martedì 27 gennaio 2015

Il grido di Auschwitz




L’antisemitismo accresce l’immigrazione ebraica dall’Europa. Ritorno in Israele

La crescita esponenziale dell’aliyah, l’immigrazione ebraica nella terra d’Israele, riflette il malessere di molte comunità ebraiche europee che dura da anni e si acuisce costantemente. I persistenti problemi di molte economie si sommano alla percezione di un crescente razzismo e antisemitismo nella società. È l’analisi del demografo Sergio Della Pergola, dell’Università ebraica di Gerusalemme, contenuta nel numero di febbraio di «Pagine ebraiche», mensile dell’Unione delle comunità ebraiche italiane. Un fenomeno che riguarda soprattutto la Francia e che i recenti tragici fatti di Parigi hanno acuito. «L’entità e il calendario delle migrazioni, anche quelle verso Israele, seguono soprattutto motivazioni economiche e se del caso politiche, e solo in secondo luogo motivazioni ideologiche», scrive tra l’altro Della Pergola, secondo il quale «queste ultime determinano soprattutto la scelta del paese di destinazione, Israele o altro».
Il fatto certo è l’aumento molto notevole dell’aliyah nel 2014: oltre 6.500 arrivi dalla Francia, primato di tutti i tempi per questo Paese, e 323 dall’Italia, secondo risultato di sempre dal 1950.

Secondo l’indagine, condotta da Della Pergola assieme a un ricercatore dell’Università di Cambridge in nove Paesi dell’Unione europea, già nel 2012 il 52 per cento degli ebrei francesi e il 41 per cento dei belgi contemplavano la possibilità di emigrare. In Italia questa ipotesi interessava il 22 per cento della comunità. Oggi, dopo la strage di Parigi, queste cifre sono certamente superiori. Secondo la stessa indagine, il 68 per cento degli ebrei in Italia, Germania e Regno Unito e l’89 per cento in Francia e in Belgio percepivano un incremento nei livelli di antisemitismo nei cinque anni precedenti, assieme a un aumento del razzismo in generale nelle rispettive nazioni. Quasi il 30 per cento degli ebrei italiani dichiarava di aver subito molestie antisemite negli ultimi dodici mesi, livello molto simile a quello degli ebrei francesi e belgi. Il 20 per cento riportava l’impressione di essere stato discriminato a causa della propria appartenenza religiosa, il quattro per cento aveva subito atti di vandalismo, il due per cento di aggressione fisica (una persona su cinquanta); in Francia e in Belgio il livello era quattro volte superiore. L’antisemitismo — scrive Della Pergola — «infesta in primo luogo le reti virtuali dove per il 61 per cento degli ebrei italiani il problema è grave, per il 24 per cento il problema è grave nei mezzi di comunicazione e stampa, ed è serio per un altro 36 per cento, e in aumento dappertutto».
Nell’imminenza del Giorno della memoria (che oggi ricorda la Shoah in gran parte dei Paesi occidentali), Israele — riferisce l’Ansa — ha lanciato l’allarme sulla crescita del pregiudizio antiebraico con un rapporto del ministero della Diaspora discusso dal Governo, nel quale si indica un aumento (nel 2014 rispetto al 2013) del 100 per cento degli atti antisemiti in Francia, considerato oggi il Paese occidentale più pericoloso per gli ebrei, dove è più presente l’antisemitismo di matrice islamica. Secondo il rapporto, in Francia, dove gli israeliti rappresentano meno dell’1 per cento della popolazione, «i livelli di antisemitismo e violenza contro gli ebrei hanno raggiunto nuovi picchi». Tra le varie forme di antisemitismo, il dossier presentato al Governo israeliano indica appunto in testa quello di matrice islamica: «La fonte del nuovo antisemitismo non è solo quello tradizionalmente neonazista; la sorgente di larga parte dello spirito antiebraico in Europa arriva dagli europei di origine musulmana. La maggior parte degli incidenti riportati sono stati commessi da musulmani, specialmente nelle nazioni con larghe comunità islamiche».
Oltre alla Francia, la ricerca ha preso in considerazione Regno Unito, Belgio, Paesi Bassi, Germania, Australia, Turchia, Stati Uniti, Argentina e i Paesi dell’ex Unione Sovietica. Dopo aver ricordato i recenti tragici fatti avvenuti in Europa (prima e dopo la strage al settimanale «Charlie Hebdo»), il rapporto mette in guardia che «una delle maggiori minacce per gli ebrei arriva dall’islam radicale che si sta diffondendo nelle comunità musulmane nel mondo». Nello stesso giorno in cui è stato diffuso il rapporto curato dal ministero israeliano, l’Organizzazione sionista mondiale ha reso noti i risultati di un sondaggio — anch’esso ripreso dall’agenzia Ansa — effettuato tra gli ebrei della diaspora in vista del Giorno della memoria che in Israele si celebra in aprile o a maggio con il nome di Yom HaShoah. Dai risultati emerge che il 55 per cento degli intervistati in Europa sostiene di non sentirsi al sicuro nel proprio Paese e di avere paura di camminare in pubblico con indosso vestiti o simboli ebraici.
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A settant’anni dall’abbattimento dei cancelli del lager. 

