che sembravano interminabili, sperimentavo la verità dell’esistenza: solo la certezza che l’uomo, che io sono relazione con il Mistero, non solo impedisce la disperazione ma rende il dolore della malattia una possibilità di uno sguardo sereno alla meta che si avvicina. Osservando il dolore dei miei ammalati ritrovavo e ritrovo il senso della mia spondilite che lentamente guadagna terreno, provocandomi a vivere con gli occhi fissi al Mistero fatto carne in Gesù che oggi vive nell’Eucaristia e nei miei ammalati crocifissi come Lui sulla Croce. Ogni volta che un paziente lascia questo mondo prima di chiudere la bara gli do un bacio sulla fronte riconoscendo così che anche il corpo, un giorno tempio dello Spirito Santo, risorgerà. La fronte è sempre fredda ma il calore del mio bacio esprime un pochino la tenerezza di Gesù. È davvero commovente accompagnare quelli che per il mondo erano immondizia a morire fra le braccia di Gesù. Se questa è la prima ragione per cui ringrazio Dio, la seconda è l’aver visto quelli che dieci anni fa erano bambini poveri, sporchi, destinati all’accattonaggio, terminare gli studi, iscriversi all’università e lavorare per mantenersi. Alcune sere fa abbiamo festeggiato questo avvenimento, impensabile alcuni anni fa, sottolineando il fatto che la provvidenza divina ha fatto bene il Suo lavoro. Vedere questi ragazzi di 17-18 anni felici, per tutti e per me in particolare è stata una commozione perché sono in missione per educare, per formare uomini, pescando nella miseria i bambini della scuola. Li prendiamo a tre anni per condurli fino a terminare le superiori.
Ma tutta questa grazia vissuta è passata attraverso prove morali che mi hanno scosso profondamente. Ad un certo punto dell’anno mi sono trovato in una bufera senza precedenti nella mia storia. Alcuni hanno pensato che ero diventato matto, che avevo perso “il bene dell’intelletto”. Molti amici mi hanno fatto compagnia, in particolare padre Julián Carrón, che non solo mi ha chiamato due volte ma si è offerto di venire, in giornata, a visitarmi. Anche Marcos e Cleuza mi sono stati vicini.
Scelto dall’eternità per un compitoHo sperimentato un pochino il grande dolore di Gesù nel Getsemani. I momenti di oscurità sono stati molti, fino al punto di pensare che sarei ricaduto in una nuova depressione. Ma la Madonna non lo ha permesso, come non ha permesso che questo piccolo quartiere della carità si trasformasse in una “ruina” come quelle dei gesuiti. Ho avuto giorni in cui mi avvolgeva l’oscurità e gridavo a Dio di mostrarmi il suo volto, di farmi capire se quest’opera era sua o di quel poveretto di padre Aldo, ritornello che ero abituato a sentire. In questa situazione, aiutato da alcuni amici, ho provato ancora una volta che il cammino della fede non può non fare i conti con la sofferenza e che solo l’io dal quale nasce un’opera è chiamato a riconoscere di essere relazione con il Mistero. È di questa certezza diventata ancora più radicale, che voglio ringraziare il Signore alla fine di un anno in cui ho visto come agisce il Mistero. Oggi più che mai mi sono chiare le cose. La prima è che mi ha scelto dall’eternità per un compito ben preciso resosi manifesto nel tempo. Le opere di carità sono il frutto di questa elezione. La seconda è che se un’opera è di Dio neanche il diavolo può distruggerla. Per cui, accada quello che accada, il mio io riposa in Gesù. Possono togliermi tutto, le opere possono finire ma nessuno potrà togliermi Gesù.

Tempi