lunedì 26 gennaio 2015

Memoria vera e non un cliché


Settant’anni fa venivano abbattuti i cancelli di Auschwitz. 

(Andrea Possieri) Settant’anni fa, la mattina del 27 gennaio 1945, la 60ª Armata del primo fronte ucraino dell’esercito sovietico giunse nella cittadina polacca di Óşwieçim. Nel primo pomeriggio le truppe sovietiche, comandate dal maresciallo Ivan Konev, abbatterono i cancelli del campo di sterminio di Auschwitz e liberarono i circa settemila prigionieri rimasti ancora in vita.
Nelle settimane precedenti, infatti, a partire dal 17 gennaio, decine di migliaia di reclusi erano stati evacuati attraverso le cosiddette marce della morte, le Todesmärsche, e solo il giorno che precedette la liberazione del campo, il 26 gennaio, era stato fatto esplodere l’ultimo forno crematorio.
Il campo di sterminio di Auschwitz è ormai diventato un sinonimo del genocidio degli ebrei, oltre che un luogo della memoria di incomparabile significato simbolico. Con il passare del tempo, però, stanno scomparendo i testimoni diretti della Shoah.
I sopravvissuti di oggi sono essenzialmente i bambini di allora, che riuscirono a salvarsi da quel girone infernale.
È il caso, ad esempio, dell’italiana Liliana Segre, all’epoca tredicenne, che ha descritto la sua esperienza nel «buco nero» di Auschwitz nel libro La memoria rende liberi (Milano, Rizzoli, 2014, pagine 225, euro 17,50) e dell’ungherese Peter Lantos che venne deportato ad appena cinque anni a Bergen-Belsen e che oggi ha raccontato «il suo viaggio nell’Olocausto» in un volume intitolato Tracce di memoria (Firenze, Giunti, 2015, pagine 288, euro 14,90). Non casualmente in entrambi i titoli compare la parola memoria. Quella della Shoah è, innanzitutto, una memoria che ha avuto una larghissima rappresentazione nel discorso pubblico occidentale — raccontata attraverso musei, opere d’arte e in una miriade di libri, il cui lavoro di scrittura, ha detto Elie Wiesel, è stato «una tomba invisibile eretta alla memoria dei morti senza sepoltura» — ma è anche una storia drammaticamente negata: la diffusione del negazionismo digitale è solo la nuova frontiera di un fenomeno scivoloso e pericoloso che ha radici profondissime nella storia europea.
Quella della Shoah è poi anche una memoria ratificata per legge — nel 1959 in Israele, nel 2005 attraverso una risoluzione dell’Onu (solo per ricordare le più importanti) — che però non è stata esente da tensioni pubbliche: basti pensare che nel gennaio del 1995, in occasione del cinquantenario della liberazione di Auschwitz, sulla stampa si parlò di una presunta «polonizzazione» della celebrazione; oggi molti giornali, invece, hanno sottolineato l’assenza del presidente della Federazione Russa, Vladimir Putin, dalle commemorazioni ufficiali in Polonia.
Una memoria amplissima e contesa, dunque, che a volte, come ha denunciato Liliana Segre, è diventata perfino un «argomento di moda», un «cliché» narrativo che ha «banalizzato l’Olocausto». Una memoria che, però, proprio per questi motivi, è diventata una necessità per almeno tre motivi.
Una necessità etica impellente, innanzitutto, per affrontare i preoccupanti rigurgiti di antisemitismo che si registrano nella società odierna. Samantha Power, l’ambasciatore americano all’Onu, durante la recente riunione straordinaria dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite dedicata all’antisemitismo, ha drammaticamente sottolineato come l’antisemitismo sia profondamente radicato negli Stati Uniti, dove ben due terzi dei crimini basati sull’odio sono commessi contro gli ebrei.
Un recente sondaggio, inoltre, realizzato a Londra dal «Campaign Against Anti-Semitism» ha rivelato che ben il 54 per cento degli ebrei britannici ritiene di «non avere futuro in Gran Bretagna» e addirittura il 58 per cento è convinto di «non avere futuro in Europa» nel lungo periodo. Oltre a ciò, come secondo motivo, ricordare l’Olocausto è una necessità culturale inderogabile per l’Europa e la cultura occidentale perché la Shoah non è solo una ferita sanguinante sul corpo dell’umanità, ma è, prima di tutto, una «cicatrice che appartiene all’intera Europa» — un prodotto estremo della crisi della civiltà europea del XX secolo — e poi una cesura inequivocabile nella storia occidentale. «Non è l’Olocausto che stentiamo a cogliere in tutta la sua mostruosità — ha scritto Zygmunt Bauman — ma è la nostra civiltà occidentale che l’Olocausto ha reso praticamente incomprensibile».
D’altronde Auschwitz, come disse il cancelliere Helmut Kohl il 27 gennaio 1995, è stato «il capitolo più oscuro, terribile e vergognoso della storia tedesca» e ciò che è «accaduto ad Auschwitz mostra l’abisso del male di cui sono capaci gli esseri umani».
La memoria della Shoah, infine, è anche una necessità politica importante perché come ha affermato Bernard-Henry Levy, sempre nella recente Assemblea dell’Onu, «la comprensione dell’Olocausto ci rende meglio capaci oggi di riconoscere e rispondere ad altri genocidi, come quello della Bosnia ed Erzegovina o del Ruanda».
Si è molto discusso in questi decenni sull’unicità della Shoah. Oggi, la maggioranza degli storici è portata a riconoscere la singolarità del genocidio ebraico: un genocidio compiuto su basi esclusivamente razziali, in cui i nazisti, per usare le parole di Hannah Arendt, hanno voluto «decidere chi dovesse e chi non dovesse abitare questo pianeta».
L'Osservatore Romano