«Senza dubbio la cosa più importante di questo anniversario è poter ascoltare ancora i testimoni di quelle orribili giornate, e far sentire di nuovo il grido delle vittime» ha detto il cardinale Stanisław Dziwisz, arcivescovo di Cracovia, alle celebrazioni per il settantesimo della liberazione del campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau alle quali partecipano trentotto delegazioni provenienti da tutto il mondo e ben quindici capi di Stato. E anche oggi, 27 gennaio, data in cui viene ricordato l’abbattimento dei cancelli, nel 1945 da parte dei soldati sovietici, di uno dei simboli più cupi della furia totalitaria del Novecento, e dichiarato Giorno della memoria delle vittime della Shoah, ad Auschwitz sono tornati diversi sopravvissuti.«Finché i testimoni sono ancora tra noi — ha continuato il cardinale durante la messa concelebrata insieme al nunzio apostolico in Polonia, arcivescovo Celestino Migliore, presso il Centro per il dialogo e la preghiera — bisogna far sentire la loro voce. E bisogna aiutare il mondo ad ascoltare queste parole perché si avvicina il tempo in cui la memoria sarà trasmessa solo da documenti, libri, film e interviste. Soprattutto le giovani generazioni devono sapere quello che è successo per impostare nel modo più giusto la loro vita». E infatti sono state le parole di Halina Birenbaum (85 anni, nata a Varsavia), di Kazimierz Albin (93 anni, nato a Cracovia) e di Roman Kent (86 anni, nato a Lodz) a ricordare al mondo gli orrori del nazifascismo in apertura della solenne cerimonia, svoltasi sotto la neve.

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Ripubblicato «L’Olocausto» dello storico americano David Engel. Modernità di uno sterminio


(Anna Foa) La ripubblicazione de L’Olocausto (Bologna, Il Mulino, 2014, pagine 207, euro 13,50) dello storico americano David Engel, uscito per la prima volta nel 2000, è un buon tributo alla celebrazione della Giornata della memoria, che pur offre una vasta messe di nuovi studi, romanzi e iniziative. Il volume è al tempo stesso un’agile sintesi di storia della Shoah e una riflessione aggiornata sui principali temi e problemi in discussione e rappresenta quindi un’opera di divulgazione alta, attenta alle più recenti acquisizioni della storiografia.
Engel inizia da un problema molto specifico e di grande interesse ancor oggi, quello del perché continuare a studiare lo scontro tra il Terzo Reich e gli ebrei. Questo è utile, afferma, se «studiare la vicenda dello sterminio degli ebrei perpetrato dai nazisti» ci consente di «imparare qualcosa di importante sugli esseri umani (e, in questo modo, su noi stessi) più facilmente che prendendo in considerazione altri eventi simili». Di qui, due generi di questioni. La prima è quella della cosiddetta “unicità” della Shoah, e del rapporto tra di essa e gli altri genocidi che costellano il Novecento. L’altra è quella di come studiare la Shoah, se cercando di sottoporla alle analisi rigorose della storia o invece, come molti hanno sostenuto, rispettando un suo nucleo centrale di oscurità e di mistero, che permarrebbe al di là di ogni spiegazione e che proverrebbe dall’assoluta estraneità dell’universo nazista rispetto a quello del resto dell’umanità, come ha sottolineato lo storico americano Saul Friedländer.

Come altri studiosi, Engel è però convinto che questa estraneità non possa e non debba impedire la comprensione razionale e quindi l’analisi storica a tutto campo. E il libro è infatti un libro di storia, quella di come il regime nazista abbia messo in moto la politica verso gli ebrei, delle trasformazioni di tale politica attraverso un percorso tortuoso che va dall’emigrazione all’ipotesi di una grande riserva di ebrei allo sterminio, attraverso la guerra, l’operazione Barbarossa, la creazione dei campi. Una narrazione che tocca quindi necessariamente tutti i problemi che l’analisi della Shoah lascia ancora aperti e dibattuti: da quello dell’intenzionalità o meno dello sterminio, che divide gli interpreti tra “intenzionalisti” e “funzionalisti”, tra quanti cioè sottolineano l’intenzione, espressa fin dal Mein Kampf da Hitler, di sterminare gli ebrei, e quanti invece sottolineano la funzione che la guerra, con l’acquisto di milioni di ebrei nella Polonia occupata e poi in Russia, ha avuto sulla decisione della “soluzione finale”, cioè dello sterminio indifferenziato di ogni ebreo europeo, uomo, donna o bambino che fosse.
Parti importanti del volume sono dedicate alla conoscenza che si ebbe dello sterminio, alle reazioni ebraiche, alla politica dei Consigli dei ghetti nazisti, alle resistenze, alle complicità e agli aiuti delle leadership e delle popolazioni locali, consentendo di illuminare, oltre che l’universo delle vittime e quello dei carnefici, anche quello di quanti erano loro intorno, hanno taciuto, hanno reagito, sono rimasti indifferenti. Un altro tema importante del libro è quello posto da Baumann della «modernità dell’Olocausto», con la sua burocrazia, i trasporti, le camere a gas, simili al funzionamento di una fabbrica della morte. Una modernità messa in discussione da studi recenti, volti a sottolineare l’importanza della cosiddetta «Shoah attuata attraverso la fucilazione», gli immani massacri compiuti dalle Einsatzgruppen in Polonia e in Urss. Quel che rende unica la Shoah è dunque davvero la sua modernità, il suo essere basata su una divisione tayloristica del lavoro di morte? si domanda Engel. O anche questa è un’immagine da ridimensionare e ridiscutere?
L'Osservatore Romano

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Pio XII, il film-inchiesta: “Fu lo Schindler del Vaticano, non il Papa di Hitler”
Il Fatto Quotidiano
 
(Francesco Antonio Grana) Anteprima mondiale di "Shades of Truth" presso la Santa Sede il prossimo 2 marzo, anniversario della nascita e dell’elezione di Pacelli, ancora accusato di essere stato filonazista. La regista Liana Marabini: "Salvò dalla deportazione 800mila ebrei"

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Dagli armeni alla Shoah, il Novecento secolo dei genocidi
L'Espresso

Quando si parla di genocidi, deportazioni di massa, uccisioni su scala industriale; quando ai nostri occhi di spettatori postumi si presentano immagini di uomini, donne, bambine e bambini (tanti) condotti verso la morte (da pochi), è difficile reprimere l’impulso di chiedere: «Ma perché non si sono ribellati?» (...)